All’inizio di tutto c’è un’immagine idilliaca e affascinante: un palazzo di cristallo al centro di un parco, dove le persone entrano ed escono a seconda del tempo atmosferico (siamo nella cronicamente piovosa campagna inglese) e dei gusti personali. Tra quelle navate laiche e luminose, da cui si continua a vedere il parco, si conversa, ci si incontra, e si possono anche comperare manufactured goods, probabilmente cose come pezze di stoffa, merceria, qualche padella[1]. L’ipotetica scenetta si svolge alla fine del XIX secolo, e a ben vedere il famoso autore non si sta inventando niente di nuovo: in fondo anche la Galleria di Milano del Mengoni, o quella di Napoli, o i vari mercati coperti o passages come quello in cui Emile Zola ambienta Therese Raquin, assomigliano molto da vicino al modello. Ma c’è una variabile fondamentale, che si riassume bene nella biografia dell’autore, Ebenezer Howard, e in quella della sua “creatura”, la Città Giardino: il palazzo di cristallo non sta al centro di una grande città, ma in mezzo alla campagna, e come la storia si preoccuperà immediatamente di dimostrare il successo dei due modelli coincide esattamente con il loro stravolgimento. La città-giardino per mano del suo più importante co-autore, Raymond Unwin, diventerà di fatto sobborgo-giardino, perdendo gran parte della carica di innovazione sociale (e di potenziale politico) alla base dell’idea. Il palazzo di cristallo, decontestualizzato e privatizzato, sicuramente suona al lettore contemporaneo come l’antenato del mercantile shopping mall regionale, anziché l’erede nobile della basilica romana ,o la versione coperta di una piazza o grande corte pubblica italiana. Ma restando all’oggi, c’è anche chi si chiede se non sia possibile in qualche modo recuperare in positivo la carica di innovazione l’idea di democrazia e decentramento alla base della Città Giardino[2], e io ci aggiungerei, anche a partire da un ragionamento sui suoi figli degeneri, che nel caso specifico si possono rozzamente ricondurre al sobborgo e al decentramento produttivo e direzional-commerciale.
Fatte queste debite e “alte” premesse, è forse il caso di precisare come le note che seguono non possano né vogliano neppure sfiorare la questione generale, ma semplicemente e leggermente soffermarsi su un nostrano aspetto della “degenerazione” ripresa dal titolo. Un aspetto apparentemente marginale e legato ad una moda passeggera, ma che a parere di chi scrive possa riassumere in positivo e in negativo molte delle questioni che animano da lustri il dibattito sulla città diffusa, o dispersa che dir si voglia[3]: la crescita miracolosa dei parchi commerciali conosciuti genericamente come Factory Outlet (con qualche variante superficiale o locale), che nel giro di poco tempo ha iniziato a cambiare sia l’organizzazione concreta del territorio nella città diffusa, sia la sua percezione e l’uso da parte degli abitanti. Credo si tratti di una evoluzione, per l’Italia, simbolicamente diversa da quella dei grandi centri commerciali territoriali, anche se il modello per molti versi ricade in questa “grande famiglia”. Credo anche che la stessa velocità con cui i capitali internazionali si sono attivati in questo senso, sia da sola motivo di attenzione, del resto ben dimostrata anche dalla quantità di studi disponibili online, sia di operatori che di fonti più scientifiche e disinteressate. Quello che segue vuole quindi essere un contributo fra i molti, ed è stato costruito empiricamente, assumendo il punto di vista di un consumatore padano, in viaggio nei pomeriggi del fine settimana tra i vari “villaggi” sparsi tra le Alpi e il Po, e che con fitta cadenza accendevano le proprie luci nella campagna, di fianco a ex cascine e svincoli autostradali.
Di cosa stiamo parlando
Da qualche anno, prima sindaci tecnici e amministratori, poi cittadini automobilisti e consumatori, vedono il nuovo oggetto dell’outlet village spuntare sull’orizzonte locale. Sottolineo l’aggettivo “locale” perché così troppo spesso è stato considerato, e presentato da interessati promotori, quello che nei fatti è l’ennesima sfaccettatura del modello standardizzato, globalizzato, solo con un pochino di pietosa vernice, in parte messa lì a uso di gonzi e nostalgici, ma che si può anche usare in positivo, da un certo punto di vista. Ma andiamo per gradi.
Il Factory Outlet Village (o uno degli altri nomi di cui si fregia questa tipologia commerciale) è innanzitutto una cosa importata dagli Stati Uniti, e come quasi tutte le altre cose importate dagli Stati Uniti si tratta di un cocktail piuttosto complesso, che unisce elementi storico-culturali di matrice europea, in cui ci riconosciamo benissimo, ad approcci organizzativi ed effetti sociali del tutto inediti, che producono e produrranno trasformazioni impensabili, e verso i quali è sempre utile non avere atteggiamenti né di chiusura preventiva (perché sono estremamente pervasivi), né di ottimistico entusiasmo (perché, per usare un anglicismo, there’s more than meets the eye!). La storia del villaggio, prendendola di peso da fonti americane[4], è quella dello spaccio aziendale ottocentesco, che vende direttamente scarpe o vestiti ai dipendenti, e più tardi apre anche agli altri consumatori l’accesso diretto, senza intermediari, ai propri prodotti. Questo modello ci è ben conosciuto anche da prima dell’ultima guerra, ma ad esso nell’evoluzione americana si mischia quasi da subito (con esplosione negli anni Trenta) l’automobilismo di massa, con una prima ridislocazione e concentrazione delle sedi, che a partire dal pioniere Anderson-Little, che offre vestiti maschili dal produttore al consumatore in grandi “outlets” sparsi nella campagna, si sviluppa per decenni ingrandendo le sedi, aumentando la varietà di merci offerte, vedendo crescere esponenzialmente gli investimenti e le aspettative degli operatori. Si arriva così ad uno sviluppo parallelo e convergente con quello dei meglio conosciuti shopping malls regionali, di cui il factory outlet è pur sempre un parente prossimo[5], anche se acquisito. Negli anni Settanta, la grande trasformazione, innescata in parte dagli stessi motivi sociali che in Italia favoriscono la crisi del modello di sviluppo e insediamento consolidato: caduta di crescita del potere d’acquisto dei consumatori; crisi energetica; ricerca di una diversa “qualità” di consumo, anziché della semplice “quantità”; conseguente attenzione ai marchi, all’immagine, all’idea di “stile di vita” che un consumo complesso implica. Questo almeno a parere degli operatori. Fa venire qualche brivido, vedere la nostra quotidianità ridotta a un’eterna willingness to pay, ma senza dubbio è un’immagine realistica, e del resto verificabile.
