Come noto la marea delle politiche neoliberali ha trascinato con sé anche una sorta di teologia fai da te, che nei vari angoli oscuri della nostra valle di lacrime di vita quotidiana, forzosamente lontana dai bagliori della fede pura nella Mano Invisibile del Mercato, prova a gettare sprazzi di luce almeno sulle modeste attività di manipolazione della materia. Le trasformazioni edilizie per esempio, che tra i chierici della nuova fede diventano addirittura espressione della «libertà di costruire» come recita un noto slogan. Un articolo di Roberto Camagni (*) scritto nell’ambito di una discussione di carattere scientifico nel tentativo di arginare almeno un po’ e nei fondamenti l’alluvione teologica, ci può anche aiutare a comprendere quanto e attraverso quali strade la produzione edilizia si riflette sull’organizzazione della città e sull’economia del Paese. Specie individuando le crepe teoriche di questa fede fai da te da prevosti della rendita immobiliare e dintorni.
Un saggio, quello di Camagni, espresso nella forma di «dieci proposizioni critiche» verso le tesi liberiste di Stefano Moroni, a suo tempo massima espressione teorica-accademica di una cultura che intendeva (peraltro con un certo successo operativo) far strame della cultura urbanistica novecentesca, di solito riducendola prima a una sorta di manualetto tecnico di cui contestare i fondamenti per poi cancellarne via via i capitoli. Le proposizioni critiche di Camagni possono ancora oggi se osservate in prospettiva storica delineare un complesso di fenomeni in grado di scoraggiare i facili entusiasmi con cui viene accolto tutto ciò che di mastotodontico e voluminoso si materializza nella nostra città, di solito applicando in pratica il Manuale Teologico che l’azione politica neoliberale ha da allora sostituito all’obsoleta urbanistica novecentesca prescrittiva (a suo dire) In altre parole letto con la dovuta attenzione il brano di Roberto Camagni ci spiega con ottime capacità previsionali quello che sta succedendo ancora oggi, e appare validissimo sotto il profilo dell’analisi economica.
Parte subito criticamente, l’articolo, rilevando come paia artificioso sostenere le virtù del liberissimo mercato, mettendole a confronto con l’insostenibilità della pianificazione ultracentralizzata, dal momento che quel modello (sempre sia mai davvero esistito fuori dalle caricature para-sovietiche che ne fanno i neoliberali) non interessa più a nessuno che abbia la testa sulle spalle. Tanto più decisiva è la critica di Camagni in quanto si svolge sul terreno dottrinale di un rigoroso liberalismo, riprendendo passi cruciali di Hayek proprio laddove l’economista austriaco, nel quadro di un’accorata difesa dell’efficacia dei meccanismi di mercato, segnala tuttavia la specificità dei beni immobiliari rispetto all’insieme dei beni capitali. I beni immobiliari hanno caratteristiche particolari e nelle vicende economiche seguono traiettorie non omologabili in senso macroeconomico.
Su questo punto, seguendo il ragionamento di Camagni si può trarre una generalizzazione di grande sostanza che, a mio avviso, rappresenta un punto fermo nella polemica tra gli ultraliberisti e tutti coloro che rilevano, seppur con intenti non sempre omogenei, l’esigenza di un regolatore pubblico in materia di urbanistica. In un’economia sofisticata non solo, come abbiamo visto, è sbagliato far dei beni capitali un insieme omogeneo assimilandovi i beni immobiliari, ma è anche improprio parlare di asset immobiliari con riferimento esclusivo ai beni materiali, case, edifici e terreni, in quanto, solo per citare il caso più vistoso, anche gli astratti diritti edificatori costituiscono capitale e in certi casi possono avere valore anche superiore.
