C’è una classica frase idiomatica anglosassone che dice «see the forest for the trees», ovvero che sommersi da una valanga di particolari (gli alberi) ci si può orientare ricostruendo un quadro generale (il bosco). E che per contro esiste invece tanta gente bravissima a riconoscere alberi cespugli, bacche e rametti spezzati, ma ostinatamente incapace, o magari senza alcuna voglia, di allargare lo sguardo alla situazione che compongono, perdendosi dentro ai dettagli. Come ci raccontava già alla fine del XVIII secolo l’abate Marc-Antoine Laugier, «Il faut regarder une ville comme une forêt», col bosco e gli alberi non solo metafora del tutto e delle parti, ma anche a significare la difficile riduzione della complessità a somma di singole componenti, del resto articolate e diversissime tra loro. La foresta, infatti, come ognuno sa non è fatta solo di tanti alberi, ma anche di massi, sentieri più o meno interrotti, discese ardite e risalite, paure notturne e idilli al sole, uccellini funghi e nanetti, reali e immaginari. Per quanto riguarda la città moderna e la sua contraddittoria complessità, a quanto pare siamo ancora più o meno fermi all’intuizione degli architetti novecenteschi (la data ufficiale è 1910, Londra) secondo cui «see the forest for the trees» si traduce con una convergenza interdisciplinare ad assetto variabile.
Le capacità magnetiche della grafite
Le lacune dell’approccio, in un primo tempo piuttosto ovvie e intuitive tanto quanto le potenzialità, iniziarono ad apparire vistose nel momento in cui si capì che tutto, ma proprio tutto, doveva per forza passare al vaglio degli strumenti progettuali dell’architetto, per potersi definire propriamente «urbanistica» ed essere legittimato a «vedere il bosco». Cosa che significava una certa frustrazione per ogni altro contributo, e un incentivo a tornare orgogliosamente al proprio albero specialistico, o nanetto o muffetta sulla corteccia che dir si voglia. Mentre al contrario certe specializzazioni interne alla cultura degli architetti a loro volta rivendicavano, piuttosto incongruamente, una esagerata dignità di sintesi, come ancora oggi accade a certi cultori di calcoli di densità e indici vari, che si propongono chissà perché (pur legittimati dalla politica) come veri e propri «scienziati della città». Ma peggio ancora riescono a fare i cani sciolti che hanno preferito, vuoi al coordinamento egoista degli architetti, vuoi ad elaborare una propria analoga sintesi settoriale, quando elaborano certe teorie e logie appioppandogli l’aggettivo «urbano».
Benvenuti a Strafalcionia City
Perché non basta inforcare un camice, saper usare dati e tabelle, metterla giù dura con un linguaggio impermeabile ai catecumeni, per poi paludarsi dentro la turris eburnea della «scienza» inattaccabile. Adesso salta fuori una ricerca di laboratorio – ovviamente americana, sono loro le punte i diamante del metodo, ma non i soli – a sostenere la tesi secondo cui gli alberi in città fanno male, ed è la seconda in poche settimane che nel titolo dice la stessa cosa, salvo naturalmente poi argomentare affettando tutto a striscioline finissime. La prima diceva che gli alberi fanno male perché raccolgono l’inquinamento sulle foglie e poi lo fanno sgocciolare giù, che è come dire i tubi sono dannosi perché se sono rigati e ci fate scorrere dentro le pallottole quelle poi vanno a bersaglio. Questa seconda «scopre» che la chioma delle alberature fa ombra (ma va là?) e che questa ombra magari può ostacolare l’eventuale produttività di alcune colture di agricoltura urbana che si vorrebbero mettere là sotto, affamando poi il popolo. La questione scientifica, da laboratorio e camice, qui sarebbe: ma ci siete, o ci fate? Si attendono esperimenti di vivisezione sui soggetti per la verifica (estesi anche a chi le finanzia, quelle ricerche).
Riferimenti:
Jeffrey J Richardson, L. Monika Moskal, Urban Food Crop Production Capacity and Competition with the Urban Forest, Urban Forestry and Urban Greening, ottobre 2015 (in attesa di pubblicazione, grafica provvisoria e pessima)