Dunque nei Settanta, e precisamente nel 1974, Vanity Fair apre il primo outlet moderno a Reading, in Pennsylvania: moderno soprattutto perché non esiste più solo una, ma più fabbriche e marchi, a riempire le vetrine. Il modello, anche insediativo, si fa più complesso e sofisticato, scostandosi da quello del “negozio”, per quanto vasto, e avvicinandosi all’idea di “città” commerciale. Il passo successivo, possiamo chiamarlo “dalla città al territorio”, non nel senso urbanistico stretto (visto che il salto alla dimensione regionale questi villaggi l’avevano già fatto dalla nascita), ma in quello dell’uso e della percezione sociale. Il territorio qui è l’opportunità di interagire con altre potenzialità di sviluppo economico alle varie scale, esattamente nella logica dello “stile di vita” che anche il singolo capo d’abbigliamento di marca da sempre si porta appresso: paesaggio inteso come sfondo ad economie turistiche; tradizione come moltiplicatore dei valori di cucina, consumo culturale; società come tessuto di produzione e consumo, sia locale che rivolto all’esterno. Tutto questo, entra nella “filosofia” dell’outlet center contemporaneo, direttamente dall’America degli anni Settanta, e si articola e cresce nei due ultimi decenni del secolo fino a diventare il settore commerciale con la massima crescita: al 2001, 260 centri negli USA e 14 miliardi di dollari di vendite. E in questi villaggi sparsi fra campagne, coste, valli, spesso in vicinanza di luoghi turistici, il cliente americano medio ci va e ci torna più volte volentieri (il 70%), si sposta abbastanza con la sua automobile (un’ora di viaggio in media), e ci gira dentro per parecchio tempo (due ore), sicuramente molto più di quanto non faccia nella media dei centri commerciali. E mentre passeggia fra le vetrine dei marchi griffati, che gli ricordano il suo vero o presunto “stile di vita” il cliente medio americano mangia e beve (il 41%), e spende più di quanto non abbia fatto al centro commerciale (79%), pianificando di tornare ancora qui (93%), magari da turista o comunque venendo da altri Stati (24%)[6].
In Europa, nonostante come già ricordato il modello factory outlet abbia la stessa origine e data di quello americano, lo sviluppo del clone moderno avviene per importazione, a partire dagli anni Novanta, e quindi su un tessuto socioeconomico-territoriale stabilizzato secondo criteri che prescindono da esso (anche se hanno in parte metabolizzato il cugino shopping mall regionale, pur spesso in versione ridotta). Nonostante la testa di ponte spazio-temporale di questo sbarco sia collocabile nella Gran Bretagna dei tardi anni Settanta, su iniziativa di operatori locali come Clark’s[7], è solo vent’anni dopo che inizia l’assalto al continente, prima in Francia e Svizzera, poi in Spagna, Svezia, Germania, e buona ultima Italia. Nel 2000 si contavano 57 centri in attività, con una superficie di vendita complessiva di 746.409 metri quadrati. Nel 2003 i villaggi sono cresciuti a 80 unità, e la superficie dei pavimenti a 1.138.164. Ce n’è parecchio, di spazio, per camminare tra vetrine e veri o presunti stili di vita, ma a quanto pare non basta, se il rapporto che fornisce questi dati “vende” online quelli non pubblici a chi volesse scoprire le nuove, annunciatamente immense, opportunità di mercato[8].
L’Italia, dove come già detto questo mercato si affaccia da pochissimo, vede la crescita più recente e veloce, aiutata anche dal fatto che molti dei marchi connessi al settore dell’abbigliamento sono proprio a base italiana. La scommessa nel caso italiano sembra essere quella di usare tutte le potenzialità (che sono molte, sottili, articolate) di intervento del modello factory outlet territoriale, per una modernizzazione forzata del settore distributivo, che si considera troppo rigidamente legato alle modalità che ben conosciamo, e che consideriamo normali e insostituibili: il negozio a gestione familiare, o comunque la piccola unità locale, inserita nel tessuto urbano del centro storico, con tutto quello che ne segue in termini di abitudine all’acquisto, e magari politiche pubbliche di intervento, fiscale, urbanistico ecc.[9] L’evoluzione è rapidissima: nel 2000 si inaugura il primo villaggio, promosso dalla multinazionale McArthur Glen a Serravalle Scrivia, e velocemente, a ritmi serratissimi, altri operatori a varia partecipazione finanziaria prendono l’iniziativa per “città ideali del commercio” (l’espressione è mia) sparse prima soprattutto nella regione padana, ma che da subito si articolano in progetti anche per la zona di Roma e il resto del Centro-Sud. I testi che seguono sono il resoconto di alcune visite da turista, effettuate nell’arco di qualche mese, fra la primavera e l’autunno 2003.
