La smart city cerca nuova egemonia invece degli architetti-urbanisti?

Foto E. B. Fisher

A volte quando si parla di crisi delle forme di rappresentanza, o magari più specificamente dei partiti, dei sindacati, e di tante modalità diverse in cui si esprime la democrazia elettiva e della delega, ci si consola riscoprendo l’associazionismo spontaneo più o meno assembleare, e rivalutandone il ruolo di vera e propria alternativa di espressione della società. Comitati tematici, raggruppamenti di scopo, forme più stabili e organizzate di interessi, ce ne sono moltissime di queste entità «succedanee», e che per giunta a differenza di quelle entrate in crisi non si contrappongono l’una all’altra, ma una con l’altra si completano, così che la stessa persona può dividere il proprio impegno tra la tutela dell’ambiente, la difesa di alcuni diritti, la promozione di un determinato sapere o cultura. Dovrebbe però apparire abbastanza evidente come, in assenza di qualche riferimento forte unificante, comprensivo, diciamo così «conflittualmente induttivo», come è o dovrebbe essere la forma di rappresentanza classica, partitica e/o istituzionale, spuntano immediatamente i particolarismi della lobby. Ne è un esempio abbastanza classico e noto l’estrema difficoltà, se non strutturale impossibilità, di qualunque organismo sociale nato da una spinta di tipo nimby (per quanto motivata, soggettivamente non egoista, e con orientamenti pseudo-politici) di evolvere un punto di vista non negativo e introverso.

La parabola degli architetti

Un esempio macroscopico e per nulla recente, di questo rischio di sostanziale lobbismo travestito da idea di società e/o di città, è la parabola irregolare seguita dalla professione di architetto, a partire da quando se ne definisce inequivocabilmente il campo verso la fine del XIX secolo. Molto velocemente, nella fase matura della prima rivoluzione industriale e urbana, si assiste a un vero cambio di testimone, ruolo e «filosofia» di produzione della città, con la staffetta tra ingegneria e architettura a occupare il centro. Fondamentale il cambio filosofico, per così dire, perché se prima la logica industriale di una sorta di universo meccanico per quanto umanista e umanizzato, si sviluppava sostanzialmente per parti, per ingranaggi di un unico meccanismo, ciascuno però dotato di una propria rigida autonomia, con gli architetti si arretra/avanza in un criterio più organico e in parte intuitivo. Un criterio che per inciso sembra accogliere meglio anche contributi «minori» collaterali, dalle discipline scientifiche hard, medicina inclusa, alle scienze sociali, economia inclusa. Con gli architetti nasce anche l’urbanistica moderna propriamente detta, quella che a partire dallo specifico architettonico della progettazione di spazio costruito detta regole a tutto il resto. Ma come si dice tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, ovvero tutto ciò che nell’idea pur assai allargata di spazio e società che riescono ad esprimere con le migliori intenzioni gli architetti, non ci sta.

Convergenze molto parallele

Il primissimo esempio di ciò che proprio «non ci sta» nell’idea comprensiva della città degli architetti, sono trasporti e mobilità, anzi quelli di fatto non ci sono mai davvero entrati: avevano una propri autonomia prima e hanno continuato a mantenerla poi. Solo man mano pur faticosamente l’urbanistica tentava di evolversi e sganciarsi da quel concetto di edilizia allargata da cui originava, si è cominciato a riflettere sul serio sul quel versante, ad esempio introducendo un’idea di Piano Generale dove spazio e flussi interagiscono su un piano paritario sin dall’inizio, invece di provare a incrociarsi quando i progetti di massima si sono già definiti. Ma quel che è accaduto così chiaramente coi trasporti è solo l’esempio più macroscopico, si potrebbero citare anche tanti altri grandi ambiti che, del tutto assenti all’inizio, poi hanno faticato non poco per ottenere un semplice riconoscimento, ma tutt’ora costituiscono percorsi paralleli poco o talvolta pochissimo integrati: basta pensare ai meccanismi decisionali detti «partecipazione», o alle infinite sfumature della questione ambientale e sanitaria. Infine (e curiosamente si tratta ancora di flussi, nonostante la smaterializzazione elettronica) negli ultimi tempi è spuntata a sorpresa la cosiddetta smart city, anche lei molto oscillante tra una propria autonomia e autoreferenzialità parallela, e il desiderio/esigenza di maggiore organicità ai processi dell’urbanistica, della mobilità fisica, della gestione ambientale, della partecipazione democratica. E la domanda da porsi suona: anche gli specialismi del trattamento di grandi quantità di dati e informazioni, del coordinamento di alcune reti e nodi, della divulgazione e raccolta flussi, insomma ciò che via via si chiama smart city, si sta configurando come nuovo gruppo di pressione professional-sociale, magari con pretese egemoniche, oppure rientrerà come gli altri nel divenire dell’idea di città? Non pare una questione minimale.

Riferimenti:
Laurence Kemball-Cook, Smart cities will make urban living greener and healthier, Wired, 23 gennaio 2018

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