La natura sociale dell’unità di vicinato (1939)

Nel maggio del 1909, quando chi scrive entrò nel gruppo di lavoro della Russel Sage Foundation, il primo incarico fu quello di studiare la serie di incontri, letture pubbliche, attività di intrattenimento, sportive, e di altro tipo che si svolgevano negli edifici scolastici al di fuori degli orari di lezione. Il movimento per i centri sociali a quell’epoca stava solo iniziando a prendere forma. A New York, Hiram Leipziger teneva le prime conferenze, nelle scuole, e Evangeline Whitney introduceva il suo sistema di attività serali. Edward J. Ward aveva già studiato queste attività a New York, discusso con Jane Addams alla Hull House, e ne aveva tratto ispirazione per organizzare la famosa ma breve esperienza dei «centri sociali» a Rochester. A Cleveland, Sarah E. Hyre sviluppava il suo sistema delle conferenze e discussioni pubbliche nelle scuole; a Filadelfia attraverso l’associazione genitori-insegnanti Mary Van Meter Grice, abituava anche gli adulti all’ambiente dell’istituzione di cui erano sostenitori. In tante città di tutto il paese, esistevano iniziative di zona a carattere culturale, ricreativo, o sociale, che avevano luogo il pomeriggio o la sera negli spazi scolastici.

Scuole e centri sociali

Questo movimento iniziò in qualche modo ad attirare l’attenzione della politica. Negli ambienti del dibattito sociale già aveva un proprio spazio, naturalmente, era molto apprezzato, dato che ciò che avveniva nelle scuole altro non era che un allargarsi delle loro idee. Programmi acclamati anche da chi si occupava di tempo libero, dato che significava più spazi ad esempio per organizzare partite di pallacanestro, danze popolari, attività varie al coperto. E ora stampa e dibattito pubblico salutavano ufficialmente la nascita di questo nuovo fermento del centro scolastico. Discutere approfonditamente e frequentemente di questioni civiche e di politica – specie da parte di Ward – veniva considerato come utile contrappeso ai mali della politica organizzata. Dopo aver visitato il centro di Rochester, l’allora governatore dello Stato di New York, Charles E. Hughes, dichiarava: «sono interessatissimo a tutto ciò che fate e discutete, molto più che a tante altre cose al mondo. State rinsaldando le fondamenta della democrazia, state garantendo ai nostri figli di vivere una vita più piena di quella che ci siamo concessi noi».

Woodrow Wilson, in un discorso dell’ottobre 1911 a Madison, Wisconsin, così delineava il movimento per i centri sociali: «La cosa più interessante, è che le persone in quelle scuole fanno attività sociali, educative, di valore politico: e uno dei motivi per cui la politica ha assunto un volto nuovo, nelle città in cui è nato questo movimento, è che le persone che si recavano la sera negli edifici scolastici sapevano cosa stava succedendo, volevano assolutamente discuterne, e quando iniziavano a discutere ecco che quelle brutte cose diventavano impossibili, non potevano continuare. La cura della pessima politica, è identica a quella della tubercolosi: va messa in pieno sole». (Edward J. Ward, The Social Center, Appleton & Co, New York 1913, p. 74). Grazie a questi importanti sostegni, il movimento fece grandi progressi. Ward da Rochester si spostò alla sede distaccata dell’Università del Wisconsin, e da lì promosse una legge statale che iniziava a consentire ai cittadini di accedere via referendum alla gestione dei centri comunitari. Grazie a questa legge, Milwaukee riuscì a sviluppare un circuito scolastico sotto la direzione di Harold O. Berg. Poi Ward si spostò a Washington, ottenendo il sostegno del Congresso per una iniziativa riguardante il District of Columbia, per tutte le attività che si svolgevano e ancor oggi continuano a svolgersi negli edifici scolastici della città.

