Facile, dire che una volta era tutto più facile, quando a quei tempi non si era neppure nati! I tempi, sarebbero quelli in cui c’erano i buoni e i cattivi, la destra reazionaria e la sinistra progressista, tutto era bianco o nero e ci si poteva «schierare» come piace ai sempliciottoni del giorno d’oggi. Tempi chiaramente di loro invenzione, come si capisce al volo scorrendo qualche testo nostalgico per finta, visto che prova ad esprimere nostalgia rispetto a cose mai vissute, e neppure conosciute. La faccenda destra-sinistra nell’amministrazione delle città, ad esempio, non è certo faccenda tanto lineare come piacerebbe ai sempliciottoni di cui sopra, coi progressisti filo-lavoratori a costruire case popolari, reti di trasporto pubblico, servizi sociali, mentre i perfidi capitalisti cercavano invece di speculare su terreni e fabbricati, vendere automobili a rate al popolo affamato, riempire di supermercati (replica commerciale dello sfruttamento di fabbrica) ogni spazio residuo dei quartieri. Ecco: toni apocalittici e ovviamente un po’ comici a parte, questo è il bel mondo novecentesco come amerebbero immaginarselo alcuni, e invece non era affatto così. Lo si capisce per esempio quando qualcuno tira fuori la solita solfa delle case popolari pubbliche lanciate in grande stile dai fascisti, e poi ulteriormente sviluppate nel dopoguerra da governi e amministrazioni che di progressista o di sinistra non avevano proprio nulla. Inutile, cercare tracce di «socialismo» in senso proprio, in quelle politiche, come più ovviamente non c’è nulla di reazionario nell’accettazione passiva da parte della sinistra Doc, di certi «prezzi da pagare al progresso» come il degrado ambientale o anche sociale.
Dismissione come sintomo
La riorganizzazione sociale e produttiva novecentesca, quella che chiamiamo convenzionalmente era post-industriale, è un fenomeno che ovviamente esula dal solo ambiente urbano, e però proprio lì vede il più vistoso manifestarsi dei propri sintomi. Anche se tutto era iniziato molto prima, con quell’originaria spinta al «decentramento pianificato», meglio ancora se sotto forma di suburbanizzazione di massa, almeno per chi riusciva a chiamarla correttamente con quel nome, e a praticarla con una relativa redistribuzione del reddito e impennarsi dei consumi privati. L’involarsi degli impianti industriali dall’originario tessuto fitto delle metropoli, corrisponde anche a una mutazione epocale dello schematico rapporto (quello più che altro immaginato) in cui esisteva quel legame strettissimo tra operai, fabbrica, città, aspirazioni di progresso sublimate dentro all’idea di sinistra e poi declinate dai partiti di sinistra con coerenti politiche urbane, tipo quelle che si possono facilmente immaginare: le case economiche, gli standard dei servizi, i trasporti eccetera. Forse la nebbia nostalgica che al momento offusca tante prospettive, anche sedicenti obiettive e financo scientifiche, di osservazione del passato nella prospettiva dell’oggi, impedisce di vedere che no, quelle politiche non erano affatto piallate sull’idea del mondo da Sole dell’Avvenire. Anzi erano in moltissimi a dare del traditore a chi ne metteva in campo, perché a parere di questi distoglieva la classe lavoratrice dalla sua funzione storica di ribaltare lo stato di cose presente. E non a caso «riformista», ovvero l’aggettivo che accompagna tutte le politiche sociali, fino a non molto tempo fa era considerato alla stregua di un insulto o quasi.
Tornando all’oggi
Il che ci porta alle questioni contemporanee, e alla domanda: ha senso giudicare sulla base delle categorie qualsivoglia di destra o sinistra l’operato di una amministrazione urbana? Certamente no, se si fanno semplicemente i conticini di quante case popolari pro capite, o quante metropolitane (o come pensano alcuni fresconi quanti chilometri di piste ciclabili), o quanti metri cubi di edilizia scolastica, servizi sanitari, quantità di stranieri integrati nel tessuto locale e via all’infinito. Questi sono solo ed esclusivamente formalismi, semplificati sin oltre il ridicolo, e che servono giusto a confondere le acque. Perché non solo in sé e per sé far abitare meglio i lavoratori può essere una cosa assolutamente di destra e addirittura reazionaria, come lo è stendere binari, tirar su ospedali, o scuole, ma è esattamente quel che hanno fatto da che esistono le amministrazioni locali, fior di rappresentanti della classe dominante, buoni ultimi gli esponenti del neoliberalismo rampante del terzo millennio, tipo il newyorchese Bloomberg o il londinese Johnson. Notare che per entrambi la pubblicistica spesso si soffermava appunto su quella sciocca considerazione di «un uomo di destra che fa cose di sinistra», del tutto fuorviante. Far funzionare la macchina metropolitana in tutti i suoi intricatissimi gangli e ingranaggi, è cosa che esula e prescinde dalle categorie di destra e sinistra, rivoluzione progresso e conservazione o reazione. Ma non perché queste siano ininfluenti, o inesistenti, o esaurite, niente affatto: sono vive e vegete. Soltanto, servono come metro di valutazione e osservazione critica in prospettiva delle stesse politiche urbane, perché se le porta avanti un rappresentante degli interessi della classe dominate (comunque si auto-etichetti) saranno quasi certamente riconducibili a quegli obiettivi. E anche un eletto con idee, riferimenti, programmi «di sinistra» deve per forza essere guardato in quella prospettiva, e valutato coerentemente. Così, almeno io provo a leggere questo bilancio dei cento giorni del nuovo sindaco Labour di Londra, stilato dall’influente editorialista cittadino del Guardian, Dave Hill. Le differenze tra destra e sinistra ci sono, ovunque, ma bisogna vedere dove cercarle per evitare svarioni.
Riferimenti:
Dave Hill, Sadiq Khan’s first 100 days as London mayor: how is he doing?, The Guardian, 16 agosto 2016