La megalopoli e la bestia

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Foto F. Bottini

Circa un secolo fa maturavano le prime forme di escursionismo di massa, e forse non casualmente anche le prime idee di tutela e valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio moderne. Si iniziavano insomma a mettere i primi paletti di separazione fra cose come la città, la campagna, la natura, l’artificio, e i relativi utenti, davanti al rischio che tutto finisse stritolato nel grande minestrone ormai consentito dal progresso. Accadeva infatti che da un lato la crescita poderosa della ricchezza disponibile per investimenti vari, dall’altro la continua espansione delle attività che questa ricchezza producevano e sfruttavano, iniziassero a porre vagamente un problema di quanto oggi si definisce sostenibilità, e probabilmente a suo tempo si pronunciava più o meno con qualche variante del “no, non si può andare avanti così”. Non si poteva andare avanti a considerare in modo casuale il creato come materia prima inerte per il grande esperimento chiamato progresso.

Le due facce della megalopoli

Oswald Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes, 1918-1923 ) scrive: “Solo la megalopoli – scettica, pratica, artificiale – rappresenta la Civiltà oggi. Il contado davanti ai suoi cancelli non conta”, ed esprime appunto in forma reazionaria il timore che l’avanzare impetuoso della nuova frontiera tecnologica e del progresso economico spazzi via storia e natura, le stesse radici dell’umanità. Un atteggiamento assai diverso è, negli stessi anni, quello dei riformismo discendente diretto dell’utopismo ottocentesco, saldamente convinto che in qualche modo si possano far armonicamente convivere, per usare il titolo del geografo anarchico russo Pëtr Kropotkin, Campi, fabbriche, officine. Oltre che, in senso lato a comprendere anche quanto assimilabile concettualmente a quei campi e a quel contado, tutta la natura e le risorse della vita. Per esempio un’idea ben diversa di megalopoli è quella che viene proposta nel 1921 dall’ambientalista, esperto di parchi, e membro fondatore dell’Associazione Piani Regionali, Benton MacKaye. Il suo sentiero sui monti Appalachi, va molto oltre l’idea di parco naturale, proprio perché abbraccia in positivo il concetto di megalopoli, pur senza mai nominarlo.

Città, natura, società

Pensare un sentiero montano lunghissimo, costellato di infrastrutture di collegamento tra le valli e attraverso i fiumi, di campi e insediamenti di servizio, alimentato e controllato da una struttura tecnica e politica in grado di durare per molti decenni, è già un obiettivo straordinario. L’ambientalista MacKaye ci riesce benissimo, e le premesse del suo piano originario sono ancora tanto vive oggi, che lungo quel percorso di oltre quattromila chilometri durante la seconda campagna presidenziale si fece fotografare in versione escursionistica anche la coppia vincente Clinton-Gore. Ma l’Appalachian Trail ha un carattere “megalopolitano” che forse sfugge a chi non ne studia con un po’ di attenzione le premesse sociali e culturali: non solo il percorso scorre parallelo, nell’interno, alle grandi regioni metropolitane industriali della costa atlantica, Boston, New York, Filadelfia, Washington, ma trae alimento umano dagli stessi bacini sociali. Le braccia per il lavoro, volontario e non, arrivano da quei luoghi, sono lo sfogo delle tensioni, della disoccupazione cronica, del malcontento. E sono anche un modo per riflettere, per gettare le basi di un nuovo corso, una specie di anticipo dell’esperienza professionale nei parchi narrata da Jack Kerouac nel suo I Vagabondi del Dharma (1958).

Città e natura fantozziana

Quello che più o meno anticipava e preparava in positivo, questo genere di approccio ottimistico alla megalopoli (il concetto geografico di Gottmann per la medesima area è di una generazione più tardi), è il dilagare sia dell’insediamento, urbano-industriale tradizionale o nella nuova forma dello sprawl, sia soprattutto dei comportamenti di una società di massa sempre più mediamente ricca, mobile, bulimica in quanto a spazio e risorse naturali. Se ai tempi di intellettuali, viaggiatori, esploratori d’élite, si poteva ancora considerare davvero il territorio regionale di riferimento delle metropoli ancora alla stregua di una concettuale separazione o contrapposizione città/campagna, col XX secolo dell’automobile una montagna di tremila metri a un paio d’ore dai grattacieli la possiamo anche assimilare alla piazza giusto lì davanti. Cioè, per meglio dire: la separazione resta, deve restare, è preciso compito della tutela e della pianificazione conservarla, ma purtroppo non c’è più a rafforzarla anche la piena coscienza di quella distanza. Il nostro immaginario fa cortocircuito, e in qualche modo “urbanizza” anche senza trasformare fisicamente i luoghi, oppure con trasformazioni minime ma che ne garantiscono facile accessibilità, dagli impianti di risalita, ai rifugi, alle cartine coi sentieri. Al punto che a metà ‘900 inizia a rendersi necessario un innovativo strumento di comunicazione di massa per divulgare un miglior rapporto fra uomo e natura virtualmente urbanizzata: Yogi e Boo Boo creati da Hanna & Barbera nell’immaginario parco di Jellystone, e usati anche per campagne sulla sicurezza degli escursionisti.