A New York, il People’s Institute animato da John Collier organizzava un comitato volontario per l’esperimento alla Public School 63, nel Lower East Side. In un primo momento si sperò anche che quelle iniziative potessero reggersi sulla base delle sole proprie forze, speranza in seguito rivelatasi infondata, ma si arrivò comunque a cambiare il tipo di gestione per le attività extrascolastiche a New York, rendendo più semplice per i volontari organizzare iniziative e incontri di quartiere. A Chicago Edward L. Burchard, altro seguace di Jane Addams, organizzava serate di divulgazione e intrattenimento alla Harrison Technical High School. Con risultati tanto straordinari, da far entrare Burchard nella National Community Center Association dove assunse da subito un ruolo di punta. Fu lui a formulare il progetto Community Council per una organizzazione a scala dell’intero paese, quella che il Council of National Defense mise in atto nel febbraio 1918. Così il movimento per i centri comunitari nel periodo della prima guerra mondiale raggiungeva l’apice della consapevolezza e del riconoscimento pubblico.

In quegli anni, chi scrive si occupava anche di dare visibilità e divulgare quanto portato avanti da quel movimento. Cronache che riempirono ben tre libri e circa una ventina di opuscoli. Dopo la guerra, e il venir meno di tante attività di quartiere, pareva giunto il momento adeguato di fare il punto e dare un giudizio di massima sullo stato dell’arte. Una rapida rassegna indicava i punti salienti della situazione per quanto riguardava le scuole. Gli organismi dirigenti si dimostravano più aperti che mai ad associazioni locali, club, e in genere alle attività extrascolastiche. Si poteva sostenere che si fosse ampiamente affermato il diritto della comunità ad usare quelle strutture al di fuori degli orari di lezione. Nella maggior parte delle grandi città gli spazi e anche il personale scolastico di vigilanza si aprivano a usi sportivi e associativi per giovani, soprattutto nei quartieri popolari, e gli adulti generalmente per il medesimo uso pagavano delle quote. Ma non si era ancora fissato un tipo di rapporto organico tra il quartiere, le attività varie civiche culturali o sportive, i club, e la scuola. Come mai gli ideali evocati da Woodrow Wilson e Charles E. Hughes, sostenuti da tanti riformatori sociali, non si erano realizzati?

Il Piano Regionale di New York

La domanda si poneva da tempo al sottoscritto, quando un evento stimolò la necessità di arrivare comunque a qualche tipo di conclusione: non solo per i centri scolastici, ma più in generale riguardo alla vita dei quartieri urbani. Il 22 maggio 1922 la Russel Sage Foundation annunciava di sostenere un Piano Regionale di New York e del suo Territorio, i cui studi specifici stavano già procedendo da oltre un anno. Nell’organizzazione definitiva del progetto, il sottoscritto grazie al lavoro svolto nel Settore Ricreazione della Russel, entrò a far parte della Divisione Sociale del Piano Regionale. L’obiettivo principale del piano regionale, dal punto di vista degli spazi ricreativi, era di rendere possibile «che le persone abitino vicino al luogo di lavoro, trovando nella stessa area anche occasioni per il tempo libero». Gli estensori del Piano avevano capito che da questo punto di vista ben poco si poteva fare nei vecchi quartieri già realizzati, ma ce ne erano altri che di continuo si aggiungevano a questi ampliando la città: se si fossero potuti costruire attrezzati adeguatamente di strutture ricreative, le cose sarebbero migliorate di molto. C’era dunque l’esigenza pratica di sviluppare dei criteri ideali.

La questione si articolava in due parti: strutture ricreative di scala urbana e regionale, strutture con un raggio d’azione di vicinato. Dato che il sottoscritto si era occupato della vita nei quartieri, questa parte venne affidata a lui. Osservando il problema dei quartieri da vicino, emergevano altre tre questioni: su che base distribuire a questa scala parchi e campi da gioco; presumendo che negli alloggi abitassero famiglie con una certa quantità di ragazzi di età inferiore ai sedici anni, come era possibile suddividere gli spazi, nonché organizzar egli edifici in modo da renderne disponibile molti; vista la rilevata grossa quantità di attività di tempo libero, sia al coperto che all’aperto, che rapporto esiste tra una determinata zona, una certa quantità di popolazione, situazioni sociali ed etniche, e la vitalità associativa? Ovvero in quale situazione si sviluppa una migliore vita di comunità?

