La Megalopoli Padana (2000)

Foto F. Bottini

Scendiamo a terra dallo spazio per vedere come è dal di dentro la megalopoli, per capire come funziona. Anzitutto la disomogeneità è solo un aspetto della diversità. La quale si ritrova anche nei suoi riflessi visivi, cioè nel paesaggio, con varie manifestazioni. Una delle più evidenti è quella che induce ad una discriminazione tra il tessuto delle permanenze, assai variegato, ed il tessuto formato dagli sviluppi più recenti, cioè della seconda metà del Novecento. La descrizione delle preesistenze può essere sintetizzata da una bella pagina dedicata alla terra lombarda di Carlo Emilio Gadda: «La pianura lavorata persiste, nelle parvenze della natura e dell’opere, ad essere madre cara e necessaria, la base di nostra vita. Dai secoli, ormai remoti al pensiero, quando i Cistercensi di Chiaravalle sotto al Bagnòlo di Rovegnano ebbero ad intraprendere le prime livellazioni del terreno, i primi escavi dei canali adacquatori che captavano le polle di risorgiva della cosiddetta “zona del fontanili” per distribuirne la portata nei prativi ad irriguo, ad aumentarne il numero e la copia delle fienature: su su fino alle opere maggiori del comune e della munificenza viscontea, e ai consorzi e comprensorii irrigui delle età più vicine e addirittura della nostra; quale assiduità paziente, che amorosa tenacia! La derivazione del Naviglio Grande dal Ticino, il Naviglio di Pavia: poi la Martesana, il Villoresi. Il tipo della nostra terra è schiettamente rappresentato in queste vedute colte dall’aereo: della terra esse dicono la bontà verso gli uomini, la forma silente. Le opere allineate per il pane.»

Una caratteristica fondamentale della megalopoli padana è quindi la sua immagine fortemente legata ancora al suo passato rurale. Di fatto, quando si parla di megalopoli si pensa subito a qualcosa di avveniristico, a paesaggi urbani di grattacieli, autostrade a più corsie, palazzi di vetrocemento, col cielo rombante di aerei ed elicotteri, cioè agli aspetti propri della modernità più avanzata, a forme urbane nuove, spregiudicate. Il pensiero va alle megalopoli americane. Niente di tutto questo nella megalopoli padana, ancora segnata dagli elementi del passato rurale, che si direbbero incancellabili, con i campanili e le torri medievali che dominano i centri urbani, le belle cattedrali di mattoni, antichi e pregevoli monumenti, che hanno fatto la storia dell’arte, case basse di periferia, con gli orti all’ombra di vecchi alberi, magari il gelso secolare sopravvissuto, vicoli e stradine che si inoltrano nei campi. Le permanenze del passato sono rappresentate in primo luogo dai centri urbani storici, i nuclei di edifici che sorgono intorno alle piazze e alle antiche cattedrali, con i nobili palazzi della borghesia che spesso ha fatto la storia delle antiche città. Le quali, rispetto all’alluvione edilizia che ha portato alla formazione della megalopoli, appaiono come isole, nuclei fondativi di un arcipelago che ha disseminato intorno a se elementi minori ma importanti e rintracciabili nelle campagne più vicine alle città, dove sorgono, umiliate magari da nuove edificazioni, vecchie residenze della borghesia cittadina, tracce di giardini, di parchi, con le corti ora abbandonate del mondo contadino del passato: immagini spesso desolanti, monumenti alla caducità del tempo e dei successi sociali, alla mutabilità dei giochi economici.