Le lucciole e le lanterne

Arriviamo ai nostri giorni, quando l’invasione dello sprawl esurbano di seconde case nelle aree boscose collinari e anche montane in alcune regioni urbane raggiunge estensioni e impatti impressionanti. Pensiamo alle megalopoli europee, così ovviamente simili per conformazione a quella originaria Bos-Wash da essere riconosciute come tali anche dal titolare del copyright, Jean Gottmann. Ormai nei grandi e medi centri di queste vaste e popolate regioni urbane si è diffusa l’abitudine di quella che potremmo chiamare “prima casa e mezza” ovvero un alloggio a disposizione nelle aree a bassa densità e funzione prevalentemente turistica, utilizzate sull’arco di tutto l’anno, stabilendo con la città una sorta di comunicazione pendolare pur non quotidiana. Questo fenomeno da un lato finisce per urbanizzare e infrastrutturare anche fisicamente le aree esurbane turistiche, dall’altro ne avvicina anche di più la percezione di prossimità e familiarità. D’altro canto l’ormai storica abitudine a ritmi e modi urbani e suburbani, così lontani dalla contrapposizione città/campagna classica, ci fa percepire la natura in modo distorto, come una sorta di giocattolo addomesticato, anche quando non lo è affatto, o non lo è nel modo che intendiamo noi. Fin quando non si verifica, quasi fatalmente ma del tutto inatteso, lo scontro.

Conflitto senza classi, e senza vincitori

In città o nel nostro suburbio, lo scontro con la natura che abbiamo urbanizzato solo nelle fantasie da lobotomizzati televisivi di massa avviene di solito in modo attenuati. Un po’ come quei bambini convinti che le galline nascano già pelate nel vassoio del supermercato, e le uova al massimo da un nastro trasportatore, spesso reagiamo abbastanza istericamente ad alcune manifestazioni del tutto naturali, ad esempio l’invasione di nutrie ovunque ci sia un po’ d’acqua pulita. Animali miti e inoffensivi, che hanno però l’involontario torto di assomigliare un po’ a enormi topi, roba da incubo alcolico, e allora apriti cielo: casalinghe che invitano i mariti alla resistenza armata, genitori che non lasciano più uscire i figli dopo il tramonto, temendo chissà quali aggressioni. E allontanandosi dalla città propriamente detta, verso la frontiera avanzata un po’ oltre le prime case e mezzo, succede anche di incappare nella versione non a cartoni di Yogi e Boo Boo, ovvero un’orsa con tanto di cuccioli, che si comporta da mamma protettiva con l’escursionista scambiato per potenziale aggressore di orsacchiotti. Manco fossimo dentro un reality, titolo provvisorio Vaghe Stelle dell’Orsa, inizia il televoto su cosa fare, scontro campale fra chi dà la colpa di tutto al poveraccio cercatore di funghi che ha rischiato la pelle, e chi cita il vecchio Joseph Kennedy parafrasato da John Belushi: quando il gioco si fa duro tocca giocare duro. Ovvero se l’orso mi svaluta le seconde case, si abbatta l’orso che vale di più come tappeto davanti al camino della tavernetta.

Ovviamente non c’è una “soluzione”, salvo cercare qualche genere di convivenza, vigile, vagamente e reciprocamente minacciosa, tra le nuove classi sociali che popolano la megalopoli multietnica e multispecie. Una cosa è certa: così come non esiste più in senso classico il dualismo città/campagna, non esistono nemmeno più così divisi lo stato di natura tipo homo homini lupus, e nemmeno l’arcadia mentale da città murata dove si può ridurre la bestia a simpatico barboncino, o addirittura a categoria dello spirito smaterializzata. In molti paesi, dove questi temi sono aperti da decenni, si cerca da un lato di costruire nuovi strumenti di pur guardingo vicinato, dall’altro di declinare gli antichi bruschi e brutali strumenti contadini di “intervento”, ovvero eliminazione fisica, quando non se ne può fare a meno. Certo il problema di fondo è di non fare assomigliare troppo questo scontro inter-specie (in fondo di questo si tratta) a una guerriglia tra vicini del tipo che avrebbe entusiasmato James Ballard. Chi magari preferirebbe una più teorica e magari produttiva dialettica di genere marxista, ma comunque sempre di scontro si tratta, deve per forza trovare metodi nuovi, però evitare di chiudersi in casa a piangere davanti a degli spezzoni di Bambi su Youtube.

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