Il fortino delle griffe[10]
I “localisti”, come Luciano Bianciardi chiamava i crociati un po’ miopi del decoro urbano, saranno sicuramente entusiasti. Non manca proprio niente: luce, grandi spazi, colori pastello, la tradizione che ti casca addosso da tutte le parti, comodità e comfort. In più, il che non guasta, si è parcheggiato senza problemi nell’enorme (quello, sì, sembra un po’ fuori scala) spianata d’asfalto chiusa tra i primi contrafforti delle colline e un lungo skyline fatto di torri, abbaini, tetti spioventi. Siamo ai piedi dell’Appennino ligure, in un posto dove la Storia con la S maiuscola è di casa, sin da quando gli antichi romani fecero passare da qui la strada Postumia, lungo “corridoio” (per usare un termine di oggi) che collegava Genova, zigzagando attraverso la valle del Po, fino all’alto Adriatico. Ora il corridoio si chiama tecnicamente Voltri-Sempione, ma il ruolo di nodo strategico dei grandi flussi interregionali, qui fra Serravalle e Novi Ligure, è rimasto identico, come hanno ben capito gli ideatori dello skyline di torri, abbaini eccetera, che si profila all’orizzonte del parcheggio: il Serravalle Outlet Center. Perché non di centro o borgo storico si tratta, ma di una incredibile ricostruzione assai verosimile di tutti (e più di tutti), gli elementi visivi che “fanno” centro storico. E dentro, fra porticati e loggette rigorosamente ed elegantemente finti (meglio di quelli veri per chi non va troppo per il sottile), non abita nessuno, ma si allineano senza soluzione di continuità le vetrine di Bulgari, Prada, Dolce & Gabbana, e via via cento altri marchi più o meno noti. Aperto nell’autunno del 2000, primo in Italia di una nuova generazione di “parchi commerciali” a vasto bacino di riferimento, l’Outlet si autodescrive così nel pieghevole pubblicitario: “Oltre 130 negozi delle firme più prestigiose di abbigliamento uomo-donna, sport, casa, accessori e giocattoli, si sviluppano lungo le piazze e le vie di una città davvero unica”. Un pur abbondantemente ironico articolo pubblicato poco dopo l’inaugurazione[11] non poteva fare a meno di apprezzare la cura con cui si mescolavano materiali, viste, comfort, per un ambiente che all’occhio poco allenato di un turista internazionale faceva molto Old Italy. Ma, ironie da critico a parte, qui non si tratta solo di un problema di gusto, né di cosa da polemiche per addetti ai lavori, ed è forse meglio a questo punto fare un passo indietro.
La globalizzazione colpisce ancora
Il Factory Outlet, di cui l’esempio di Serravalle rappresenta per l’Italia solo un avamposto, è l’ennesima idea che re-importiamo (dopo i jeans e la pizza) dagli USA, completamente trasformata. Il concetto base è quello dello spaccio aziendale, ovvero vendita diretta al pubblico da parte del produttore, senza passaggi intermedi, a cui si mescolano vari altri elementi, primo fra tutti lo schema ormai consolidato del centro commerciale territoriale di grandi dimensioni, pensato per un vasto bacino di riferimento, e che come i suoi “cugini poveri” che già ben conosciamo rompe gli equilibri fra centro e periferia, fra valori immobiliari, fra le gerarchie dei sistemi infrastrutturali. Del grande centro commerciale, il Factory Outlet eredita anche alcune brutte abitudini, che certo non bastano a cancellare l’intonaco pastello delle finte facciate settecentesche, o le merlature sognanti delle torri di guardia griffate di Serravalle. Queste brutte abitudini sono piuttosto note a chiunque, residenti, amministratori locali o comitati, abbia avuto a che fare con l’atterraggio sul territorio di queste astronavi della grande distribuzione. Nel caso specifico, è piuttosto illuminante una intervista che il promotore dell’iniziativa di Serravalle rilascia un paio d’anni fa[12], inquadrata in uno scenario europeo di crescita del settore, il cui luminoso futuro incontra gli ostacoli, ahimè, della pianificazione territoriale e della decisione amministrativa (the mantra is “zoning-zoning”, or “politics-politics”). Ostacoli comunque superabili, come appunto ci racconta il promotore. La zona, just south of Milan, appare sottosviluppata, sottoccupata, depressa, ma ci vuole del bello e del buono per convincere gli indigeni sulla bontà dell’iniziativa. Del resto, si tratta di “un gruppo di vecchi italiani che non parlavano inglese e non uscivano molto spesso dai confini della regione”, e la cosa richiede “molti, molti incontri”. Forse non è un caso se, in altra parte dell’articolo, si accenna a una comparazione fra gli ostacoli allo sviluppo di questa nuova attività, e quelli che nel XIX secolo avevano accompagnato in tutta Europa il sorgere delle prime ciminiere fra i campi di patate e granturco. Probabilmente, da punto di vista degli operatori, la situazione è proprio questa: la società locale non capisce il proprio vantaggio, e diffida delle novità in quanto tali, rischiando di perdere il treno dello sviluppo, del rilancio economico nel segno del commercio, del turismo, financo del recupero ambientale e dei centri storici, scaricati dal surplus di aspettative economiche che, invece, potrebbero riversarsi nei nuovi spazi, al tempo stesso funzionalmente moderni e tradizionali nell’aspetto. E se avessero ragione loro?