Superata questa cintura intorno alle città, isole del passato, l’alluvione ha sommerso paesaggi agrari da cui affiorano vecchie case e corti contadine, qualche residuo lembo di campagna, alberate che fiancheggiavano un tempo strade e viali, le chiese e i campanili dei paesi, emergenze antropiche nei paesaggi padani avvolti dalle nebbie invernali. Tutto questo in generale: richiami ad un passato sommerso dai capannoni industriali, dalle nuove edificazioni, nuove case, condomini, residence ecc., per cui anche se lo spazio non è edificato dappertutto, esso ormai dappertutto ha perso le valenze, le qualità che per le vecchie generazioni avevano gli spazi esterni ai centri abitati, divisi e diversificati per storia, paesaggi, condizioni ambientali, organizzazione produttiva ecc. Differenze che l’alluvionamento economico ed insediativo ha eliminato, lasciando solo dei lacerti. La profondità storica degli elementi sopravvissuti all’alluvione è però ancora richiamata, all’occhio dell’osservatore attento, da particolari che un tempo segnalavano in maniera. omogenea la varietà delle situazioni territoriali, per cui passando, ad esempio, dal Piemonte all’Emilia e al Veneto si vedeva cambiare il volto della terra e rivelarsi luci, colori, linguaggi diversi.

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Ad esempio, semplicemente passando dalla Lombardia all’Emilia, cioè scavalcando il Po, subito si coglievano e ancora in parte si colgono, sotto l’ondata di piena dei capannoni industriali e dei quartieri d’abitazione nuovi fatti di banali architetture, differenze riconducibili a tradizioni diverse e a particolari umori della terra, talora quasi inavvertibili eppure significative: ad esempio, il diverso colore dei laterizi di cui sono fatte le case, le torri, i castelli, i coppi dei tetti. Scuro, ferrigno il rosso dei laterizi della Lombardia, chiaro, rosa pallido che sfuma nel giallo la tinta dei laterizi dell’Emilia. Diversità che dipende dalle argille con cui sono fatti i laterizi, a loro volta dipendenti dai diversi apporti alluvionali delle Alpi e degli Appennini. Una differenza che rimanda a quei rapporti diretti fra attività umane e ambiente naturale che gli sviluppi recenti hanno obliterato, anche se non del tutto. Ma poi, superato il Po, ecco ancora la diversità delle architetture, delle case coloniche, delle campagne con gli usi diversi degli alberi, le diverse alberate, la maggior tendenza a creare scenografie sul lato dell’Emilia piuttosto che su quello lombardo, il fascino diverso delle strade cittadine porticate, delle piazze e degli antichi monumenti, insomma di tutti quegli elementi che oggi ci appaiono come relitti del passato, in qualche caso assunti e riconvertiti dalla modernità megalopolitana, in qualche altro emarginati o eccezionalmente mantenuti come sacre testimonianze, nei contesti urbani o rurali della megalopoli.

Ma poi, oltre questi elementi ricordati che rimandano al passato, emergenze non ancora sommerse dall’alluvione edificatoria più recente, quella che ha conferito una struttura megalopolitana allo spazio padano, che cosa si ritrova nel paesaggio? Per rispondere, percorriamo qualcuna delle strade su cui si impernia la struttura urbana della megalopoli: prendiamo ad esempio il percorso da Treviso a Vicenza, da Vicenza a Verona, da Verona a Brescia e a Milano, percorrendo non le autostrade, ma le storiche strade nazionali che seguono le più antiche direttrici di collegamento tra una città e l’altra, le quali sono state brutalmente utilizzate come direttrici di espansione urbana, non come “corridoi urbani”, “vie di città” capaci di attrarre vita urbana e dispensarla intorno a se, tenendo lontane le infrastrutture più oppressive e funzionali (autostrade, industrie ecc.). Il richiamo, in proposito, può andare alla ciudad lineal di Soria y Mata, o alla «città continua» di C.A. Doxiadis, ma con una funzione più di asse urbano che di via di traffico.