Riflettendo su un metodo per distribuire campi da gioco in un quartiere, si evidenziavano due aspetti. Certo si doveva sapere quanta superficie fosse necessaria, poniamo, per far giocare cento bambini, ma se quella superficie si trovava su una strada di grande scorrimento, al centro geometrico dell’area servita, almeno la metà dei giovani utenti doveva rischiare la propria incolumità per raggiungerla. E poi, se la si collocava a ridosso di un’area industriale su un lato, alla fine di una residenziale sull’altro, il servizio al quartiere sarebbe stato fornito in modo sbilanciato. Insomma appariva evidente che non si poteva affrontare da sola la questione dei campi da gioco, comprendendo anche altri aspetti del quartiere: ma quali? In altre parole, se si avessero avuti i poteri di Re Mida, o magari di un dittatore fascista, come lo si sarebbe costruito un quartiere urbano?

Forest Hills Garden

La risposta a questa domanda mi arrivò da una direzione davvero inattesa. Riflettendo in un primo tempo sui problemi posti dal Piano Regionale, sembrava che ogni risposta dovesse essere trovata alla fine di ampi rilievi e analisi, e invece ecco una soluzione molto più a portata di mano. Il sottoscritto aveva abitato magnificamente in un quartiere del genere, e l’aveva visto crescere coi suoi occhi dal 1912, quando ci si era trasferito con la famiglia. Bastava, solo, analizzare quali aspetti ne determinassero la riuscita, e tradurli poi in principi generali. Quel quartiere si chiama Forest Hills Gardens, nell’area di Queens a New York, progetto promosso e finanziato dalla Russel Sage Foundation, complesso residenziale ispirato ad alcune esperienze britanniche. Frederick Law Olmsted ne aveva stracciato il sistema stradale e degli spazi verdi, mentre Grosvenor Atterbury era l’architetto incaricato per gli edifici. La Fondazione riteneva che così si sarebbe al tempo stesso realizzato un luogo molto gradevole per abitare, e dimostrato che è economicamente possibile realizzare un ambiente suburbano con ottimi alloggi e abbondanza di spazi aperti, sperando che altri imitassero l’esempio. E infatti l’organizzazione del progetto era di tipo commerciale anziché filantropico.

Quando chi scrive provò ad analizzare gli elementi costitutivi essenziali di quel quartiere, appariva come si trattasse in realtà delle componenti di un vicinato ideale. Contribuivano a ciò anche i caratteri non del tutto soddisfacenti, perché come si capiva essi derivavano da condizioni o non previste, o non modificabili. All’epoca del progetto (1910) nessuno poteva immaginare sino a che punto l’automobile avrebbe cambiato la vita moderna, né esisteva una autentica consapevolezza del ruolo fondamentale degli spazi da gioco pubblici. Ma il piano dei «Gardens» in linea di principio accoglieva entrambe le esigenze, pur senza svilupparle appieno. Analizzandone i caratteri elementari fondamentali, adeguandoli alle esigenze moderne, ed esprimendoli nei termini generali di principi per un quartiere, si arrivò alla formulazione della «unità di vicinato».

Più in dettaglio, il percorso con cui virtù e difetti di Forest Hills Gardens porta alla formulazione della neighborhood unit, si può riassumere brevemente in:

  • Dimensioni. Il quartiere copriva una superficie di circa 66 ettari, per una popolazione di 5.000 abitanti. A completamento delle costruzioni previste, la popolazione non eccederà comunque le capacità della scuola elementare.
  • Confini. La forma è grosso modo triangolare, con una linea ferroviaria su un lato e una strada di grande scorrimento su un altro. Il terzo confine segue i margini irregolari di una vecchia tenuta agricola, ed è poco avvertibile. Gli ingressi del traffico da fuori e altri problemi analoghi derivanti dall’assenza di una adeguata strada di circonvallazione esterna, ne sottolineano l’importanza.
  • Spazi aperti. Ai «Gardens» si calcola un totale di due ettari in piccoli spazi verdi, molto curati e inseriti organicamente nel sistema stradale. Nel 1910 ciò poteva essere considerato una ottima abbondante dotazione di spazi per il gioco: oggi la riterremmo insufficiente.
  • Luoghi pubblici. Fu riservato e poi costruito uno spazio centrale per la scuola; secondo tradizione la piazza, denominata Station Square coi negozi e vicina alla ferrovia, era dotata di architetture significative e considerata spazio civico e commerciale; la collocazione un po’ periferica rispetto al resto del quartiere però non era ideale. Oggi quella piazza è ancora usata anche per piccole manifestazioni, ma per altre cose come l’alzabandiera c’è Flagpole Green, i bambini giocano in un altro parco, le attività teatrali all’aperto si svolgono in uno spazio verde, le manifestazioni elettorali nella scuola, danze, riunioni, eventi nella casa comune. L’esperienza dei «Gardens» indica che un vicinato per le proprie attività ha bisogno di strutture centrali adeguate, e che lo spazio commerciale non funziona allo scopo.
  • Commercio. La piazza, come già spiegato, si trova in corrispondenza della stazione ferroviaria, da dove partono e arrivano i pendolari con Manhattan. È collegata con un sottopasso a un’altra zona commerciale sull’altro lato della ferrovia, che serve sia i «Gardens» che i quartieri confinanti.
  • Sistema viario interno. Nel tracciare la griglia stradale interna gli urbanisti hanno abbandonato il classico sistema viario, sostituendolo con uno più orientato alle funzioni specifiche. Ci sono quattro vie principali che attraversano tutto il quartiere (e che ahimè consentono la percorrenza al traffico dall’esterno), il cui portato non era prevedibile nel 1910. Oggi si pone urgente l’esigenza di schemi diversi.