Le critiche formalistiche al villaggio ne mettevano in ridicolo soprattutto gli aspetti di finzione del “borgo settecentesco”, ma certo si coglieva come attorno a quel giocattolino si iniziassero ad aggrappare, lungo l’asta della Statale 35bis che corre dal nodo di Serravalle fino a Spinetta Marengo, alle porte di Alessandria, tutte le paccottiglie transterziario-commerciali del caso: dai soliti scatoloni tristi delle esposizioni, alle discoteche, ad altre cose più o meno definibili o improvvisate, fino ai chioschi semipermanenti su slarghi ghiaiosi, fra rotonde, svincoli, e accessi poderali segnati da un pioppo sopravvissuto. Se visivamente la cosa non va oltre quelle che siamo più o meno abituati ad accettare come “contraddizioni dello sviluppo”, destinate prima o poi a riassorbirsi o almeno a renderci un pochino blasé, basta dare un’altra occhiata ai pieghevoli pubblicitari, o a qualcuna delle mappe che spiegano il senso commerciale del Factory Outlet, per capire che il “punto di vista dell’impresa”, quello che gli old italian men who didn’t speak English hanno fatto tanta fatica a condividere, si applica a dimensioni che con la pianificazione territoriale e la decisione amministrativa, almeno come è possibile pensarle qui ed ora, hanno (ancora?) poco a che spartire.
Isocrone
La prima informazione che in qualche modo mi ha colpito, su uno dei pieghevoli pubblicitari disponibili all’interno dell’Outlet, è una pubblicità dell’Acquario di Genova, che rivolta ai bambini recita Disegna gli amici di Splaffy (la mascotte dell’Acquario): un concorso in collaborazione Outlet/Acquario. Sulla pagina interna, tra foto di delfini e moduli di partecipazione da imbucare, una sorta di mappa/ideogramma racconta in rapidissimo flash l’idea territoriale di questo rapporto. Un pallino immerso nell’azzurro del Tirreno è l’Acquario; dal pallino nasce uno stelo verde che si chiama A7, e che sale dritto, via Outlet-Serravalle, fino a Milano; all’altezza di Tortona lo stelo si apre in un fiore di due petali denominati A21, che con curva regolare zampillano fino a Piacenza sulla destra, e Torino sulla sinistra. È uno scarabocchio di dieci centimetri quadri, ma la dice lunga sul bacino di riferimento di quel finto borgo antico, e trova conferma in un’altra mappa poco più ricca, che si articola su tre fasce di distanza: l’isocrona dell’ora, delle due e delle tre. La più interna, con un raggio indicativo di una cinquantina di chilometri (siamo già ben oltre qualunque idea di centro commerciale), tocca appunto Genova e territori liguri limitrofi, e sul versante padano l’alessandrino e altre parti del Piemonte. La fascia intermedia, delle due ore di percorrenza, include Milano, e in un colpo solo ingloba (esagerando, ma non troppo), anche la catchment area dell’aeroporto intercontinentale di Malpensa, i cui rapporti attuali e potenziali con la zona di Serravalle sono già ben saldi sul versante della logistica e dell’intermodalità nel trasporto merci. Ma c’è un’altra fascia, più esterna e pur realistica, che dopo aver sfiorato anche la Riviera francese tocca da un lato Torino, sul limite nord il confine svizzero, e a est il veronese e la gardesana (con il suo bacino di turismo europeo)[13].
Non si fa particolare fatica a pensare, che so, a un turista tedesco con base a Gardone, che dopo aver passato un pomeriggio al Vittoriale fra cimeli dannunziani, decide di fare una puntata a Serravalle per fare scorta di capi firmati con sconti fino al 50% rispetto ai prezzi dei negozi downtown di Milano o Francoforte. E l’enorme parcheggio fra le fortificazioni griffate e le colline è già attrezzato per accogliere intere gite organizzate del genere, con ampi spazi per pullman climatizzati, e tanto di ufficio turistico all’interno. Meglio di Pompei, da un certo punto di vista. Come ci conferma uno studio della Bocconi, “la possibilità di attirare clienti fino ad elevate distanze deriva dal fatto che la visita ad un factory outlet è anche percepita come un modo per trascorrere una giornata, che spesso si conclude con acquisti non programmati”[14]. Nessuno ovviamente vuole impedire a Herr Müller e famiglia di andare dove gli pare e vestirsi all’ultimo grido, ma chi anche solo per un attimo ragiona sulla quantità di territorio percorsa, e per così dire “erosa” dai flussi direttamente e indirettamente generati dai viaggi di piacere e shopping, inizia ad avere un quadro meno generico sul senso concreto di quelle fasce isocrone. Aria, suolo, infrastrutture, servizi: tutti quei milioni di ettari a “servizio” di quell’elegante puntino al centro della catchment area.