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Oggi invece si presentano come arterie malate del corpo megalopolitano. Esse anzitutto sono sempre intasate di automezzi, invischiate dai traffici locali oltre che da quelli di raggio maggiore: ciò, perché tutto si concentra intorno a queste arterie, attività industriali, aree residenziali, servizi ecc. Ed ecco a riprova di ciò quartieri di villini, sempre di architettura banale, residence condominiali, capannoni industriali, negozi per l’automobilista (gommisti, meccanici, carrozzieri, elettrauti), supermercati e ipermercati, edifici in vetro cemento di una modernità dozzinale dove si esibiscono i prodotti delle industrie locali, dai mobilifici ai piastrellifici e ai calzaturifici, dai magazzini dove si esibiscono prodotti dell’industria nazionale (dagli elettrodomestici alle motociclette ecc.) ai grandi negozi di abbigliamento, dagli autosaloni alle industrie dolciarie, e così via. Ma i modelli di urbanizzazione sono diversi, soprattutto passando dal Veneto alla Lombardia dove si trova, a nord di Milano ad esempio, il complesso residenziale concepito come blocco abitativo (copie di Milano Due) ai margini dei nuclei storici ancora centrati sulla chiesa parrocchiale e la vecchia piazza, il quartiere di villette tipo città-giardino, oltre ai vecchi assembramenti di condomini che rimandano agli anni sessanta e settanta. I rapporti delle aree residenziali con le piazze, i supermercati, gli impianti sportivi, la stazione ferroviaria o la linea del trasporto urbano sono vari.

Le tipologie urbanistiche che formano il tessuto insediativo della città diffusa nell’alta pianura lombarda sono state studiate nelle ricerche sugli sviluppi urbani recenti dell’area metropolitana milanese, che ne hanno riconosciute diverse e tutte in generale con una loro logica che sintetizza persistenze tradizionali e nuove esigenze. A parte stanno le realizzazioni che recuperano le aree industriali dismesse, come nel territorio di Sesto San Giovanni, che sta diventando uno dei centri più nuovi dell’area metropolitana milanese, con i suoi slarghi, le sue architetture avveniristiche, il suo paesaggio che ha in larga parte cancellato le tracce della grigia e rugginosa città-fabbrica del passato. Da company town a new town che guarda al futuro, anche se tutt’intorno alle nuove realtà succedono uno dopo l’altro i capannoni delle più diverse industrie.

Anche se si decide di lasciare le intasate vie nazionali per imboccare, sulle stesse direttrici, l’autostrada, si resterà affranti dall’impossibilità di vedere il paesaggio, perché i capannoni industriali si moltiplicano lungo le maggiori arterie autostradali, come accade in una misura che ha qualcosa di ributtante e angoscioso, tra Brescia e Milano, dove i varchi in cui lo sguardo può infilarsi per rimirare l’incredibile Bergamo alta e i profili dei non lontani massicci prealpini (le Grigne, il Resegone, la Presolana ecc.) che avevano affascinato Leonardo da Vinci, sono rari e brevissimi, come ha mostrato uno studio della Regione Lombardia, peraltro colpevole per non aver provveduto ad impedire un simile disastro paesistico. Certo, in tutto questo c’è una logica, ma è di puro interesse economico e se questa è l’immagine che la Lombardia ambisce dare di sé, industriale, vitalistica, laboriosa e cementificata, si può anche lasciarle questo primato; ma i conti presto o tardi dovrà farli con altre istanze che finiscono sempre per esplodere nel giro di pochi decenni, tanta è la rapidità dei processi oggi.

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D’altra parte l’automobilista in viaggio su quelle stesse autostrade non avrebbe certo il modo di guardarsi intorno, perché il traffico che le percorre non consente disattenzione tra sfilate di autocarri Tir che riempiono le due corsie, il correre indisciplinato degli automobilisti dalle macchine potenti o dalle macchine troppo lente, come se andare sull’autostrada fosse una corsa alla morte, una gimkana infernale, incredibile, eppure manifestazione stessa della vitalità della megalopoli, corpo sanguigno che ha bisogno, oggi, di queste vene portanti che, data la diversa funzione delle autostrade e delle ferrovie, collegano una città all’altra, un assembramento di capannoni alla città, una città alla cittadina, questa ai più piccoli paesi e alle case sparse, la rete delle strade interconnessa alle grandi direttrici del corpo megalopolitano.