L’esperienza di aver abitato in quel quartiere, fu utile anche riguardo al modo di formarsi delle associazioni locali, e alle rilevate discontinuità del movimento dei centri scolastici. Come spesso succede in tanti quartieri di tipo suburbano, i primi abitanti trovavano carenze di servizi, iniziando ad attivarsi per ottenerli attraverso comitati per i campi da gioco, la scuola, l’ufficio postale e altri temi locali.

La vita di quartiere ai «Gardens»

Una volta risolta la questione dei servizi locali, si trattava di mantenere una certa qualità dell’abitare. Fortunatamente nei documenti approvati per la realizzazione e l’assegnazione c’erano anche i contributi annuali obbligatori per le manutenzioni da parte dei proprietari. Quando cessò l’amministrazione provvisoria del costruttore, raccolta dei contributi e operatività delle manutenzioni passarono all’associazione dei proprietari. Nel corso delle assemblee periodiche i residenti avevano modo di conoscersi reciprocamente. Chi aveva interessi particolari incontrava altri che li condividevano, e magari volevano riunirsi in altri gruppi tematici e promuovere quegli argomenti. In questo modo nacquero il club dei signori e quello delle signore, la società di canto corale, i Gardens Players, i boy scout maschili e femminili e altre forme volontarie. Una particolare, la Celebrations Association, nacque da chi regolarmente celebrava con delle attività comuni la Giornata dell’Indipendenza e la vigilia di Natale.

Ridotta ai tratti generali, questa vita comune era assai semplice, e fortemente correlata alle forme fisiche del quartiere. Che inteso originariamente come rivolto alle necessità abitative di un gruppo sociale ben preciso, aveva attratto fasce piuttosto omogenee di residenti. Ma per avere il meglio possibile in termini di servizi, dovevano organizzasi, così pure per tutelare i caratteri della zona, o per sfruttare al meglio le occasioni. La forma del quartiere, in questo organizzarsi e godere dei vantaggi, aiutava molto. Ma questi caratteri di vita comune verificati ai «Gardens», non sono peculiari di certe fasce economiche e sociali di residenti: anche in altri grandi quartieri coordinati, e abitati da diversi gruppi, si sono prodotte manifestazioni analoghe di spirito comunitario. Sempre alla luce delle esperienze rilevate, la difficoltà fondamentale dei quartieri residenziali per organizzarsi associativamente attorno alla scuola pubblica appaiono chiari, e articolabili in quattro punti:

  1. esistono caratteristiche di organizzazione fisica – ad esempio il sistema viario – che danno agli abitanti identità e appartenenza;
  2. ci sono pochissimi servizi di quartiere a cui si può rispondere con l’azione organizzata degli abitanti, anche superando tutte le difficoltà a darsi una struttura in quel senso;
  3. l’associazionismo volontario su base locale in genere risulta difficile per le differenze di razza, religione, culture;
  4. in genere non esiste nulla nell’organizzazione fisica di un quartiere che specificamente richieda di associarsi, ed esistono invece parecchie situazioni in cui ciò è reso difficile.