Non è un caso se un comitato sorto all’altro capo della Megalopoli, lungo l’asta stradale che unisce l’ultimo tratto della Padana Inferiore alla Laguna di Venezia, chiede prima di qualunque decisione su un possibile Factory Outlet da costruirsi nel territorio comunale di Conselve (PD), di raccogliere ogni possibile informazione sul caso di Serravalle, che si è scoperto essere una “fotocopia” del processo in corso nella pianura padovana. Le isocrone valgono anche per l’opposizione ambientalista, fortunatamente, e così appare chiaro che quei segni sulla mappa non sono fantasticherie per attirare una pullmanata di mocciosi col miraggio di diventare Amici di Splaffy, ma serissime proiezioni sulla base delle quali serissime banche erogano corposi finanziamenti ai promotori, lasciando poi agli old Italian men who didn’t speak English e ai loro rappresentati il carico del traffico, degli squilibri, dei costi di adeguamento infrastrutturale e desertificazione della rete locale. Visione apocalittica? Sicuramente no. Solo realistica, almeno fermo restando l’attuale rapporto fra scala degli interventi e ambito decisionale politico-amministrativo. Ed è il caso di iniziare a pensarci, se è vero come è vero che all’avamposto Serravalle – come precisa il citato studio dello SDA Bocconi – si aggiungerà “nei prossimi anni la realizzazione di nuovi insediamenti in diverse province tra cui Bologna, Roma, Mantova, Arezzo e Bari”. E in una intervista de La Nazione gli stilisti fiorentini sui vari modi per uscire dalla crisi che la “guerra infinita” di Bush fatalmente indurrà sui consumi voluttuari[15], si indica proprio la strada del Factory Outlet, e una precisa ubicazione: Barberino del Mugello. Si accenna già alla forma architettonica possibile del nuovo borgo commerciale, che “sarà in perfetto stile toscano, anzi del Mugello”. Il tutto, nell’abituale scenario che salta dal negozio della Fifth Avenue a quello nel duty free di uno scalo giapponese, insomma a mille miglia fisiche e mentali dall’ambito decisionale di chiunque possa esercitare controllo pubblico sul territorio. Dunque, prossima fermata Barberino, e la Rete stavolta risuona di appelli, richiami, ragionamenti. Perché qui la “fotocopia” intuita nella bassa padovana salta davvero agli occhi, con Bologna al posto di Milano, la Romagna della gardesana, e le isocrone che impalpabili si stendono sull’Appennino come una nuova Linea Gotica. Apocalisse? Macché: ancora solo la scala conforme dei problemi, quella che una opinione pubblica davvero “potenza mondiale”[16] deve tenere in considerazione. Per evitare inutili spargimenti di capi firmati.
Lo studio di impatto sull’Outlet Serravalle[17]
La Regione Piemonte, Osservatorio del Commercio, ha promosso (circa due anni fa) una ricerca sugli impatti locali e intercomunali dell’Outlet, condotta da Grazia Brunetta e Carlo Salone del Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico di Torino, dal beneaugurante titolo: Commercio e territorio, un’alleanza possibile?
Il giudizio degli autori è quello riassunto, appunto, dal titolo, tutto compreso: il commercio, il territorio, l’alleanza, la possibilità, e il punto di domanda. Il fatto è che uno studio di impatto che avviene a valle dei processi e delle decisioni che li hanno innescati non può fare altro che lasciare la porta aperta a qualunque suggestione emerga dall’evoluzione concreta dei fatti sul territorio. E forse non poteva essere altrimenti, data la novità (in Italia come in parte anche in Europa) di eventi simili, ma resta l’urgenza di capirci qualcosa al più presto, e di farlo in termini scientifici e quindi ripetibili nelle categorie e nel metodo, visto che i casi si moltiplicano con una velocità forse fisiologica per l’animale capitalista, molto meno per i tempi della riflessione scientifica e/o della risposta socio-politica conseguente (allo stimolo, non alla riflessione).
Rinviando ovviamente alla lettura diretta dello studio di impatto il giudizio di ciascuno, vale la pena rilevare qui come, apparentemente, oltre alla forma organizzativa “interna” dell’intervento, pare si siano importate dal contesto nordamericano – come implicitamente rivelano ampi passaggi dello studio – anche alcune valenze “esterne”, prima fra tutte la preponderante centralità del grande operatore commerciale nel determinare forme e contenuti della trasformazione ambiental-territoriale e socioeconomica, con un ruolo sostanzialmente di seconda battuta della società e delle sue forme istituzionali. Credo di poter osservare come si tratti, sostanzialmente, di quanto esposto – seppur in forma ottimistica e aperta – da Richard Longstreth nel suo City Center to Regional Mall, storia del passaggio, nel corso del Novecento, dal modello semplificato downtown/suburbia a quello più complesso della città diffusa[18], che sul versante commerciale corrisponde a una progressiva “introversione” della struttura di grande distribuzione, che solo per fare un esempio emargina via via tutti i progettisti che cercano un contatto diretto fra il nuovo insediamento e la tradizione qualsivoglia del centro civico o comunitario. Non è un caso, se grandissimi progettisti e teorici come Clarence Stein (il fondatore con Lewis Mumford della Regional Planning Association of America) pur operando per anni nel settore, non hanno alcun significativo impatto sulle sue modalità operative, mentre altri, spesso anonimi professionisti con la ragguardevole eccezione del notissimo Victor Gruen, lavorano con l’unico orientamento fissato dalla logica esclusivamente mercantile degli spazi, per quanto dilatati e contestualizzati, e quindi socialmente (almeno in senso simbolico), significativi.
E in questo senso non è forse un caso se, parallelamente ad una serie di rilevazioni positive sugli impatti dell’Outlet Serravalle, Brunetta e Salone osservano fra l’altro l’irrilevanza “dimostrata dalla cosiddetta pianificazione di area vasta nel condizionare le logiche localizzative delle attività commerciali”. Confermando, se necessario, la disparità fra il punto di vista strategico degli operatori e le effettive capacità di misurarsi fattivamente con esse, da parte della società e delle istituzioni che ai vari livelli la rappresentano. Perché a questo punto varrebbe davvero il caso di chiederselo: a quale livello, se non di pianificazione regional e nell’ambito di un concetto di coordinamento territoriale allargato, è possibile ragionare sul tema della grande distribuzione commerciale, e in particolare del complesso approccio proposto dagli Outlet Villages?
