Le cronache dai teatri di guerra degli ultimi anni sembrerebbero suggerire un brusco ritorno al passato, addirittura ad un passato remoto come quello suggerito dai combattenti dello Stato Islamico lasciati uscire da una loro città caposaldo appena riconquistata dallo schieramento opposto, nel quadro di un accordo tra parti. Il passato che prepotente ritornava, appariva evidente nell’immagine stessa delle famiglie patriarcali e masserizie caricate su un grosso moderno autobus, più o meno nella stessa organizzazione e gerarchia tribale dei barbari che convergevano tanti secoli fa su Roma, uomini donne bambini animali, senza particolare distinzione salvo quella tecnicamente funzionale. L’immagine si fa ancora più cupa se, ai deportati combattenti tribali sull’autobus, aggiungiamo oltre all’autobus stesso anche tutti gli altri fattori moderni e postmoderni assai vistosi, dalle armi usate nel conflitto, agli smartphone presumibilmente usati a man bassa sia a scopi di attacco e difesa, sia per trattare quella resa tattica e uscita in sicurezza dalle mura della città perduta. Un cocktail di tutto il peggio dell’antico con tutto il peggio del moderno, che non può non inquietarci, e che ad esempio si replica nelle forme analogamente miste assunte dalla guerriglia urbana di stampo terroristico in cui i medesimi conflitti si prolungano ad altre città del «campo nemico», mescolando armi di offesa, teatri di battaglia, ruoli sociali militari e non. E mettendo in risalto uno dei risultati di questa specie di conflitto permanente: la crescita esponenziale delle vittime civili e collaterali, rispetto a quelle della guerra tradizionale tra eserciti regolari.
Il campo di battaglia virtuale
Chi da sempre si oppone alla presenza attiva dei militari nelle città, lo fa certamente mosso da intenzioni di carattere politico generale di tipo pacifista, ma se allarghiamo solo leggermente il campo scopriamo in quella opposizione qualcosa di più sottile. Il pacifismo in realtà si esprime, superficialmente o meno, con il rifiuto di qualcosa di molto particolare e circoscrivibile, e non a caso specificamente urbano, ed è il manifestarsi intra moenia di una serie di cose che sono sempre o quasi accadute fuori, dal muoversi organizzato delle truppe, alle colonne di veicoli, e figuriamoci ala strategia di battaglia vera e propria con schieramenti, avanzamenti, ritirate eccetera. Non lo si legga come un accostamento impietoso, ma il rifiuto dei militari dentro le città ha molto più a che vedere con un certo modus operandi che con l’antimilitarismo in sé, ed è in fondo analogo ad altri disagi abbastanza contemporanei, come l’insediarsi improvviso di grandi funzioni e forme cresciute e definite altrove, dal quartiere fortificato e recintato in stile suburbano, detto gated community, ai contenitori introversi della grande distribuzione commerciale, e più in generale ai processi di gentrification socialmente omologante ed esclusiva. Cosa che non è affatto sfuggita agli esperti di cose militari, che ci vedono esattamente lo stesso problema degli operatori economici delle altre improprie migrazioni: un attrito da lisciare in qualche modo. E nel caso dei militari da risolvere molto urgentemente, dato che quel disagio è solo il sintomo di problemi assai più gravi, come le citate vittime civili in crescita esponenziale. Possibile?
«À la guerre comme à la guerre»
Possibilissimo, come si rileva da tantissime parti nel dibattito interno (così diverso da quello politico e mediatico corrente) al settore, ben consapevole degli scenari attuali e di quelli futuri legati al processo inevitabile di urbanizzazione planetaria, chiarissimo a chiunque si prenda la briga di non negare l’evidenza. Spiegano gli esperti che «in futuro le guerre non consisteranno certo in scontri per conquistare le città da fuori, ma in scontri all’interno di esse. Le operazioni militari avverranno ad esempio nello slum, nel dedalo delle viuzze, e soprattutto dentro la complessità urbana e coi normali cittadini che vanno e vengono per le proprie faccende in quel campo di battaglia. Impossibile in generale operare come se si fosse in campo aperto, da ogni punto di vista, dato che appare impensabile «trattare un quartiere della città come se fosse un luogo da porre sotto assedio per snidare il nemico non è una opzione strategica, e solo pensare di evacuare moltissime migliaia di civili innocenti prima di iniziare le operazioni propriamente militari, appare un vero incubo logistico». Da qui la necessità di ricomporre sia l’idea di organizzazione militare, sia quella di campo di battaglia attraverso una radicale rivoluzione di tipo prima di tutto tecnologico, che però ovviamente da quello urbano e sociale (il rapporto con gli spazi, con le popolazioni, l’organizzazione interna e le stesse gerarchie) dipende totalmente dalla politica e da come seguirà con attenzione l’evolversi delle cose. A garantire ad esempio che si tratti di una evoluzione in senso democratico, senza il formarsi di autorità parallele incontrollabili grazie alle conoscenze tecnico scientifiche esclusive, una autorità segreta anti-civica annidata nel cuore stesso della comunità. Ovvero che si riproduca quella schizofrenia di cui si parlava all’inizio con la tribù belligerante armata di mitragliatori e smartphones, ma socialmente e culturalmente arretrata di secoli.
Riferimenti:
Levi Maxey, Street Sense: The Urban Battlefields of the Future, The Cipher Brief, 22 ottobre 2017