Resilienza significa qualcosa più che resistenza e capacità di reazione, è in effetti la capacità consapevole di predisporsi e programmare nelle linee generali l’assorbimento (o meglio metabolizzazione) di eventi più o meno traumatici, e adattarsi al meglio a un diverso contesto in cui continuare a prosperare. Nessun rapporto diretto e lineare, come si dovrebbe intuire, con la chiusura a riccio in vaga e probabilmente vana attesa di tempi migliori o di salvatori dall’esterno, e neppure con l’assai in voga sguardo fisso al passato, al «prima», individuando peccati originali nell’aver superato limiti sacri, e conferendo quindi alla stessa resilienza un significato di espiazione, di cilicio autoimposto. Forse la parola chiave di tutto è individuabile nel termine «consapevolezza» ovvero capacità di leggere e sintetizzare l’ambiente e l’interazione che è stata/potrebbe essere messa in atto con esso. Il che pone in primo piano conoscenza più che puro istinto di sopravvivenza: resilienza è sapere, non credere. Capire che la propria cosiddetta «vulnerabilità» innanzitutto nasce su due fronti, uno interno e uno esterno, e deve parimenti svilupparsi in reazione allo stesso modo.
Centralità della componente soggettiva
Qualche esempio forse aiuta meglio a cogliere questo aspetto di correlazione abbastanza complessa. Se una costa abitata viene colpita da una inondazione, certamente da un certo punto di vista si potrebbe parlare di evento traumatico e imprevedibile (per esempio perché causato da un terremoto sottomarino). Ma proprio l’incapacità collettiva di prevedere per quanto nelle grandi linee un evento traumatico del genere, e mettere in campo possibili rimedi preventivi con forme di insediamento o organizzazione più adeguate, dovrebbe essere oggetto di riflessione e programmazione. Un altro aspetto ancora più soggettivo (forse discutibile, certo) è quello dell’interpretazione e ricostruzione della resilienza ad eventi di carattere umano come quelli di un attacco terroristico, che mettono in campo, oltre ad aspetti spaziali, militari, tecnologici, molto chiaramente anche società e cultura. Qui un approccio consapevole e propositivo non può sfuggire a quegli aspetti di «prevenzione» che includono il riflettere sui fattori che quell’attacco, perlomeno in quei modi, l’hanno determinato. E riaprire (solo per fare un esempio) la questione detta delle periferie, dell’intreccio spazio-società nelle sue varie declinazioni, e magari non ultimo l”equilibrio tra conservazione e progresso così come lo si è coltivato sino a quel momento. Sin qui gli aspetti prevalentemente metodologici, che si traducono poi abbastanza manualisticamente in una sorta di lista della lavandaia, non priva però di ricchezza e coerenza.
La resilienza spiegata al politico
Un decisore, necessariamente, dovrebbe poter contare su strumenti in grado di raccordare principi generali e azioni sul campo, verifiche e messe a punto, in un ciclo organico e continuo. Anche e soprattutto nel campo della resilienza, che esista o meno un solo organismo responsabile di questi aspetti (come qualcuno auspica), appare utile una sorta di struttura scientifico-manualistica in grado di operare quel raccordo. E farlo sistematicamente secondo diversi canali comunicanti come quelli individuati per esempio «sul territorio» dal centro ricerche dell’Urban Land Institute, di importanza assai gerarchicamente variabile e non esposti come tali, se non in sequenza organizzativa. Si tratta di «capire la vulnerabilità» secondo il principio cardine complesso riassunto; individuare le questioni sociali e del mercato del lavoro, senza dimenticare il principio di eguaglianza che pare (pur se non a tutti) indispensabile per attivare davvero tutte le forze, e quello comunitario della partecipazione e trasparenza. Più praticamente, il piano programma delle trasformazioni fisiche coerenti agli obiettivi di resilienza individuati, coordinato a quello sulla disponibilità e possibilità degli attori a investire sul breve medio e lungo periodo, in un quadro di relative garanzie e affidabilità. E buon ultimo anche se non in ordine di importanza scientifica, considerare le invarianti, naturali e non, che condizionano volenti o nolenti l’agire verso la resilienza attraverso progetti, dai fattori geografici a quelli politici, o climatici ed energetici. Basta così? Ovviamente no, ma è un buon primo passo per iniziare a ragionare, e anche agire, sempre che si voglia farlo.
Riferimenti:
Urban Land Institute, Ten Principles for Building Resilience, rapporto marzo 2018