Intanto su questo fremente vivere della megalopoli, che non ha momenti di sosta, che non ha respiro, che non allenta a nessun’ora il traffico di autocarri, di autovetture, questo fiume ininterrotto di fragori, vi è poi lo sfondo, quando è percepibile, della campagna e delle montagne lontane. L’eternità da una parte, l’accadimento dall’altra, la vita con i suoi mille effimeri episodi, avvenimenti. E allora si pensa che andando verso questi paesaggi appartati si possa trovare la quiete perduta. Ma è un’illusione, anche tra le campagne e nelle vallate si ritrovano i capannoni e il traffico lungo le strade che congiungono le direttrici pedemontane ai paesi e ai quartieri residenziali proliferati dappertutto. La tranquillità e il silenzio (un certo silenzio) si possono trovare soltanto nei giardinetti delle case isolate, le ville della ricca o media borghesia che hanno realizzato il sogno di vivere in campagna, nei paesi lontani dagli inferni urbani ma attrezzati come le città, con gli ipermercati, la piscina comunale, la palestra, i campi sportivi, il giardino pubblico per i quattro passi pomeridiani, i giochi dei bambini.

Ma questa è la città diffusa che ha dilatato lo spazio urbano, ha riempito la pianura di edificazioni, con sprechi enormi di spazio, di verde, di silenzi. E che comporta il moltiplicarsi del traffico con la reticolarità degli insediamenti, la loro diffusione particolare che distanzia l’abitare dal lavorare, lo spazio pubblico dallo spazio privato. E crea veri e propri labirinti data la complessità delle reti stradali, delle loro confluenze molteplici prima di arrivare alla centralità che interessa. Spesso vengono meno i riferimenti per muoversi nel labirinto: un tempo essi potevano essere rappresentati dai campanili dei paesi, ora invisibili dentro le quinte dei capannoni. I quali sorgono in aree industriali che si raggiungono lungo viali asfaltati che, per la loro stessa dimensione, si pensa che portino in un paese o in un centro urbano; si resta delusi poi quando si vede che il viale costituisce l’accesso all’area industriale; oltre la quale non c’è ancora il paese ma un’altra area industriale oppure un’area residenziale sorta tra i campi, assurda geografia della campagna urbanizzata, in realtà del territorio massacrato, dilacerato, che suscita scoramenti, delusioni in chi un tempo trovava nella campagna una sorpresa dopo l’altra, piccoli ma significativi episodi, come un’alberata, un fossato, una chiesuola o un’edicola votiva, riferimenti che diventavano elementi inscindibili di una geografia sentimentale. La domenica e nei giorni festivi questo paesaggio dei capannoni intristisce nella solitudine, nell’abbandono, nel silenzio metafisico, irreale, come fosse l’immagine di un mondo vivo sino al giorno prima ed ora abbandonato dagli uomini fuggiti via per paura o per non vivere nell’angoscia che quei luoghi di lavoro suscitano appena si smette di lavorare.

