La scoperta del centro commerciale caldo

Pare proprio non ci sia niente da fare: per cacciare qualcosa nella testa della gente è indispensabile far sbattere la testa contro il muro a quasi tutti. Forse l’unica speranza è che queste botte contro il muro diventino abbastanza veloci e ripetute. Come dicevano i latini, repetita iuvant. Forse.

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Foto M. B. Fashion

È ormai dagli anni ’30 del secolo scorso di gran moda, ragionare in termini di disurbanizzazione, vuoi per motivi di potere (l’ideologia antiurbana dei fascismi), vuoi per un’utopia sociale, tecnologica,di libertà individuale (da Frank Lloyd Wright agli epigoni delle utopie ottocentesche), vuoi per strategie di sviluppo e di mercato (il nascente blocco degli interessi automobilistici, petroliferi, edilizio-fondiari). Qualcuno iniziava già vagamente e istintivamente, magari osservando il degrado estetico o la scomparsa dell’agricoltura, a portare critiche a questo modello di proto-sprawl, ma la cosa passava quasi inosservata, perché in fondo i critici conservazionisti non coglievano, così come non colgono oggi, portata e qualità autentica del fenomeno. Solo nel secondo dopoguerra si raggiunge la fase matura, quando è perfezionato definitivamente il vero ombelico sociale, architettonico, economico della dispersione: il centro commerciale chiuso extraurbano a scatolone (con minime o massime varianti spaziali-funzionali), che da lì in poi si diffonderà identico in tutto il mondo, insieme naturalmente all’intero contesto, anche immaginario, che lo contiene e gli gira attorno.

Fra i primi a capire che qualcosa non va, oltre ai romanzieri, ai sociologi o ai soliti conservazionisti, c’è lo stesso Victor Gruen inventore dello scatolone, che contemporaneamente al lancio del suo leggendario prototipo del Southdale Mall, a Edina vicino a Minneapolis, scrive un lunghissimo saggio per la prestigiosa rivista economica di Harvard, sostenendo una tesi che oggi ci pare quasi banale: occorre un certo equilibrio territoriale fra centro e periferia, non ha senso svuotare come gusci marci le grandi aree metropolitane, abbandonandole a sé stesse mentre avanza la nuova frontiera del suburbio infinito fatto tutto di casette, autostrade, e shopping mall. Gli americani inizieranno via via, pur piuttosto lentamente, a imparare quanto avesse ragione Gruen, ma nel frattempo la macchina infernale del modello di sviluppo dove tutto si tiene, col mattone e il petrolio al centro, era stata esportata con successo. Ce ne vuole di tempo per valutare davvero, quanto male faccia all’ambiente, alla società, allo spreco di risorse non solo naturali, questo modello. In tanti casi siamo ancora oggi solo all’inizio, alla fase delle sensazioni e intuizioni, quando i cittadini si lamentano del prezzo della benzina ma sono obbligati a usare l’auto, o i bottegai piangono la concorrenza sleale dei grandi ipermercati che fanno il tre per due.

Buona ultima per ora, la punta di diamante nello sviluppo dei grandi (o per meglio dire giganteschi) centri commerciali è la Cina, con l’accelerata fuga dalle campagne e parallela espansione suburbana, poderoso incremento della motorizzazione privata e delle grandi arterie. Non passa giorno che questo o quel quotidiano aggiunga qualche entusiasta particolare in più sul nuovo progetto, o inaugurazione, o nota di costume sui cambiamenti sociali indotti dalle possibilità apparentemente infinite di consumo e sperimentazione. E forse per atavico automatismo, si poteva anche sospettare che lì il contesto fosse diverso, spesso si parlava di mall centrali, serviti dai mezzi pubblici: in effetti una cosa stravagante e contraddittoria, ma in un posto tanto esotico chissà. Ma poi il China Daily ha sparato il titolone: «I centri commerciali suburbani rubano affari al centro città» e viene un po’ da ridere, la cosa sembra una barzelletta tanto appare banale. Assomiglia a quelle frasi fatte, che nei telefilm comici il caratterista cinese tarocca per frasi di Confucio o di qualche altro antico saggio, mentre in realtà sono consigli da vecchie zie, del genere non ci sono più le mezze stagioni.

Altro che Confucio o vecchie zie, però! I sedicenti saggi che occupano le sedie del potere centrale e locale cinese fanno un bel saltino, sulle loro sedie, e iniziano un po’ a ripensare il modello di urbanizzazione che a quanto pare si è sdraiato sul riciclaggio di strategie novecentesche disperse, se siamo già a questo punto. Però con quel titolo del China Daily siamo ancora dalle parti dei bottegai centrali contro quelli decentrati: chissà che non esistano anche lì correnti del partito centraliste e correnti dispersiste! L’unica cosa sicura è che più o meno possiamo già prevedere le prossime mosse, semplicemente sfogliando le nostre vecchie annate di giornali. Come dicono appunto sempre quei vecchi saggi, o vecchie zie. O tempora, o mores!

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