Promuovere molto decisamente la vita collettiva, là dove essa non si manifesta spontaneamente, è obiettivo che richiede una certa preparazione: le organizzazione volontarie non si possono rendere obbligatorie o fabbricare dal nulla, devono crescere. Chi le coltiva deve saper gettare un seme, scegliere il terreno adatto e il contesto adeguato a ciascuna specie. Si tratta di un processo educativo, l’unico metodo per introdurre attività comunitarie nel fitto dei densi quartieri abitati di una metropoli. Nuove parti di città si possono costruire, e quelle vecchie degradare demolire e riqualificare, secondo quartieri residenziali concepiti in modo tale da far sorgere una ricca vita di comunità, profondamente radicata proprio in quelle caratteristiche fisiche.

Dunque la ricerca di chi scrive è stata un percorso lungo e tortuoso, articolato su una catena di eventi e terminato nella formulazione dell’idea di «unità di vicinato» che è l’oggetto centrale di questo libro. Il fatto che sia stata proposta attraverso il linguaggio e i concetti dell’urbanistica e del mondo delle costruzioni, è del tutto secondario. In sé e per sé la formula, è solo una serie di principi, una «ricomposizione» dei caratteri essenziali già esposti dal sottoscritto il 26 dicembre 1923 a Washington D.C. al convegno congiunto di American Sociological Society e National Community Center Association, e poi esposti in forma definitiva nel Volume 7 del Piano Regionale di New York, pubblicato nel 1929.

Il ruolo della «comunità faccia a faccia»

C’è una difficoltà a riprodurre l’atmosfera di vicinato, caratteristica del villaggio tradizionale, nelle città, specie nei quartieri composti da edifici multifamiliari. Molti residenti urbani non conoscono affatto chi abita nella porta accanto. Ma quando questi stessi abitanti si avvicinano l’uno all’altro nell’uso di strutture ricreative comuni, iniziano a conoscersi e ne nascono rapporti amichevoli. I quartieri realizzati con caratteri del tipo neighborhood unit hanno riprodotto le condizioni sociali perché questo faccia-a-faccia avvenga normalmente, e questo è il motivo per cui ne trattiamo qui.

Alcuni individui ben dotati sia mentalmente che socialmente, che anelano all’indipendenza, mettono in discussione il fatto di dover abitare in situazioni in cui tutto ciò che fanno quotidianamente è esposto agli sguardi dei vicini. E non c’è dubbio che parecchie persone, di origine rurale, si sono spostate in città proprio alla ricerca di anonimato. Esistono però indicazioni secondo cui vivere in qualche modo faccia a faccia possa essere la condizione normale dell’uomo, e che in assenza di questa condizione si tenda a degenerare. I modi in cui agisce questo meccanismo sociale, a quali epoche della storia umana risalga, ce li raccontano meglio gli psicologi e gli studiosi di discipline sociali. Attraverso alcuni estratti dai loro studi sull’argomento, proveremo a concludere la dissertazione.

Che il sistema di vicinato sia un fattore di benessere umano, da considerare entità sociale, è cosa riconosciuta da tempo, e vediamo cosa ci dice a proposito un vero esperto di questo campo in un testo di venticinque anni fa: «Credo si tratti di di una delle considerazioni più importanti e al tempo stesso sottovalutate delle scienze sociali, il fatto che le relazioni di vicinato abbiano un ruolo essenziale nel mantenere e far progredire la nostra società attuale, del tutto paragonabile a quello esercitato nell’evoluzione creativa nella medesima società. Oggi però emergono segnali, sia teorici che empirici, di un nuovo ruolo del vicinato nei processi sociali» (Robert A. Woods, The Neighborhood in Social Reconstruction, Papers and Proceedings of Eighth Annual Meeting of the American Sociological Society, 1913).

Tutti sappiamo che sono i genitori, il primo agente condizionatore nel plasmare il carattere umano, ma quali metodi utilizzino e quale influenza esattamente esercitino attorno al bambino, appare meno chiaro. Ecco come lo spiega uno psicologo: «Molto presto un bambino mostra reattività all’influenza dell’ambiente sociale, una pronta tendenza ad approvare o disapprovare, e i motivi appaiono piuttosto ovvi. Nei primi due o tre anni di vita, qualunque evento importante per il suo benessere avviene attraverso altre persone, e questi eventi sono accompagnati da reazioni, espressioni del viso, suoni. Appare quindi ovvio che, secondo la legge della risposta condizionata, questi stimoli acquisiscano immediatamente un significato universale nella vita del bambino. Gli atteggiamenti di approvazione o disapprovazione, comando, proibizione, acquistano valore in quanto forme di controllo sociale, che dureranno per tutta la vita, imponendo obbedienza alla legge e sensibilità ad altre sanzioni sociali» (Floyd H. Allport, Social Psycology, Houghton Mifflin Co., Chicago 1924).