La produzione incontrollata dei cosiddetti «diritti edificatori» (che già in un paese come l’Italia dove questi, inesistenti, sono stati inventati di sana pianta con un metodo che ricorda nella sua comicità quello di Google Translator sul social, al solo scopo di giustificarne il «trasferimento») pone problemi che il mercato non è in grado di risolvere o che riesce a risolvere solo attraverso lo scoppio di bolle, fallimenti finanziari e crisi varie, è il caso di domandarsi se alla base di questo non vi sia una ragione formale, cioè riconducibile alle leggi dell’economia. Il fatto è che i diritti edificatori per loro natura sono, fintanto che persistono determinate condizioni, ciò che si dice «quasi moneta», cioè beni molto liquidi, facilmente commercializzabili. La produzione di diritti edificatori, che si materializzino o meno in solidi edifici, che abbiamo o meno conseguenze spaziali immediate, è dunque necessariamente inflattiva. Cosicchè i liberisti più «hayekiani di Hayek» si trovano dentro una contraddizione impossibile da sciogliere: come conciliare un’ostinata taccagneria in materia di politica monetaria con l’estrema liberalità in fatto di concessioni edilizie? La contraddizione non ha soluzione perchè a quella quasi moneta rappresentata dai diritti a costruire corrisponde molta, moltissima moneta bancaria. I diritti a piazzare mattoni infatti diventano automaticamente «bancabili» con scarsa considerazione per la riconversione del denaro virtuale rappresentato dai diritti stessi in denaro reale, cioè per le possibilità del mercato di assorbire tutta l’offerta di case a prezzi che nulla hanno a che vedere con le potenzialità economiche della domanda, essendo frutto unicamente di un calcolo finanziario volto a sostenere i bilanci.
Accade cioè proprio quello che i liberisti considerano lo spauracchio, ma che inopinatamente non vedono quando la produzione monetaria prende la forma dei diritti volumetrici. Keynes parlava di distruzione di moneta conseguente alla creazione monetaria. Il prestito crea moneta, la restituzione del prestito distrugge moneta. Questo finchè le cose vanno bene. Le difficoltà sorgono quando, e accade molto spesso, si crea un corto circuito tra la valorizzazione del capitale investito e le reali potenzialità del mercato. Minsky, tagliando corto, sosteneva che la sola alternativa, in caso di deprezzamento delle ipoteche immobiliari è il rifinanziamento delle posizioni. La ragione è evidente e nel 2008 ce ne siamo accorti sulla nostra pelle: siccome le banche sono molto esposte sul credito immobiliare, quando esplodono le bolle il riconoscimento delle perdite si rifletterebbe pesantemente sui bilanci. Non dei costruttori, ai quali importa poco di fallire in quanto hanno operato «a leva», cioè solo con denaro preso a prestito, ma delle banche, con conseguenze insostenibili per l’intera società.
Così si ritiene generalmente preferibile aumentare l’esposizione con ulteriori finanziamenti, ai quail devono però corrispondere ulteriori diritti edificatori, maggiori volumetrie, rimandando ogni volta la resa dei conti e confidando nella generosità della sorte per la risoluzione del problema. Gran parte dei provvedimenti di vigilanza bancaria istituiti a livello comunitario sono finalizzati proprio a prevenire eventualità di questo tipo. Del resto già in risposta alla crisi dei subprime del 2008, considerata l’impossibilità del sistema di reggere nel lungo periodo, non dimentichi della lezione ricevuta dalla bolla dei terreni giapponese, alcuni autori, tra i quali Stiglitz e Keiichiro Kobayashi, auspicavano il riconoscimento delle perdite derivante da un necessario e improrogabile reset immobiliare.
Ecco dunque perchè torna all’ordine del giorno la lezione di Camagni. Oggi ci troviamo in quella medesima situazione non risolta, ma con l’aggravante che la crisi e la bolla che si stanno profilando incorporano tutto il marciume finanziario non liquidato di quel disastro a quello prodotto da allora ad oggi. Nei film americani post 2008 i manager di Wall Street dicono sereni «merda immobiliare», e sembrano molto consapevoli di cosa stanno parlano.
(*) Roberto Camagni, «Liberalismo contro pianificazione? Una idiosincrasia non autorizzata dalla teoria economica», Archivio di Studi Urbani e Regionali n. 90/2007