L’invasione degli Ultrashopping
Probabilmente moltissimi si ricordano le immagini del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (The Invasion of the Body Snatchers), sia nella versione originale anni Cinquanta di Don Siegel che nel remake anni Settanta con Donald Sutherland nel ruolo protagonista. Il film, conosciuto dai più come “quello dei baccelloni”, racconta di alieni atterrati in un paesino della pianura americana, che si impossessano via via dei corpi di tutti, producendo un simulacro identico del postino, del dottore, della merciaia, che cresce in una specie di grosso baccello, nascosto nell’angolo del giardino, pronto ad aggredire l’originale e a sostituirlo, per la conquista del mondo. La moltiplicazione degli outlet territoriali, che in tutta Italia sempre più numerosi crescono chiusi fra un angolo dell’autostrada e una lottizzazione artigianale, ma sempre più simili a un centro storico in miniatura, mi ha ricordato chissà perché proprio questo film. Gli elementi ci sono tutti, se non vado errato: resta solo da vedere, visto che non è un film ma una concreta realtà, se si tratta di una minaccia oppure di una promessa, tanto per rimanere nel linguaggio hollywoodiano.
La parola chiave da cui partire è retailtainment. Un neologismo che a colpi d’accetta si può tradurre più o meno con giocomprare, e a cui ahimè dovremo abituarci, a quanto pare: non solo fare la spesa, ma pure divertirci come matti, ammirando le meraviglie di un nuovo rapporto sado-maso fra cultura, territorio, modernità e tradizione. Perché l’Italia, come ci spiegano gli operatori commerciali rappresenta la nuova frontiera dei villaggi tematici, di cui a Serravalle Scrivia qualche anno fa è sbarcata la testa di ponte, e che rapidamente negli ultimi tempi si sta guadagnando terreno: dal punto di vista della visibilità e dell’influenza sull’immaginario nazionale, ma anche (e ahimé) parecchio terreno edificabile. Nonostante il fenomeno sia europeo, l’Italia sta in prima fila per un motivo probabilmente immaginabile: the less restrictive planning laws at present [19]. Un at present che, nel paese dei condoni, anche a scala europea sembra solidamente esteso anche al glorioso passato e al luminoso futuro. Questo per fare un po’ di chiarezza, e prima di addentrarsi in qualunque altra considerazione sullo sviluppo di questa nuova forma di insediamento, che nel giro di qualche mese ha visto entrare in campo nel nostro paese almeno due elementi di novità: la concorrenza (che a quanto pare non necessariamente migliora l’offerta), e l’esplicitarsi di una “cifra stilistica” che il primo outlet village a Serravalle aveva in parte offuscato con le particolari scelte di progetto. I due “casi” a cui mi riferisco, sono le recenti inaugurazioni dei parchi tematici di Castel Romano e Fidenza, per molti aspetti diversi, ma accomunati sia dal modello socioeconomico-culturale, sia dalle prospettive che propongono.
In attesa di farmi travolgere dal fascino imperiale del nuovo aggeggio di Castel Romano, di cui conosco di prima mano solo la descrizione (involontariamente piuttosto patetica) fornita dalla stampa, di una sorta di Disneyland commerciale all’amatriciana, con architetture che si dicono ispirate all’Impero Romano, e certo farebbero esclamare ai nostri antenati: alea iattura est, ho fatto una capatina al più accessibile (per il sottoscritto padano), nuovo fiammante, Fidenza Village, fra la via Emilia e il West. Con un effetto sorprendente, ma non più di tanto a pensarci bene: la forte impressione di stare dentro a una fotocopia, ovvero il senso di familiarità che proviamo un po’ tutti andando al supermercato di una certa catena, dimenticandoci in un secondo se quel certo supermercato sta in centro città oppure sulla cima di una montagna. In altre parole, altro che – come ormai spesso ci ripetono spiegando la “filosofia” dell’outlet locale scopiazzata dai comunicati stampa dei promotori – valorizzazione delle specificità territoriali: questo è sciocchezzaio assessorile degno di Zelig, o più legittimamente prosa da pubblicità più o meno mirata. Per farla breve, a Fidenza in una manciata di secondi mi è sembrato di essere a Serravalle, perché l’ambiente era lo stesso: nonostante il fatto che qui fossimo in aperta pianura anziché ai piedi delle colline; nonostante il promotore sia l’americana Value Retail, acerrima concorrente della McArthur Glen di Serravalle e Castel Romano; nonostante la scelta stilistica assai differente, che sostituisce al mimetismo del “centro storico virtuale” un approccio culturale diverso.
Perché è una delle principali novità emergenti in questo caso: non si tratta di sostituire o affiancare al centro storico terziarizzato un centro storico più o meno finto ma esattamente parallelo. Qui siamo davvero all’invasione, per quanto soft, del modello “americano”, quello degli alberghi che scimmiottano una storia che non si ha, incredibilmente venduti con successo a chi da quella storia è letteralmente sommerso, ma non la conosce e a giudicare dalle folle entusiaste preferisce di gran lunga il surrogato. Nel caso specifico di Fidenza, trattandosi di terre parmigiano-verdiane (siamo a un tiro di sasso da Busseto), oltre l’ormai solita planimetria generale da borgo felice, le architetture citano i temi delle opere liriche del grande musicista. Abbiamo così le vetrine delle solite griffes, affacciate sui soliti artificiosi spazi “urbani” privatizzati e lindi, ma circondate da archi, colonne, pinnacoli, che forse vorrebbero citare l’Aida, ma assomigliano più a una scena di Asterix e Cleopatra. Resta solo un dubbio: perché non optare, che so, per una bella forma di parmigiano in ordine gigante, o magari un prosciuttone di cemento colorato lungo cento metri? In fondo, se Busseto sta qui vicino, anche Langhirano si raggiunge facile facile, e il legame col territorio – per dirla in linguaggio da assessore o ufficio stampa – è sano e salvo.