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Spesso a sostituire il riferimento territoriale in passato costituito dal paese c’è oggi il supermercato o la città mercato, coagulo di vita nuova, non più all’ombra delle vecchie chiese, dei vecchi palazzi signorili, del vecchiume che, si dice, non serve più alle nuove generazioni. Ma gli urbanisti spesso guardano poco dentro l’animo della gente, ai suoi vuoti, ai suoi smarrimenti, che sicuramente non si possono escludere in una fase di trasformazione come quella a cui stiamo assistendo. Un riferimento storico, d’altra parte, il sentimento del vivere in un humus lievitato attraverso il tempo costituirà sempre un’esigenza profonda dell’uomo, al di là di tutte le possibili libertà di scelta ubicative e residenziali che la città diffusa consente e che, secondo alcuni urbanisti, rappresenta la sua qualità migliore. Così intanto appare la megalopoli dal di dentro, risultato spontaneo, non ordinato secondo un disegno funzionale, un uso più efficiente dello spazio che la natura ha fornito alla Padania tra le Alpi e gli Appennini. Eppure, nonostante gli errori e gli orrori, la mancanza di stile, gli aspetti confusi di una società industriale che non ha saputo funzionalizzare per il meglio lo spazio in cui abita, la megalopoli funziona, vive, produce. Funziona perché nonostante le inefficienze del sistema stradale, autostradale e ferroviario la circolazione arteriosa non si ferma, ma soprattutto perché gli abitanti della megalopoli si sono adattati alle disfunzioni, alle brutture, alla mancanza di grazia e di ordine della megalopoli, alla morte sulle autostrade, ai sacrifici, alle angosce e ai vuoti imposti dalla città diffusa. Con pazienza o perché quello che ricevono dalla megalopoli è più di quanto potrebbero ricevere tornando indietro ad una vita diversa, al lavoro nei campi o nella fabbrica esigentissima, condizione che le vecchie generazioni ricordano ancora, data la rapidità con cui si è affermata la condizione megalopolitana. Le certezze di oggi sembrano più solide di quelle di ieri e questo fa loro accettare i disagi di una vita che non ha più niente di rurale anche se non ha ancora realizzato l’urbanità a cui forse aspirerebbero.

L’ARTICOLAZIONE MEGALOPOLITANA

La megalopoli non è nata per caso o semplicemente per un moto disordinato e illogico; esso al contrario ha obbedito a precisi interessi, il cui difetto più vistoso era quello di avere un significato puramente locale e immediato. Ciò vuol dire che sono stati trascurati altri e non meno importanti interessi, ritenuti secondari e rimandabili rispetto ai primi, più urgenti. La prima logica che ha dato forma alla megalopoli è stata quella di soddisfare le richieste di avere lavoro e residenza. Esigenza a cui è stata data una risposta bruta, immediata, che va considerata come il primo fattore che ha fatto quantitativamente crescere l’urbanesimo padano. In un secondo tempo però vi è stata, da parte dei nuovi cittadini, la richiesta di servizi urbani, di un livello di vita via via più elevato con lo stabilizzarsi della situazione e il comporsi della condizione urbana. Passaggi successivi segnati da storie diverse, da ribellioni o adattamenti che in diverso modo ogni abitante padano delle generazioni oggi anziane ha vissuto.

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Vi sono state sofferenze, situazioni penose, lunghi calvari da parte dei cittadini (specie nelle città più cresciute, nelle loro periferie) sulla via che doveva portare ad un tipo di vita urbana migliore, la quale aveva i suoi modelli irraggiungibili nei cuori aristocratici delle belle città padane, riservati a pochi o fruibili solo occasionalmente o illusoriamente, dato che stare nella periferia di Bologna o di Milano non voleva dire stare in belle e ricche città come erano, nell’immaginario provinciale, Bologna e Milano. L’espansione progressiva e inarrestabile dell’urbanesimo intorno ai cuori storici non ha potuto evitare che il cittadino di periferia fosse costretto a diuturni spostamenti per lavorare e vivere nella città. Ed ecco la condizione che la nuova vita urbana ha imposto e che gli sviluppi megalopolitani non sono riusciti a risolvere sino ad ora, come dimostra il gigantesco traffico che intasa le sue strade, il pendolarismo quotidiano che scarica sulle tangenziali milanesi, come sulle circonvallazioni di tutte più o meno le maggiori città, file ininterrotte di autovetture, come migliaia di pendolari alle stazioni ferroviarie.

