La discrezionalità della decisione politica, al netto del suo uso come pura pratica di potere o peggio di ricatto, nel campo delle questioni urbane ha il ruolo vitale di adattare volta per volta gli strumenti attuativi di principi generali alle contingenze economiche, alle evoluzioni sociali, a contestualità più ampie di quelle urbane. Ne è prova evidente quel relativo «primato ambientale» di alcuni nuclei metropolitani rispetto alla propria regione di riferimento, quando l’applicazione locale di determinate politiche da un lato migliora la qualità della vita di nuclei familiari e attività economiche, ma dall’altro penalizza sia alcuni interessi, sia alcuni territori. Classico il caso di pedonalizzazioni di ampia portata, o congestion charge, o servizi sociali estesi che attirano dall’esterno del bacino, o più recentemente quegli inediti aspetti di «santuario dell’innovazione» addirittura contro gli orientamenti degli stati nazionali, vuoi nel campo delle migrazioni, vuoi in quello energetico, sanitario, dei diritti. Dato che però la discrezionalità delle scelte, oltre che al rischio citato del potere e dei ricatti, è anche esposta all’inefficacia o episodicità derivante dai diritti di ricorso o contestazione di interessi particolari (di tipo nimby più o meno reazionario o organizzato), pare sempre più essenziale che a sostegno delle scelte generali e particolari venga in soccorso una dettagliata base scientifica e metodologica.
Uno standard non standardizzato
Per tutto l’arco di prima evoluzione della città industriale si sono inseguiti i criteri che dovevano fissare limiti regole e modi di convivenza della società con la macchina che ne alimentava la crescita quantitativa e qualitativa (quei due aggettivi sottintendono: non stiamo qui a questionare filosoficamente sul concetto, please, si parla d’altro). I tempi del lavoro del riposo e dello svago, gli spazi dell’alloggio decoroso per l’individuo e il nucleo familiare, i criteri socio-sanitari dell’organizzazione di pieni e vuoti urbani, nelle tre dimensioni, i modi dei flussi di mobilità, più o meno tutto questo è stato sottoposto a standard, fissati in leggi e norme, sino alle famose tavole sinottiche in cui la nascente urbanistica modernista fissava alle varie scale il quadro ideale della metropoli futura. C’era però, pur in questo inconfutabile avanzamento scientifico e sociale, qualcosa di lacunoso, vuoi nel merito vuoi nel metodo: era troppo esposto alla discrezionalità delle medesime leggi istitutive e delle norme attuative, e si basava su conoscenze scientifiche per loro natura limitate e soggette a continue evoluzioni o addirittura ribaltamenti. Molto significativo, anche perché quasi auto-evidente, il caso della «componente viva» degli standard urbanistici rappresentata dal verde pubblico, il cui ruolo multiplo e tutto da scoprire appariva già chiarissimo (pur intuitivamente) ai primissimi pianificatori di epoca industriale.
Modellistica urbana smart
Non c’era nulla da inventare ovviamente, nell’intuizione secondo cui non era certo possibile stipare all’infinito la gente dentro scatole di cemento e vie lastricate, allontanandoli altrettanto all’infinito dallo spazio naturale in cui avevano abitato sino a quel momento: bastavano le esperienze pregresse della città tradizionale a dettare quella modellistica di massima delle fasce agricole di contenimento poi dette greenbelt (di origine prescrittiva addirittura biblica), dei parchi urbani per la sosta e rinfrescarsi gli occhi, e giù giù di qualche orticello o giardinetto privato o terrazzo o rilevati ferroviari interstiziali. Ma c’era dall’altra parte il trionfo della tecno-economia a sostenere, addirittura «dati scientifici» alla mano, che pur sempre si trattava di concetti relativi, da adeguare via via alle possibilità della medicina, delle tecnologie edilizie, e comunque dello sviluppo economico che tutto avrebbe risolto con la sua Mano Invisibile o Divina Provvidenza per chi ci crede. E poi c’erano (e ancora ci sono) le ideologie antiurbane, in agguato, quelle per cui comunque la città è invivibile per definizione, e un vero standard di vita accettabile tocca ritagliarselo nella nuova frontiera del «ritorno alla natura»: arma a triplo taglio, che da un lato toglie tensione alle riforme della città peggiorandone l’ambiente, dall’altro affonda la campagna nell’urbanizzazione dispersa inconsapevolmente perseguita da tutti questi cittadini in fuga di massa.
Ma come fare per provare a superare questa dicotomia, tra l’esigenza di qualche standard accettabile, e quella che poi non soccomba alla discrezionalità della decisione politico-tecnico-normativa? Oggi sembra che la risposta possa stare nel concetto di smart city, ovvero di collegamento organico tra il verde inteso come sistema ambientale (le Infrastrutture verdi) socio-sanitario, inserito nel sistema efficiente ed economico della città, ma integrale alla natura-naturale esterna, e dati rilevati in continua evoluzione. Come ci spiega lo studio allegato, che prende come caso una città di un «paese in via di sviluppo» sub-standard per ovvi intuibili motivi, legare in modo organico la prestazionalità complessiva dell’intero sistema ad una rete di rilevatori, elaboratori, programmatori oggettivi, che possono anche giovarsi in tempo reale di tutti gli avanzamenti conoscitivi condivisi nel campo della salute e delle relative politiche urbane, può spostare sensibilmente il campo della decisione politica fuori da una discrezionalità troppo intuitiva, o peggio inquinata da eccessi autoritari, nell’uno o nell’altro senso in fondo non importa. Un altro modo per capire quanto l’innovazione tecnologica possa essere uno straordinario strumento di progresso, invece che un feticcio per appassionati un po’ tonti, o uno spauracchio per chi si sente escluso dai dettagli operativi di settore per specialisti.
Riferimenti:
Ramesh Anguluri, Priya Narayanan, Role of green space in urban planning: Outlook towards smart cities, Urban Forestry & Urban Greening, n. 25, 2017 (scarica pdf direttamente da Drive-Città Conquistatrice)