Superficialmente, è vero, si nota anche qualche passo avanti rispetto al “modello Serravalle”, forse dovuto alle more restrictive planning laws emiliane, o forse ad altro, chissà. Innanzitutto non sembra che il sito abbia subito trasformazioni traumatiche, visto che si tratta di zona piana, fuori città e lontano dall’asse della via Emilia, ben inserita insomma nell’ambiente artificiale definito dalle rampe di collegamento all’Autostrada, e dall’inizio di un sistema insediativo del tipo lottizzazione industrial-commerciale ben riconoscibile da chiunque nelle foto aeree disponibili sulla rete[20]. Resta, naturalmente, il brusco cambio di scenario per chi arriva dalle campagne di Soragna, magari dopo aver attraversato la grande distesa di borghi e cascine (quelli sì davvero “verdiani”) che sale fino al Po. Ma per il grosso dei visitatori, che sbucano dal casello Fidenza dell’A1, o hanno scavalcato la ferrovia e il centro provenendo dall’ambiente rutilante della via Emilia, l’effetto è sicuramente molto migliore di quello dei soliti scatoloni tristi con luminarie da centro commerciale. E questa dell’aspetto un po’ più curato dei vari mercatoni e supercentri vari, mi pare di capire, è la parte “…tainment” della faccenda, quella che promette chissà perché impatti soft sull’ambiente e il territorio. Il resto ovviamente è retail, ma come vi spiegheranno entusiasti, magari scuotendo il capo davanti a tanto sospetto: business is business. No?
E l’effetto fotocopia soggettiva rispetto a Serravalle (e sospetto, a Castel Romano e altrove in futuro), si spiega anche leggendo i commenti della stampa, che presenta un processo per molti versi identico anche guardando oltre le solite superficialità di “rapporto col territorio” o altri formalismi da guida gastronomica. Così come successo a Serravalle, anche a Fidenza i promotori e costruttori del Village propongono un metodo abbastanza standard e solido di approccio integrato e pervasivo al territorio locale. Approccio che vede interventi diffusi, ad esempio fisici sul centro storico, o organizzativi, con lo spazio dell’outlet inteso potenzialmente come “vetrina delle risorse locali”, oltre che vetrina locale. Il tutto senza contare la questione lavoro. Leggiamo che “Il «fashion village» produrrà due tipi di occupazione: quella diretta e l’indotto che si realizza nei 60 negozi ognuno occuperà da 4 a 5 persone e nei servizi centralizzati della struttura come giardinaggio, pulizia, manutenzione e vigilanza circa 400 persone”[21]. Non di altissimo profilo, ma nemmeno pochissimo. Quello che lascia perplessi, però, è la scala dei rapporti fra amministrazioni comunali medio-piccole, e questi giganti economico-organizzativi, che sbarcano nella campagne con lo stesso stile dei capitalisti ottocenteschi (o dei berlusconi e cloni vari all’epoca d’oro delle milano due e tre), “mangiandosi” letteralmente la dimensione locale, in cambio di strutture che, come osservano spesso le normative dei più attenti sistemi europei, sono destinate a durare abbastanza poco, come è forse abbastanza intuibile trattandosi di fashion-system. E poi, che ne faremo, di queste burinoland?
E per concludere col caso specifico di Fidenza, vale forse la pena di riportare un estratto delle risposte ad alcune interpellanze, nella primavera del 2000, alla Regione Emilia, proprio mentre nel basso alessandrino si inaugurava l’outlet Serravalle.
“Nessuna richiesta è pervenuta alla Regione relativa all’apertura di una struttura commerciale da ubicare nel Comune di Fidenza. È la risposta in Consiglio regionale dell’assessore Duccio Campagnoli relativa all’ipotesi, avanzata da una interrogazione del consigliere di an Manlio Molinari, di realizzazione di un “Factory Outlet Center” nel Comune di Fidenza. “Al riguardo – precisa Campagnoli – a seguito dell’entrata in vigore del cosiddetto Decreto Bersani, è sospesa la presentazione di domande di rilascio di autorizzazioni per grandi strutture di vendita fino a quando i Comuni non avranno provveduto ad adeguare i propri strumenti urbanistici, generali ed attuativi, alle norme regionali”. Ampiamente soddisfatto si è dichiarato Manlio Molinari”[22].
Ma il progresso, si sa, è inarrestabile, e l’intesa fra il comune di Fidenza e la Value Retail sarà perfezionata da lì a un anno.
Resta da vedere se da qui a un anno, ovvero quando nel 2004 si raddoppieranno i punti vendita dell’outlet e la struttura entrerà davvero a regime dopo un battage pubblicitario internazionale, ci sarà davvero da essere ancora soddisfatti. Oppure, da rimpiangere l’ennesima occasione perduta. Magari occasione perduta, semplicemente, per imporre un parcheggio sotterraneo, anziché quella miserabile spianata d’asfalto che, borgo settecentesco, impero romano, o accozzaglia di citazioni verdiane che si voglia, ispira comunque infinita tristezza ed è a quanto pare una caratteristica fissa di questi villaggi. Magari, è pure parte indispensabile del retailtainment.