La dipendenza spaziale non è stata risolta dall’organizzazione attuale della megalopoli, anche se forse non potrà mai essere risolta sinché non si avrà la moltiplicazione delle centralità autonome secondarie, allentando il peso gravitazionale sulle grandi centralità che per prime hanno dato origine alla megalopoli. D’altra parte l’eccessiva frammentazione delle centralità toglierebbe ad esse la forza propulsiva e generatrice di nuova cultura e di nuova vita economica che può essere sola delle grandi polarità urbane. E anche questa un’impasse che pesa sugli sviluppi della megalopoli padana.
Queste osservazioni pongono una domanda importante, se cioè la megalopoli, nella sua essenza di grande e unitaria costruzione urbana, debba essere considerata come manifestazione di un momento, di una fase transitoria dell’urbanesimo o come una sua tendenza irrinunciabile e irreversibile. Si può rispondere osservando che la megalopoli nei suoi attuali sviluppi è forse principalmente una risposta al bisogno di moltiplicazione delle polarità urbane, alla distribuzione dei servizi urbani più avanzati in più centri che possano integrarsi tra loro funzionalmente grazie alla contiguità spaziale, consentendo in tal modo risparmi di tempo e di spazio. In rapporto a questi assetti tendenziali ecco non solo il moltiplicarsi delle funzioni urbane in più città (anche in tal senso Roberto Guiducci parlava di “pluricittà”) ma anche la popolazione distribuirsi intorno alle centralità più attrattive, formando come degli aloni, destinati a loro volta a produrre alloro interno nuove centralità che, pur di grado inferiore, riducano il peso gravitazionale, centripeto, verso poche centralità. I miracoli della comunicazione, così come si prospetta per il prossimo futuro, consentiranno forse nuove ristrutturazioni della megalopoli.

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Sulla base dell’attuale polinuclearità urbana intanto la megalopoli padana si struttura su pochi centri che assolvono a funzioni diverse nei confronti di spazi limitati, anche se gerarchicamente si riconosce un ruolo prioritario a Milano e a poche altre città. Essa quindi non è un tutto continuo ma risente delle preesistenti centralità urbane, la cui evoluzione oggi tende non ad eguagliarle ma a mantenerle differenziate. Da ciò il suo sezionamento, la sua articolazione geografica in base alla quale si riconoscono settori megalopolitani diversi, ognuno facente capo ad una delle città che si snodano linearmente lungo,le grandi direttrici pedemontane.

Il sezionamento megalopolitano comporta differenziazioni che trovano nella città locale la loro espressione, nel senso che città come Modena o Verona o Asti svolgono il ruolo richiesto dalle specificità dei rispettivi territori. Così a Modena, a Verona o a Asti si trovano cose e servizi diversi, che non hanno nulla in comune; ciò che richiedono allo stesso modo però dovranno cercarlo in una città di rango superiore, come Milano, dove di fatto si svolgono manifestazioni e attività che non possono trovare sede ad Asti o a Modena. Inversamente certe altre attività e manifestazioni possono benissimo svolgersi a Modena o a Verona o a Asti, che da ciò trarranno una loro qualificazione.

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Alle spalle di Asti, di Modena e Verona del resto stanno territori complessi, estesi tra la pianura e la montagna, che alle loro città si legano economicamente e culturalmente, cosicché la megalopoli deriva la sua forma da questa articolazione legata ad un urbanesimo che ha nelle città capoluoghi di provincia una forza gravitativa capace di plasmare i territori particolari che la compongono. La loro varietà è di pochi altri spazi regionali in Europa e non solo in Europa. Un territorio come quello astigiano non ha nulla che lo fa assomigliare al Varesotto o questo al Bellunese o al Forlivese. Tessere diversissime tra loro sia per ciò che riguarda il paesaggio, sia le caratteristiche dell’urbanizzazione passata e recente, sia il rapporto tra pianura e rilievi, oltre naturalmente le condizioni naturali, le tradizioni, il sentimento di se ecc. La diversità d’altra parte è la forza stessa della megalopoli padana, la sua bellezza, il fattore primo del suo dinamismo. Ma è anche la causa della sua complessità, la quale se è vero che genera flessibilità, autonomia nei confronti dei sistemi esterni, pone non indifferenti problemi di gestione al suo interno. Come deve essere governata perché al suo interno siano armonicamente combinati gli interessi e le istanze dell’abitante di Asti, con quelli dell’abitante del Forlivese o delle valli bergamasche?

Da: La Megalopoli Padana, Marsilio, Venezia 2000

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