Tempo fa un interessante articolo di urbanistica sul Financial Times, provava a fare un parallelo tra l’autoritarismo implicito di certi grandi progetti per le città, e certi altrettanto mastodontici piani di organizzazione aziendale. L’autore non era gran che esperto di politiche urbane, confondeva il campo dell’architettura con quello delle grandi infrastrutture, le vie della città con i corridoi degli uffici, ma in fondo ci azzeccava parecchio: il paradigma totalitario della macchina produttiva che stritola l’individuo e la sua libera capacità di relazione, trova un habitat perfetto e accogliente, in certi grandi progetti novecenteschi, di cui il grattacielo in stile razionalista è il segno più visibile, e invece la città «sporca» alla Jane Jacobs come alternativa più nota e decantata. Certo, in quell’articolo c’erano un sacco di cose che apparivano forzate, in quell’articolo, ma la tesi di fondo poteva anche essere condivisibile. Ma ce ne sono altre, di tesi, come quella sostenuta da un corposo studio che ha una sua soluzione al paradigma urbano novecentesco: dargli una bella botta definitiva con una palla di ghisa, la wreckin’ ball di Bruce Springsteen per intenderci.
Non si tratta di pura sparata provocatoria, ma di una ricerca che parte da considerazioni molto più ampie, ben note in tutto il mondo, e che si riassumono nel cosiddetto climate change retrofitting, ovvero adeguamento dello stock edilizio e urbano esistente alla limitazione di emissioni e sprechi energetici. Molte grandi città si sono dotate da tempo di strategie per affrontare il cambiamento climatico, e fra le azioni principali c’è proprio il progressivo intervento, fiscalmente e anche urbanisticamente facilitato, sui vecchi edifici per le nuove esigenze. Ma la tesi sostenuta già nel titolo dal rapporto Midcentury (Un)Modern è che ci sia assai poco da salvare nella produzione corrente di fabbricati a uso ufficio del genere a facciata di acciaio e vetro, quelli conosciuti come curtain wall.
Certo si intuisce che tutta la produzione di massa di questi scatoloni, fatti per contenere schiere di impiegati e segretarie dalle nove alle cinque, difficilmente è assimilabile alla poetica del grattacielo Seagram di Mies van der Rohe, cantato anche in modo affatto sospetto e pure progressista dal sociologo William Whyte come paradigma dello spazio pubblico urbano spontaneo, fisicamente liberato e occupato dai cittadini. Anzi, interni ed esterni di quel tipo di edilizia sono esattamente il segno caratteristico di un’idea di città-macchina che stritola l’individuo, inscatolato prima nell’abitacolo dell’auto dentro l’ingorgo della expressway, e poi per otto ore dentro l’equivalente scatola a aria condizionata dell’ufficio, magari affacciato sul panorama della medesima superstrada. I nostri architetti che analizzano l’efficienza ambientale dello stock edilizio novecentesco, naturalmente di queste cose ne parlano vagamente e di sfuggita, ma le fanno chiaramente capire: l’epoca che ci dobbiamo lasciare alle spalle è quella dello spreco energetico e degli impatti ambientali, che evoca automaticamente immagini e stili di vita precisi, quelli de L’Uomo dell’Organizzazione.
Ma non sono, in fondo, le stesse cose che dice il Financial Times? Certo l’articolo del giornale era totalmente permeato dall’atmosfera che negli Usa chiamano libertaria, ovvero un misto particolare di individualismo e una concezione miracolistica del mercato, dentro il quale tutto nasce e tutto si trasforma. Il quotidiano economico ripescava l’antica contrapposizione fra lo zar delle opere pubbliche Robert Moses, e la casalinga intelligente Jane Jacobs, in sostanza facendoli diventare da un lato il simbolo del potere ottuso che tarpa le ali alla creatività, dall’altro il vero nucleo centrale di una ricerca di soddisfazione personale che poi, inevitabilmente, porta al progresso. Si capisce così poi anche una incredibile confusione di scale, con progetti metropolitani mescolati inopinatamente ad architetture per interni dietro le facciate curtain wall. Invece nel più ponderato rapporto i tecnici dell’edilizia si soffermano sulle prestazioni energetiche dei medesimi fabbricati, per poi però giudicare alla fine che l’opzione migliore, se vogliamo davvero raffreddare il pianeta, è quella di tirarli giù con la dinamite, i simboli del passato recente energivoro e aziendalista, oltre che modernista e razionalista in senso deteriore.
Il concetto generale l’ha capito al volo anche un giornalista che per mestiere si occupa da sempre di cose urbane, Anthony Flint, autore a suo tempo dell’ottimo Our Land, una condanna senza condizionali dello sprawl suburbano. Dietro la determinazione ad agire con urgenza e risparmio di risorse, ad arginare le ondate del cambiamento climatico, altro non c’è che una furia distruttrice dettata dai palazzinari che poi ricostruiranno tutto su misura per i loro interessi. Pare il medesimo metodo secondo cui, alle spalle di tanti recuperi dell’idea di città di Jane Jacobs, c’è in sostanza null’altro che il rifiuto dell’urbanistica pubblica, vista come il male assoluto, la morte della città per eccesso di dirigismo: il quale eccesso di dirigismo inizia secondo il vero liberista appena si vuole contrastare la sana iniziativa individuale. Nel caso specifico di New York, dove si svolgeva questa vicenda polemica, c’era l’allora sindaco liberista ma intelligente come Bloomberg, che ha puntato molto sulla riconversione ambientale strategica come motore di sviluppo metropolitano. Con un grande programma strategico detto PlaNYC 2030 (poi emendato in senso più sociale dall’amministrazione De Blasio) a fare da contenitore.
