La megacittà non è solo dei poveracci

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Tavola da «Plan Melbourne»: le municipalità

Alzi la mano chi, di fronte alla pur frequente parola «megacittà», non fa scattare una serie di stereotipi che ne distorcono immediatamente il senso. In particolare, la nostra fantasia resa vagamente morbosa dal bombardamento mediatico, non può fare a meno di evocare immagini certamente confuse, ma che non mancano mai di citare elementi quali un immancabile, sterminato slum, magari bisecato dai tracciati sopraelevati di arterie a grande scorrimento o ferroviari, e spruzzato da enclave di spazi aperti di dubbia qualità, nonché dagli immancabili distretti centrali (o decentrati) terziari, torri e pareti a specchio, che incombono su tutto il resto, magari riflesse in qualche baia portuale o specchio d’acqua artificiale che dir si voglia. Questo minestrone di immagini e sensazioni, detto in breve, non si chiama «megacittà», ma in modo più preciso e onesto caricatura della «megacittà povera», del genere cresciuto soprattutto nel corso dell’ultima generazione neoliberista in tanti paesi che definiamo dalle nostre parti in via di sviluppo, spesso senza neppure chiederci cosa si intenda esattamente con quel termine, proprio come con la grande città. La quale megacittà sta invece a designare qualunque entità urbana di diversi milioni di abitanti, il cui sviluppo, che forse qui dovremmo correttamente chiamare «sviluppo del territorio», è tutto da verificare in termini di alcune qualità.

Di cosa parliamo?

Dietro alla megacittà di solito sta un nome, ovvero la possibilità di ricondurre amministrativamente, storicamente, in qualche modo anche urbanisticamente, un territorio urbanizzato a quel solo nome. Magari dal punto di vista fisico si può trattare di territori immensi amministrati da una entità centrale, come in certi paesi, o di gruppi di entità municipali minori aggregate e parzialmente o totalmente conurbate nel tempo. In certi paesi, dove ad esempio esiste una forte tradizioni di autonomia municipalista o addirittura campanilista, si parla di sistemi urbani, la grande città estesa su enormi territori esiste, ma la vedono solo gli specialisti, ecologi geografi sociologi o planners. Ma anche restando entro ambiti diciamo così di normalità, posti come Parigi, Londra, New York, sia considerati dal punto di vista amministrativo che soprattutto della realtà insediativa e socioeconomica, sono senza dubbio megacittà paragonabili a quelle canoniche più povere e paradigmatiche. Ma esattamente come nella confusa immagine della metropoli povera che si evocava all’inizio, anche la forma vuole la sua parte: insomma c’è una città che è molto più vera dell’altra. La parola chiave qui possiamo chiamarla sprawl, inteso nella sua forma classica di uso scomposto della superficie territoriale. Quel fenomeno che appunto riesce a trasformare anche loro malgrado nuclei urbani distinti in una marmellata potenziale megacittà.

Povera città ricca

In Australia parrebbe non esserci alcuno spazio per il genere di visioni evocate dal nostro immaginario conformista, e invece la questione urbana, energetica, territoriale e di sviluppo nazionale è assai avvertita. Perché nonostante la tradizione apparentemente di discendenza britannica del planning (e non solo, per esempio il piano di Canberra è uno di quelli fondativi dell’urbanistica moderna), gli sviluppi della seconda metà del ‘900 hanno ignorato il concetto di greenbelt, e per un motivo apparentemente logico: non ce ne era alcun bisogno, in presenza di spazi infiniti. Non dimentichiamo infatti che l’idea originaria di fascia di tutela a verde storicamente nasce per definire i nuclei urbani singoli e tutelarli dalla conurbazione con altri simili: nei territori di nuovissimo insediamento come l’Australia (o l’America se è per questo) accade invece che il nucleo sia uno solo. In alcuni casi la politica della greenbelt ha assunto la denominazione di UGB, sigla che sta per urban growth boundary, ma dietro la denominazione diversa si nasconde anche una sottile distinzione culturale. Il margine di crescita urbano, in parole povere, lo si può anche spostare, tanto in presenza di un territorio virtualmente infinito la conurbazione non è un rischio. Ma lo sprawl invece sì, e la formazione di una variante della megacittà pure. Come a Melbourne, che oggi copre un territorio grande tre volte l’area londinese (che già non scherza) pur con una popolazione parecchio inferiore, ma con una serie di guai determinati dalle meccaniche «naturali» di certa espansione speculativa: pendolarismo automobilistico selvaggio, sprechi energetici, territori agricoli produttivi divorati dall’urbanizzazione. C’è una via di uscita? Certo che si, basta capire che la megacittà degradata non lo è solo quando i redditi sono bassi, ma anche quando si consuma troppo di tutto, ad esempio di superficie privata pro capite.

Riferimenti:

Oliver Milman, Melbourne’s urban sprawl: just how big can the city get? The Guardian, 3 settembre 2015

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