L’ecologia urbana prova a interpretare le città mettendo in conto aspetti per nulla naturali e indotti dalle attività umane, dal cemento agli scarichi, per capirne l’impasto complessivo, e usarlo a contenere le emissioni e combattere il cambiamento climatico. Se guardiamo i disegni ottocenteschi degli ambienti urbani, dai nitidi schizzi tecnici sui manuali alle vignette sulle riviste, alle cupe atmosfere grafiche che circondano certi feuilletons, non possiamo fare a meno di notare una distinzione fra ciò che è chiaro, positivo, lineare, in breve razionale, e l’inquietante intruso, la bestia, una scheggia impazzita di natura selvatica. Così come nella pittura classica sotto la scritta Et In Arcadia Ego la morte faceva la sua comparsa nella spensieratezza dei momenti di pace e tranquillità, allo stesso modo nella metropoli industriale che si vuole sottrarre all’imprevisto fa capolino il ratto sotto il letto del malato, o sbuca il feroce assassino dal vicolo in fondo alla nitida schiera di casette. Ecco, dalle rappresentazioni che si vogliono oggettive via via questo elemento spurio tende a scomparire, secondo una tendenza che diventerà ancora più marcata nella cultura degli spazi razionalisti, dove anche gli abitanti e il verde pubblico (elementi ovviamente irrinunciabili almeno di parte delle rappresentazioni) diventano poco più che simbolici.
Al punto che è diventata piuttosto famosa la faccia esterrefatta di Mies van der Rohe quando gli mostrarono la piazzetta antistante il suo palazzo Seagram piena di gente che si godeva il sole e il panorama urbano: quei tizi non dovevano star lì! La piazza era stata pensata per isolare ed evidenziare il puro volume del grattacielo color whiskey, mica per passeggiarci dentro o spaparanzarsi dappertutto. Ma la vita, come del resto abbastanza prevedibile, fa parte integrante della città reale, e non solo quella di chi entra ed esce dai palazzi, o sta alla fermata dell’autobus. Nel conto vanno tenute anche le foglie, verdi ancora sugli alberi o secche che scivolano giù per il tombino insieme all’acqua piovana inquinata, e sotto il tombino tutti i roditori che sgattaiolano per i condotti, e i predatori che li rincorrono o li scrutano dal cielo, e poi i pesci nel laghetto e le alghe, e il muschio aggrappato alla parete di recinzione … Ce ne sono tante di cose vive, infinitamente tante, dentro la città, ne fanno parte, non sono affatto intrusi, anzi senza di loro probabilmente si tratterebbe di un’entità morta, o più debole, meno reattiva alle trasformazioni e ai traumi. Insomma, anche se l’idea generale non è proprio quella di ridare piena cittadinanza e diritti a Jack lo Squartatore, o ammettere un paio di procioni nella nostra vasca da bagno, dobbiamo tutti cambiare radicalmente le nostre rappresentazioni urbane.
Non si tratta solo di moda passeggera, o di buon gusto politically correct, ma di una delle tante razionalissime cose da fare, e fare alla svelta, nella prospettiva di un adattamento delle nostre metropoli alle sfide del XXI secolo: cambiamento climatico e urbanizzazione del pianeta prima di tutto. Lo spiegava un bell’articolo pubblicato dalla rivista Nature, passando in rassegna alcuni programmi di ricerca nel campo dell’ecologia urbana, intesa proprio come studio dell’impasto natura/artificio tipico dei contesti che abitiamo. Una prospettiva in cui anche cose apparentemente squilibrate o assurde come le mutazioni o le invasioni di alcune specie, la capacità perversa di convivenza tra vita e veleni, diventano futuri possibili da approfondire e capire, magari accettare, sicuramente iniziare a usare per nostra comodità, o meglio sopravvivenza. Purtroppo, pare che gli studi ecologici, ripetendo a modo loro i vezzi puristi di Mies van der Rohe, continuino ad operare al 95% in aree non urbane, ovvero alla ricerca di condizioni naturali destinate a diventare assai meno naturali in breve volgere di tempo, visti i ritmi a cui procede l’urbanizzazione del pianeta.
Una urbanizzazione, come spiegano evidentemente abbastanza a vuoto le agenzie internazionali e gli infiniti studi multidisciplinari, che NON sta seguendo, che NON può nemmeno seguire, un classico percorso di separazione fra natura e artificio, città e campagna, macchina asettica e vita brulicante. E che quindi richiede consapevoli studi in cui anche cose improbabili come il leone (lo si è recentemente scoperto abitante fisso delle periferie africane), o certe specie che prosperano assorbendo inquinanti, vengono di norma inserite nell’equazione di piani programmi e politiche, insieme alle solite componenti demografiche, sociali, economiche ecc. Per fare un esempio abbastanza semplice e attuale, basta pensare all’agricoltura urbana, e alle sue implicazioni immediate: che effetto chimico ha sui suoli, che effetto induce sui cicli delle acque, cosa succede ai mercati locali (quello alimentare come quello immobiliare come quello del lavoro) o al metabolismo termico dell’area metropolitana. Non è finita naturalmente, perché esiste la componente animale indotta dalle colture, o modificata, o squilibrata, che muovendosi allarga il raggio dell’effetto, con altre implicazioni sociali. Sappiamo tutti più o meno cosa succede quando funzioni urbane e rurali si scontrano nelle aree di espansione: cosa può succedere in un contesto metropolitano consolidato? E soprattutto come si può sfruttare al meglio la differenza facendola diventare magari resilienza?
Ciò che di sicuro non ha senso, almeno se si vuol restare coi piedi per terra, è per esempio immaginare l’agricoltura urbana esclusivamente nelle forme semplificate e artificializzate delle finte vertical farm meccaniche o architettoidi, oppure ribaltando la prospettiva sognare una specie di percorso a ritroso, in cui posti come Detroit (o tanti altri) diventano distese di campi popolati da bifolchi felici e ingenui, con le classiche gote rosse e mani callose d’ordinanza. Del resto anche la sola evidenza delle esperienze reali di colture urbane affatto sperimentali, come quelle praticate a Cuba o in alcune megacittà africane, dimostra quanto il ciclo sociale, ecologico, produttivo sia ad anni luce di distanza da quanto accade magari solo ai parenti prossimi degli orticoltori urbani, parenti rimasti in campagna solo a un centinaio di chilometri di distanza. E poi c’è il rapporto con gli scarichi dei motori, come la natura possa aiutare in un modo o nell’altro (l’idea del km zero insegna) ad abbattere i veleni, ma sono se si conoscono i meccanismi di funzionamento di tutto il sistema. Un approccio corretto di ecologia urbana sarebbe il presupposto a decisioni meno incoerenti, e ridicole di quelle attuali, buone al massimo a mettere in pace un paio di coscienze.