Esistono almeno due modi di interpretare i grandi piani strategici: quello in buona fede e scientificamente corretto, che li vede coordinare l’azione intersettoriale pubblica e di rapporto coi privati; quello sostanzialmente in malafede, comunque distorto, che li considera strumenti di comodo bypass per tutto quanto della pianificazione e programmazione corrente non piace, e si vuole schivare. Diciamolo pure, che esistono parecchi aspetti di grande programmazione che al sedicente libero mercato non piacciono affatto. Uno è quello solito della regolamentazione urbanistica, di chi non ha affatto bisogno di piano regolatore perché sa regolarsi benissimo da solo, come dicono. Un altro è quello di certi rapporti collaborativi con la pubblica amministrazione, i quali a volte comportano per l’impresa privata di adeguarsi ad alcune regole, come promuovere il telelavoro generalizzato in funzione anti-traffico. Le aggressioni dialettiche, prima del Financial Times, poi dello studio edilizio-ambientale Midcentury (Un)Modern, sembrano mirare proprio a questa visione «invece» del programma strategico, convertendolo virtualmente in un solo canale di finanziamento privilegiato, esenzione fiscale, corsia riservata per gli investimenti pubblici.
E la pubblica utilità dove finisce? Quella, ci ripetono senza posa da decenni i cantori del mercato, scaturisce naturale dal ricomporsi dei piccoli interessi individuali nel grande disegno, grazie alla famosa Mano Invisibile. Oggi però assistiamo solo alla distorsione del pensiero riformista di Jane Jacobs, trasformata suo malgrado in una amica della libera impresa contro il dirigismo del manager pubblico Robert Moses. Oppure, addirittura, al dispiegarsi dell’idea di qualche palazzinaro e dei suoi architetti, di cancellare una intera porzione di storia urbana con la medesima scusa, ovvero che si tratti del prodotto perverso del dirigismo razionalista, stavolta colpevole soprattutto di spreco energetico. Mentre volendo, davvero volendo, basta fare due conti per capire quanto il sistema urbano denso della metropoli sia già ampiamente, di per sé, assai più risparmioso della dispersione di villette e centri commerciali. Intendete proprio raffreddare il pianeta? Inventatevi qualcosa di credibile per quelle aree energivore e pompa di emissioni di gas serra, invece di sognare la tabula rasa su cui incrementare metri cubi con la scusa dell’edilizia sostenibile.
Anche le sparate più inverosimili però, spesso trovano insperate alleanze fra chi opponendo al loro progetto una propria idea di pura conservazione, finisce per indebolire il medesimo approccio di piano generale che è il loro obiettivo polemico. Non si sta, qui, saltando di palo in frasca, dal razionalismo urbanistico-architettonico a certe idee di tutela di tutto quanto appare tradizionale: il sostanziale rifiuto della logica di piano, di un approccio complesso, a favore del particolare, del caso per caso. Se i grattacieli sono visti come il male, e magari anche i supermercati o simili, poi finisce che la casetta, il cortile operaio, la nostalgia di chissà cosa, diventano automaticamente il bene. Si mobilitano ignari intellettuali o personaggi dello spettacolo che di queste cose ne capiscono poco o nulla, per praticare strampalate «tutele» intese quasi come una categoria dello spirito, un recupero di tradizioni,così come si evoca l’anima di Jane Jacobs per tutelare un presunto individualismo dei pendolari, «liberi» di farsi un paio d’ore di strada invece che «oppressi» dal telelavoro. Un’idea di finta città medievale, brulicante un po’ alla Peter Bruegel, che non sta né in cielo né in terra, ma serve solo a indebolire qualunque genere di strategia generale. Dove si pesta sempre i piedi a qualcuno, ovvio, ma di solito in modo condiviso, e non a scapito esclusivo dei poveracci. Con la scusa della nostalgia canaglia.
Riferimenti (stavolta pressoché indispensabili a capire davvero questo articolo):
– Terrapin Bright Green, Midcentury (Un)Modern, rapporto 2013 (scarica il pdf)
– John Kay, Le meraviglie di New York e i limiti del grande progetto urbano Financial Times, 27 marzo 2013;
– Massimo Gaggi, Bloomberg digitale, una lezione per tutti Corriere della Sera 29 marzo 2013;
– Anthony Flint, The Case Against Saving Midcentury Office Buildings, The Atlantic Cities, 29 marzo 2013;
– Paola D’Amico, Via Gluck, Celentano sostiene il vincolo contro il cemento, Corriere della Sera 14 marzo 2013.