Il potere di «disapprovazione del gregge» a cui il bambino viene abituato in casa, si esercita anche nel mondo esterno. Certo in quel caso non si esprimerà con la sculacciata o il brusco rimprovero, ma esistono di sicuro altre modalità altrettanto efficaci nel produrre i medesimi effetti. William I. Thomas ci spiega come la comunità – le persone che ci osservano nella nostra vita quotidiana – plasmi i nostri comportamenti definendo situazioni e producendo approvazione o condanna a seconda delle reazioni dell’individuo. Questa comunità esercita un costante controllo attraverso cenni, gesti, freddezza, pettegolezzi, commenti, ostracismo, sulla condotta dei propri membri. Sin dove arrivi, questo tipo di regolamentazione, quanto importante sia per la comunità e il vicinato, lo si coglie da quanto segue:

«Oltre alla famiglia, esiste la comunità a definire il contesto. Oggi si tratta di un agente piuttosto vago e debole, che non riesce a darci l’idea di quanto potere avesse in passato localmente, nel regolare i comportamenti. Si componeva di famiglie correlate, da legami di sangue o parentela acquisita, senza essere tanto ampia da impedire relazioni costanti tra tutti: era un gruppo faccia-a faccia. Un giorno chiesi a un contadino polacco quanto grande fosse un “okolica”, un vicinato, sin dove si spingesse. E lui mi rispose: arriva fin dove la gente parla di qualcuno. Era in comunità di questo tipo che nasceva il codice morale che ancora oggi riteniamo valido. Le convenzioni della comunità sono spontaneamente “popolari”, ma sia la chiesa che lo stato le incorporano in un modo o nell’altro nei propri codici più formalizzati» (William I. Thomas, The unadjusted girl, Little Brown & Co., Boston 1923).

Un sociologo che ha molto chiarito la funzione del (quello che definisce) «gruppo primario» è Charles Horton Cooley. Di seguito due estratti da suoi diversi lavori, a sette anni di distanza uno dall’altro:

«Dipendiamo per il nostro benessere morale dall’intimo associarci a un gruppo di qualche genere, di solito consistente nella nostra famiglia, nei vicini, negli amici. È l’interscambio di idee e sentimenti con questo gruppo, la consapevolezza costante delle sue opinioni, che ci rende normali i suoi criteri di ciò che è giusto o sbagliato» (C.H. Cooley, Social Process, Charles Scribner’s Sons, New York 1918). E ancora, «Con gruppi primari intendo quelli caratterizzati da associazione e cooperazione faccia a faccia-a-faccia. Primari lo sono in parecchi sensi, ma soprattutto nell’essere fondamentali nella formazione della natura e degli ideali sociali dell’individuo. […] Le più importanti sfere di questa intima associazione e cooperazione – anche se certo non le uniche – sono la famiglia, il gruppo di bambini compagni di giochi, e il vicinato o gruppo comunitario di anziani. Del vicinato si può dire, in generale, che sin da tempo in cui gli esseri umani si insediarono sul territorio in modo permanente, e sino almeno all’ascesa della città industriale moderna, esso ha giocato una parte fondamentale nella vita affettiva delle persone» (C.H. Cooley, Social Organization – A study of the larger mind, Charles Scribner’s Sons, New York 1909).

