Probabilmente confondere le acque è sia una tentazione che una propensione, ovvero ci si prova sempre in un modo o nell’altro. Capita un problema, una questione qualsiasi, di varia gravità, e tutti ci si scaraventano entusiasticamente dentro rivendicando il possesso della soluzione miracolosa: di sicuro la cosa non aiuta gran che, almeno se si vuole davvero cercarla, la soluzione. Un esempio ormai ricorrente è l’emergere della cosiddetta questione periferie, la quale questione si manifesta puntuale sotto forma di violenza. Cambiano solo i modi specifici di espressione, di questa violenza, a seconda dei luoghi: c’è la variante saccheggio di negozi per arraffare prodotti costosi, si presume di solito fuori dalla portata dei saccheggiatori; oppure si sfascia tutto e basta facendo più danni possibili, per sottolineare il concetto; oppure ancora la carica di violenza viene parzialmente elaborata e si traduce in esportazione lontana, come nel caso recentissimo degli attentati di Parigi, dove l’originario disagio ed emarginazione si sono tradotti addirittura in terrorismo di matrice politico-religiosa. Colpisce però un fatto abbastanza ricorrente, e a ben vedere assai radicato sia nel nostro immaginario che in quello di chi prende le decisioni: il concetto di periferia, complesso insieme di una montagna di fattori, viene sempre riassunto in una precisa immagine spaziale.
Disagio in comoda confezione sotto vuoto
Deve essere una specie di memoria atavica, quella che ci fa collegare alcune precise forme a un’idea generale di disagio e degrado che, in fondo, con forme specifiche ha dimostrato di avere rapporti molto labili. Prendiamo un caso recente, come le rivolte nel sobborgo di Ferguson, area metropolitana di St. Louis: tutta la stampa schierata a manifestare stupore perché quei cortei improvvisati e quei saccheggi con incendio avvenivano su uno sfondo sbagliato, fatto di villette, scatolotti commerciali e strisce verdi di interposizione, anziché tra le abituali solide pareti dei caseggiati razionalisti, che proprio lì a St. Louis avevano il loro simbolo negativo nel complesso Pruitt-Igoe demolito con la dinamite quarant’anni fa. Eppure sono parecchi anni, che prima romanzieri, poi urbanisti e ambientalisti, infine solide ricerche statistiche come quelle della Brookings Institution, ci raccontano con dovizia di particolari e varianti contestuali che si può star male comunque e ovunque, che disagio e violenza non hanno bisogno della comoda confezione multipiano squadrata di un progetto da manuale di case popolari. Anche il teorico dei cosiddetti spazi sicuri difendibili Oscar Newman, all’inizio sistematicamente intento a separare appunto luoghi amici (le villette, o qualcosa di simile) da contesti implicitamente ostili (i palazzoni popolari e assimilati) sulla base di sensi di appartenenza e istinto proprietario, ha dovuto parecchio ricredersi di fronte all’evidenza. Ma niente da fare: l’automatismo scatta, inesorabile, al massimo l’eccezione conferma la regola, peccato che siano tutte eccezioni.
La periferia virtuale della salute
Tra gli elementi di degrado, disagio, emarginazione che colleghiamo chissà perché ai nostri feticci a forma di parallelepipedo, ci sta anche la cosiddetta ingiustizia ambientale, ovvero tutti i danni alla salute che quartieri mal concepiti e collocati possono provocare, ai singoli e alla collettività. Ad esempio l’asma da tempo immemorabile è una delle patologie legate a stili di vita urbani periferici dentro l’atmosfera inquinata dagli scarichi, un po’ come avveniva un tempo con la tubercolosi, ma anche qui pare che a ben guardare le cose non vadano proprio così. Tra i fattori che determinano la diffusione dell’asma ci sarebbero invece in primo piano variabili che con l’architettura e l’urbanistica c’entrano come i cavoli a merenda: etnia, reddito, condizioni familiari, queste cose incidono sulle malattie respiratorie, sicuramente più del grigiore di certi balconi in calcestruzzo. E se vale per l’asma, ovviamente (pare ridicolo doverlo ribadire, ma si deve) a maggior ragione si può allargare a tantissime altre patologie, fisiche e psicologiche, quanto mescolato in minestrone indistinto poi chiamiamo disagio. Ma quel che conta non è tanto, qui, andare a vedere quanto pesa relativamente in Minnesota l’incidenza dell’etnia ispanica sul manifestarsi dell’epatite, o quella del reddito e composizione familiare nell’appartenenza a sette religiose nell’area metropolitana di Marsiglia. Quel che conta, come metodo, è arrivare a capire una cosa: non solo il cosiddetto problema delle periferie non è cosa da architetti, ma anche lo spazio fisico in generale c’entra poco o nulla. Per dire, risucchiate fuori tutti gli esseri umani da un quartiere, e senza cambiare nulla, nemmeno uno spillo, mettetecene dentro altri, e tutto cambierà. Si tratti di centro, periferia, così così, edifici alti, bassi, sparsi o fitti. E smettiamola di prenderci in giro, e farci prendere in giro da improvvisati profeti dotati di bacchetta magica. A un problema complesso non esiste soluzione semplice, e mano che mai sempliciona, astenersi profeti sbraitanti il proprio progettone.
Riferimenti:
AA.VV. Neighborhood poverty, urban residence, race/ethnicity, and asthma: Rethinking the inner-city asthma epidemic, Journal of Allergy and Clinical Immunology (in attesa di pubblicazione)