La marcia in più dei cosiddetti archistar non risiede certo nella qualità dei progetti, almeno del tutto analoga a quella di altri studi meno blasonati e sbandierati come garanzia di eccellenza. Sta invece nella grande abilità mediatica (di cui la comunicazione del progetto è parte assai più importante del progetto stesso) che riesce via via a trasformare la parte nel tutto, come se quella trasformazione, in sé e per sé relativamente piccola, addirittura insignificante, si trascinasse appresso interi universi, convertendoli in docili sfondi su cui spiccare netta e incontrastata. Solo così si spiega ad esempio la fulminea conversione di un concetto tecnico-produttivo come la vertical farm in un formato immobiliare che non ne conserva se non in superficie alcune non essenziali caratteristiche, oppure certe azzardate patenti di sostenibilità per interventi che a ben vedere ne ostentano vistosi soltanto alcuni simboli esteriori. Questa incredibile capacità mediatica, di per sé nulla di negativo se vista dalla prospettiva del marketing di settore, finisce però per distogliere l’attenzione dal fatto che stiamo pur sempre operando sulla città luogo complesso e contraddittorio, e semplificare troppo (tutte le contraddizioni si risolvono in un modo o nell’altro guardando la torre sfavillante griffata) finisce per emarginare altre più impellenti questioni, ambientali, sociali, economiche e via dicendo. Ovvero farci scordare quanto l’organismo urbano sia tale, un luogo dove cambiando un solo fattore si mettono in modo una serie di interazioni, che andrebbero quantomeno valutate preventivamente, invece di riporre fede cieca nella Mano Invisibile del Progetto.
Previsioni dello spazio e del tempo
Certo non si tratta, esattamente, di fede cieca, ma solo di abitudine ad agire nel modo apparentemente più ragionevole quando ci si trova davanti qualcosa di incomprensibile: capire quel poco che si riesce a capire, e affidarsi all’intuito per tutto il resto. E quale intuito migliore (da un certo punto di vista con una lunga storia di comprovata affidabilità) di quello dell’artista-architetto? Così si è continuato per decenni a provare a raccogliere il più possibile dati, a elaborarli, a costruire modelli, ma poi alla fine c’era sempre qualche forma di balzo creativo, non proprio nel buio ma almeno nella penombra. Almeno finché non sono spuntati certi giochini da computer come Sim City, che in fondo pareva una specie di Monopoli da giocare sullo schermo anziché su un percorso di cartone disegnato. O meglio, finché quei giochini non hanno iniziato a manifestare certi inusitati effetti socio-culturali, perché la faccenda delle innovazioni funziona sempre così: hai voglia di introdurre trabiccoli e concetti, ma in sé non contano nulla se non li consideri in relazione al loro successo e capacità di radicamento nei comportamenti collettivi. Giocare a Sim City per una generazione e passa ha significato superare un gap culturale fondamentale, che chiudeva la porta di fatto a una infinità di altre innovazioni di metodo, quelle che in fondo da parecchio consentivano di ridimensionare quel ruolo «strategico» dell’intuizione artistica.
La bicicletta e il pedalare
Perché dai tempi in cui si era gettato il cuore oltre l’ostacolo del moloch metropolitano, tante cose erano successe sia nel campo della raccolta di dati e informazioni, sia in quello della loro disponibilità, circolazione, elaborazione e proiezione. Nondimeno, un conto è sapere (e figuriamoci collettivamente), un conto è sapere di sapere, e altro conto ancora tradurre quel sapere in corrente prospettiva di osservazione e azione. Ci voleva appunto chi era cresciuto fin dallo svezzamento mentale, pensando che fosse del tutto ovvio correlare ciò che di norma non veniva correlato, gli spazi, i flussi, le decisioni dette imponderabili, ma che ponderabili in realtà lo diventavano se inserite a sistema. Venne poi il concetto di smart city, continuamente strattonato di qui e di là da guru tecnologici e decisori politici ansiosi di conservarsi intatta tutta la loro soggettiva discrezionalità. Ma anche valutato da chi voleva valutarlo, ovvero come una specie di grande occasione per provare a saltare il fosso del vecchio metodo «proviamo e poi si vedrà», dato che si poteva vedere e prevedere in anticipo qualcosa, e stavolta non in un gioco di simulazione, ma nella realtà urbana vissuta. E siamo ai giorni nostri, con quegli ex ragazzini un po’ nerd che si sono fruttuosamente dedicati a varie branche sociali e spaziali fortemente connesse con le politiche urbane, e che vorrebbero provare a sfruttare le potenzialità di tecnologie e organizzazione. La vera domanda suona adesso: glie lo lasceranno fare, oppure verranno ancora frustrati dai tizi ben avvitati al potere discrezionale, si tratti di artisti venduti, di speculatori, di politici autoritari e magari corrotti?
Riferimenti:
Tony Yoo, SimCity legacy: smarter cities when urban planners play for keeps, The Guardian, 13 luglio 2016