La maledizione ciclistica di Filippo Tommaso Marinetti

paciarotte

Foto M. B. Fashion

Ci sono immagini davvero rivelatrici, a ben guardare. Come quella, spesso riprodotta anche in gigantografia su qualche parete di centro commerciale o altro spazio pubblico, di un elegante signore che cavalca orgoglioso una bicicletta. Vestito impeccabile, coi baffetti girati all’insù e presumibilmente impomatati quanto è unta la catena, cappello di paglia d’ordinanza, un impettito Filippo Tommaso Marinetti taglia il traguardo fra XIX e XX secolo presumibilmente applaudendosi da solo. Portamento fiero, sguardo che scruta profondo in avanti, come si addice a un futuro futurista, pare scrollarsi di dosso anche quel minimo di soggezione della strada che caratterizzava ai suoi tempi anche i più eroici pionieri delle due ruote, i Three Men On The Bummel raccontati da Jerome nell’epica traversata della Germania. Poi le due ruote a pedali scompariranno da lì a poco nel rombo e nella polvere sollevata dall’automobile, che sputa fuoco ed è per questo «più bella della Vittoria di Samotracia», come recita il Manifesto del Futurismo pubblicato nel 1909 dalle pagine del Figaro. Ma resta impressa comunque indelebile quell’idea di ciclismo maschile, conquistatore, perentoriamente convesso. E fosse necessaria una conferma, la si può trovare culturalmente lì accanto, nel pittore futurista Mario Sironi, che prima si fa fotografare in bici a Parigi nel 1906, di fianco a una signorina rigorosamente appiedata, e dieci anni più tardi dipinge il suo Ciclista mentre sfreccia per le vie della periferia industriale milanese, magari schivando camion e carrelli, bardato con la medesima divisa formale e paglietta del Marinetti della foto, e chino su un manubrio classicamente da corsa.

L’eroe Lycra-clad della Marvelbike

Ci sta tutta, insomma, l’attuale piccola polemica fra quei ciclisti avvolti in tutine fosforescenti, a cavallo di mostri tecnologici da migliaia di dollari al colpo, e un resto del mondo che magari vorrebbe pedalare semplicemente a fare spesa, o a portare a scuola i figli. Attività che è impossibile praticare se la città non smette pure lei di essere ancora così improntata agli strascichi delle avanguardie novecentesche. Perché proprio di questo si tratta: la metropoli novecentesca delle macchine per abitare lavorare e consumare, l’organismo bio-meccanico con l’energia che si pompa attraverso le arterie stradali dominate dal motore a scoppio (zang-tumb-tumb!) discende esattamente dalla medesima cultura delle avanguardie a cui appartenevano i futuristi, e pare proprio riprodurne la maschia sprezzante sfida quotidiana, che esclude o emargina approcci un po’ diversi. Forse non lo sanno in tantissimi, che Jane Jacobs si spostava quotidianamente in bicicletta da casa al Greenwich Village sino all’ufficio a Midtown, su un percorso medio che le consentiva di osservare e sperimentare tante delle contraddizioni poi confluite nei suoi scritti. I quali partivano proprio da questa centrale necessità di smussare gli angoli della macchina tritatutto, di renderla un po’ meno patrigno e più mamma: sarebbe funzionata lo stesso benissimo, anzi meglio, anche così. Oggi col vivace dibattito sulla mobilità dolce (si spera non tarpato dal crollo del costo del petrolio) la medesima prospettiva coinvolge anche direttamente l’uso della bicicletta, che specie là dove essa non ha una forte tradizione popolare appare troppo sbilanciato verso usi sportivi, ovvero più o meno discendenti da quell’idea competitiva marinettiana.

Non solo tempo libero

È un dato di fatto, che il ciclismo emargina le donne: sia in quantità assolute che nel tipo di utenza caratteristicamente femminile (ma praticatissimo anche dai maschi naturalmente) più legato alla fruizione di servizi e spazi pubblici o privati. Tantissime amministrazioni privilegiano per un motivo o per l’altro l’investimento in infrastrutture molto più caratterizzate verso spazi aperti, parchi, riserve, o verde sportivo attrezzato, e meno interventi “minori” sulle prestazioni dei percorsi urbani a rete, necessariamente tortuosi e assai più difficili da ricondurre al solito rettifilo della pista ciclabile lungo il viale della stazione, ma che poi si perde nel nulla sia sul lato dei quartieri residenziali, sia su quello del distretto centrale, di solito pericolosissimo. Ed è ancora un dato di fatto, che ai corsi e seminari sulla sicurezza per chi va in bicicletta abbondino soprattutto i consigli specifici per signore, sugli accorgimenti per evitare questo o quell’errore, nei comportamenti, o addirittura nel look. Eh si, parrebbe quasi incredibile, ma siamo anche a quello: esiste un problema di look femminile politically correct che affermi anche esteriormente una verità: girare in bicicletta, per le donne soprattutto (e per gli uomini intelligenti che oltre al testosterone hanno un po’ di cervello), non è affatto un problema di competizione, di sfida, di affermazione dell’ego. Solo un modo come un altro per spostarsi ed essere sé stesse. Hai detto poco.

Riferimenti:

Lucia Graves, There’s a Biking Gender Gap. And It Has a Real Economic Impact, National Journal, 8 dicembre 2014

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