Se l’equilibrio di urgenze interiori che costituisce in media il carattere di un individuo dipende così tanto, per la propria stabilità, dalle sue reazioni a un ambiente associativo, possiamo certamente aspettarci vere e proprie aberrazioni nel caso esso gli venga sottratto. Nello slum urbano gli intrecci del gruppo primario sono stati troncati, e non sorprende che tante ricerche abbiano messo in luce gli alti tassi di delinquenza nelle aree sovraffollate e degradate. A questo proposito, tre brevi brani da un gruppo di sociologi che, direttamente o attraverso propri discepoli, hanno sviluppato tantissimi studi sulla situazione di Chicago, Illinois: «La mobilità della vita cittadina, col suo crescere nella quantità e intensità degli stimoli, tende inevitabilmente a confondere e demoralizzare le persone. Perché un elemento essenziale nei costumi e nella moralità personale, è il controllo sociale del gruppo primario. Là dove maggiore è la mobilità, e dove di conseguenza si infrange completamente il controllo primario, come avviene nelle zone più degradate della città moderna, si generano vede e proprie aree di demoralizzazione, promiscuità, vizio. Nelle nostre ricerche sulla città, rileviamo come quelle aree di mobilità siano anche le zone dove si trova la delinquenza giovanile, le bande organizzate di ragazzi, crimine, povertà, abbandono del coniuge, divorzi, abbandono di minori, abusi» (Robert E. Park, Ernest W. Burgess, Roderick D. McKenzie, The City, University of Chicago Press, 1925).

Il secondo brano sottolinea come i criteri delle bande organizzate prevalgano nelle aree urbane, là dove il gruppo primario, il rapporto comunitario faccia a faccia, invece è assente o carente. La si definisce un caso di “disorganizzazione sociale”: «Dato che la gran maggioranza delle bande giovanili di Chicago si compone di figli di immigrati, appare ovvio come sia questo tipo di giovani a soffrire di più l’assenza di guida conseguente alla disorganizzazione sociale. I genitori immigrati, in gran parte contadini da villaggi e zone rurali d’Europa, non sanno come controllare i propri figli in un ambiente urbano. Oltre alla separazione di linguaggio tra genitori e figli, che accresce ulteriormente le difficoltà di una disciplina familiare, c’è l’assenza di codice comunitario a rafforzare l’autorità genitoriale. Detto in altri termini, il figlio di immigrati tende a diventare rapidamente ma superficialmente americanizzato, assimilato ai più devianti ed estremi aspetti della vita nazionale, che incrocia nelle zone di disorganizzazione e mobilità in cui vive» (Frederic M. Thrasher, «The gang as a symptom of community disorganization», Journal of Applied Sociology, settembre-ottobre 1926)

Dal fondamentale ruolo dello slum in rapporto alla delinquenza nel dibattito, si desumerebbe che la povertà sia caratteristica delle aree urbane di demoralizzazione. Il breve estratto che segue descrive un tipo di quartiere che si può trovare in qualsiasi grande città, ma mostra anche come non si limiti alla zona povera: «La cosa che più colpisce nella vita locale a Near North Side, è il fatto che, dal Lago a est sino al fiume a ovest, non esiste nulla che potremmo definire “quartiere”. Dalle lussuose dimore della Gold Coast ai tuguri di Little Hell manca proprio del tutto qualunque identità, consapevolezza, collaborazione. Tutte le zone di Near North Side sono comunità in un processo di disintegrazione, o addirittura un “mondo di camere ammobiliate”, da cui è evaporata qualunque idea, di comunità. E la situazione delle istituzioni locali e delle agenzie sociali significativamente rispecchia questo genere di vita, le sue possibilità di qualcosa che si avvicini ad una azione comunitaria. Nel villaggio, la chiesa, la scuola, la “assemblea” o organizzazione politica, esistono in quanto istituzioni comunitarie, sono espressione della comunità. Mentre a Near North Side la chiesa ha smesso dia vere qualunque rapporto organico con la vita locale, la scuola pure “dentro il quartiere” è solo il nodo di una rete più ampia di scuole, dirette centralmente, con poco interesse in ciò che accade localmente, il “luogo dell’assemblea” si è ridotto a un club dove “i ragazzi” o qualche attivista politico clientelare si incontrano a prendere ordini da un capo, o magari per un giro di poker» (Harvey W. Zorbaugh, Gold Coast and Slum, Chicago University Press, 1929).

