Inutile ribadire, che quando si parla di «sicurezza» esistono parecchi approcci diversi e anche diametralmente opposti, aggregabili grosso modo in due grandi famiglie, una prima più classica e apparentemente intuitiva, una seconda magari meno immediata, ma assai più realistica. La sicurezza intuitiva è quella militaresco-armata e aggressiva, fatta di protezioni, barriere, prevenzione attraverso la separazione, e basata su una filosofia di fondo: se due universi non si incontrano, se stanno ciascuno dentro un vaso incomunicante, difficilmente potranno nuocere l’uno all’altro. E, dato che le realtà parallele esistono solo nella fantascienza per adesso, nella realtà la sicurezza militar-segregata consiste nel costruire solide barriere in grado di sbattere l’una contro l’altra senza troppi danni, danni ovviamente calcolati ciascuno sul proprio versante, di là succeda quel che deve succedere. La seconda famiglia è quella dell’integrazione, dell’accettazione implicita di un certo livello inevitabile di «danno» da incontro ravvicinato, ma che tende a ridurlo attraverso l’interazione consapevole, la conoscenza reciproca, l’adattarsi dei comportamenti al rischio, sino alla sua riduzione ai minimi termini. Inutile dire che in termini di circolazione urbana, o addirittura di coesistenza urbana, queste differenti e opposte filosofie della sicurezza si traducono in idee della città e della vita davvero opposte.
Tra la vita e la morte avrei scelto la condivisione
A quale famiglia della sicurezza appartiene la rete di circolazione urbana, o magari addirittura le singole componenti della rete? Dipende tutto dalla prospettiva politica in cui la si osserva, perché ovviamente qui non ci troviamo a ragionare e operare in una tabula rasa di categorie filosofiche gestibili a piacimento, ma dentro una incredibilmente intricata sedimentazione storica, su cui nell’arco di due o tre generazioni è calata in tutto o in parte la mannaia automobilistica, nonché quella parallela e complementare delle specializzazioni urbanistiche di zona. Ovvero, esistono di fatto, universi separati e incomunicanti, con unica possibilità di relazione quella dello scontro di gusci più o meno corazzati, ma segregazione o integrazione possono trasformarsi in obiettivi ideali, da perseguire accentuando più o meno alcuni caratteri. Di nuovo, l’obiettivo più semplicione è il separare ancora di più, tirar su solide barriere o a volte una bella «terra di nessuno» fascia smilitarizzata di interposizione: qui la zona a uffici col suo viavai e i suoi tempi morti, lì la zona dormitorio, qui il flusso rapido meccanico, lì quello pedonale o comunque lento classificato in automatico come ozioso, non produttivo. La pista classica ciclabile in sede propria, meglio ancora se con quei percorsi serpeggianti «naturalistici», accessibile solo da certe specie di microsvincoli (passato quello, non si entra né si esce più, una specie di piccolo inferno), risponde esattamente a quella logica della non comunicabilità, della simbolica aggressione. Perché non accettare che si debba convivere, in un modo o nell’altro?
Incontriamoci a metà strada
Ad ogni incidente stradale, la litania si ripete, identica a sé stessa, seguita da un rituale tanto barocco quanto surrealmente campato per aria, quanto a risultati pratici tangibili. C’è il morto o i feriti, la tragedia, le grida sulla stampa con richieste varie di repressione spietata dei colpevoli, e naturalmente le dichiarazioni delle politica: faremo giustizia ed elimineremo il rischio. Come? Ma tirando su un’altra bella barriera, che sia un semaforo più grosso di quello ignorato dal colpevole, o un invalicabile muro contro cui sbattere invece di prendersela col cofano contro il pedone o il ciclista, o qualche sovra o sottopasso, dai costi e tempi vertiginosi, e futuro probabile fonte di degrado, per i cantieri prima, per le zone d’ombra da agguato poi. Perché non imboccare la via del conflitto governato, dell’approccio graduale a un incontro meno sanguinoso, della trasformazione tesa a integrarsi in sicurezza anziché segregarsi? Forse perché in quel caso ci sarebbe bisogno di pensare, di parlare un po’ di meno del solito «senso civico»,e un po’ di più di psicologia seria, quella che studiano gli psicologi e non si improvvisa in tinello al terzo bicchiere. Gli specialisti vanno benissimo per fare, ma possono essere tremendi per pensare, non escono (anzi: non devono uscire) dalla propria prospettiva col paraocchi innestato, vedono solo un obiettivo, ed è di dispiegare i loro strumenti. Un muratore tira su muri, non concepisce l’abitabilità che quei muri possono consentire oppure no, non pensa alla privacy che potranno garantire e neppure all’isolamento che potranno indurre. Un traumatologo vede solo traumi, e interrogato sui massimi sistemi vi potrà rispondere solo moltiplicando all’infinito le cose che quei traumi le evitano o le curano, nient’altro, difficilmente arriverà a pensare che si può intervenire sull’ambiente che li induce. Ultima frontiera della sicurezza militare in bicicletta, per esempio, pare essere l’uso del casco: barriera fisica contro le botte che sfondano e incrinano, certo, ma anche ennesimo trabiccolo segregante, che isola, che separa, e che viene in genere rifiutato proprio per questo, e per altri svariati ottimi motivi. Ma si insiste: deve essere reso obbligatorio, per tutti, sempre, ovunque? Ha senso? Pochissimo, se osserviamo l’evoluzione storica di tutti questi approcci meccanici avulsi dal contesto e dai veri obiettivi che dovrebbero perseguire. Non a caso le opinioni, anche tra «esperti», sono diametralmente opposte, leggere questo capitolo di libro con numerosissimi riferimenti, per confermarlo.
Riferimenti:
Peter Walker, The big bike helmet debate: ‘You don’t make it safe by forcing cyclists to dress for urban warfare’, The Guardian, 21 marzo 2017 (è un estratto anticipazione da un libro in uscita, trovate il link in calce)