Riguardo ai cambi di residenza di una normale famiglia, trasferirsi appare molto più facile quando si tratta di un trapianto da una vivace comunità locale verso una unità di vicinato. La ricchezza associativa del nuovo quartiere sarà qualcosa di molto simile a quel che si è lasciato. Si troverà un club femminile, boy scout o altro genere analogo, qualche gruppo teatrale, ovviamente l’associazione dei proprietari, e le attività culturali. Tutti, questi, ansiosi di avere nuovi membri tra i componenti della famiglia, che scopriranno modi di sviluppare le proprie tendenze. In tal modo, anche recidere alcune radici non comporta certo gravi disturbi della personalità. Sinora abbiamo parlato degli effetti dell’ambiente sul codice sociale: aspetto importante della vita, ma aspetto sostanzialmente negativo. Si potrebbe anche avere una situazione in cui non si verificano mai infrazioni al codice prestabilito, dove nessuno prende mai in mano un coltello se non per affettare il pane o l’arrosto, ma anche avere un ambiente sociale passivo e immobile. Ciò che rende l’esistenza brillante, stimolante, viva, è la varietà, non certo il conformismo, la differenza e non certo l’uniformità. Quando un individuo progredisce più che mai professionalmente, raggiunge mete importanti nell’arte, o solo nella capacità di gestire situazioni ha certamente progredito nella vita, si è arricchito. Qui la comunità di vicinato può giocare un ruolo molto importante.

Nel caso di attori, musicisti, pittori, commediografi, lo sviluppo individuale dipende interamente dall’ambiente in cui essi vengono a trovarsi per destino. Il talento può anche non emergere per quello che è. L’abilità di un giovane nel disegno o nel suonare, può non essere colta nelle sue piene potenzialità dalla famiglia o dai parenti. Nelle famiglie più modeste, è solo quando qualcuno al di fuori della cerchia immediata inizia a commentare queste capacità, che gli adulti se ne accorgono e gli consentono di accedere ad una adeguata formazione. Attori e attrici spesso scoprono le proprie capacità istrioniche in qualche piccola produzione locale, e sono molti con questo dono che non hanno mai avuto modo di accorgersene, o magari solo quando era troppo tardi per svilupparlo. Qualunque arte, richiede in ogni stadio di sviluppo di manifestarsi in pubblico, e il periodo critico per un novizio è in genere tra i primi tentativi domestici riconosciuti, e un altro riconoscimento in qualche modo ufficiale. È proprio questo spazio, ad essere occupato dal pubblico intermedio di un vicinato, che pare fatto apposta.

Ma non è certo solo l’artista, il genere di personalità ad alimentarsi all’ambiente del gruppo primario. Qualunque individuo che aspira a leadership pubblica può trovare, nelle attività organizzate nei luoghi di riunione di una comunità di vicinato, tante occasioni per apprendere e praticare, parlare in pubblico, collaborare a commissioni, organizzare e programmare. Se è interessato a promuovere qualche causa, qui acquisisce l’arte della propaganda. I giovani appena usciti dalle scuole superiori, che aspirano a carriere pubbliche, iniziano sempre il proprio apprendistato proprio nei quartieri. Qualunque persona che ricopre un ruolo in cui è fondamentale organizzare momenti di intrattenimento, ne ha appreso i rudimenti in un centro di quartiere. È grande la facilità con cui un novizio desideroso di apprendere può accedere a corsi, trovare maestri, formare gruppi. Ci sono tante occasioni di avviamento anche preliminare professionale in cui ci si trova con altri, che sia l’apprendere una lingua straniera, studiare la fotografia, collezionare i francobolli, imparare a ballare il tip-tap, costruire cappellini, praticare giochi di società. Tutto accade facilmente, in un quartiere dove esiste una struttura comune in cui incontrarsi. Quello che si chiama «attrito della distanza», che svuota di energie tante iniziative a scala cittadina, qui non esiste. Si crede comunemente, che sia stata la macchina, a disumanizzare la città. Ma se effettivamente è avvenuto così, una sorta di giustizia poetica vorrebbe che oggi sia la macchina, nel suo ricostruire la città, a restituirle un’atmosfera amichevole.

Estratto da: Housing for the Machine Age, Russel Sage Foundation, New York 1939 – Titolo originale del capitolo: History and social significance of the Unit Idea – Traduzione di Fabrizio Bottini (le prime tre immagini sono tratte dal libro di Perry, le ultime due dal classico How the Other Half Lives, di Jacob Riis sullo slum newyorchese) – Per gli altri testi di e su Clarence Perry su questo sito, fare riferimento al tag a piè di pagina 

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