Cambiando l’ordine dei Factory, il risultato cambia?
“Ferilli, bellissima in un abito nero. Bella e simpatica come sempre, ha fatto da madrina al nuovo Outlet Villagge, sottolineando il gusto dei costruttori nel realizzare una struttura commerciale non invasiva dal punto di vista paesistico”. Così ci rassicura un quotidiano locale[23], e francamente ce n’era un gran bisogno, di questa versione nazionalpopolare della procedura di Valutazione Impatto Ambientale, perché a prima vista il paesaggio appare piuttosto invaso. Ma una fede nelle icone nazionali, specie se spacciate come progressiste, mi spinge a capirne di più, di questa non invasiva piattaforma di cemento con sfondo di dolci colline.
Siamo in comune di Rodengo Saiano, ai margini occidentali dell’insediamento compatto di Brescia, e rispetto ad altri parchi commerciali tematici italiani, il tema sembra sviluppato spazialmente in una logica più “metropolitana”. Naturalmente, e come d’abitudine in questi casi, l’enfasi comunicativo-pubblicitaria calca molto di più sull’immagine campagnola, ma basta un colpo d’occhio per capire che l’elemento rurale, qui, è stato cotto, mangiato e digerito da un pezzo. La marcia di avvicinamento rafforza questa prima impressione. Per chi viene da est, dalla direzione di Venezia, il villaggio si presenta solo come l’ultima – anche se decisamente più gradevole – di una lunga serie di skylines che mischiano elementi industriali (come il famoso inceneritore bresciano a sud della tangenziale), e più tipicamente commerciali, come vari ipermercati, l’Ikea, il monolite trasparente del “distributore” di automobiline Smart. Per chi si avvicina da ovest lungo la strada Padana Superiore, da Milano, il villaggio rappresenta certo la “porta” verso la Franciacorta e la zona turistica del lago d’Iseo, ma la collocazione lungo una superstrada e l’accesso diretto da svincolo danno comunque una forte impressione urbana, che il (solito) gigantesco parcheggio ad anello non contribuisce certo ad attenuare. Il modo migliore di “gustarsi” l’accesso al Village è forse quello di imboccare il tracciato secondario verso il lago d’Iseo, che parte da una diramazione a destra della Padana Superiore, poco fuori dal territorio comunale di Brescia. È così possibile intravedere più da vicino la città industriale che via via si dirada, lasciando spazio a qualche sparuta testimonianza di campagna: campi arati, filari di alberi, fossi, qualche edificio rurale. Poi anche questa impressione superficiale si dilegua, dopo il visibilissimo cartello OUTLET, e l’ingresso nell’ex podere della cascina Moie, ora zona industriale Moie, all’orizzonte del quale spunta, dopo una lunga sequenza di metropolitanissimi precompressi misti a destinazione varia, la miscela di colori caldi (sembra di parlare di un tessuto) del parco commerciale.
Il villaggio, una volta superata la barriera anulare delle migliaia di auto nel parcheggio, ha un aspetto gradevole, con le abituali articolazioni del fronte, portici, aperture, uso abbondante e visibile del legno, e in qualche modo giustifica la dichiarazione ufficiale secondo cui nel progetto ci si è ispirati ai temi della campagna lombarda. Naturalmente qui la campagna lombarda, come a quanto pare tutto nel mondo della moda, è puro simbolo e citazione: per trovare qualcosa di davvero simile alla campagna, bisogna inoltrarsi ancora di parecchio nella Franciacorta, o fare dietro front e scendere di un po’ di chilometri nella pianura del Mella. Comunque, bisogna accontentarsi, e al centro del villaggio spicca anche la restaurata cascina Moia, che dà il nome a tutta la zona. Non aiuta, un ipotetico storico dell’arte futuro, la presenza, sovrastante la stessa cascina, degli archi dorati di McDonald’s, di cui sembra che i portici riprendano il motivo. Ma tant’è.
Più interessante, per la tutela del territorio (e la sopravvivenza, magari anche il benessere, di chi ci sta sopra), sembra essere l’insieme di iniziative concordate fra il piccolo comune di Rodengo Saiano e i promotori[24]. Si va dalla realizzazione di nuove piazze nel paese, alla concessione gratuita di spazi comunali all’interno del villaggio, all’accordo per la sponsorizzazione di una lunga serie di iniziative comunali e in generale dell’immagine della zona. A questo, e nella logica generale “metropolitana” cui ho già accennato, si aggiunge l’idea di collocare in un grosso stabile industriale dismesso ai margini della zona Village, una “Città delle Macchine” inserita nella rete del Museo dell’Industria bresciano. Se si comprendono i 600-1000 posti di lavoro che il villaggio promette di creare direttamente, si ha un senso più completo dell’impatto generale, anche oltre le pur rispettabili opinioni di Sabrina Ferilli.
Anche l’ambiente fisico e sociale, pur superficialmente e ad una osservazione occasionale, suggerisce un’idea più “nazionalpopolare” del centro, che in una domenica pomeriggio di sole dà davvero l’idea del paese in festa, con famiglie accalcate al bar o adolescenti in massa con motorini a ciondolare qui e là. Certo che non aiuta, a scaldare la temperatura relazionale, quell’immenso parcheggio circolare che isola la cascina, e il villaggio finto che le sta attorno, dal resto del mondo. Un mondo che, appena fuori dalla zona Moie (con un po’ di attenzione è anche possibile uscire senza imboccare per forza la superstrada!), inizia a dare un’idea di cosa doveva essere prima il paesaggio, da quelle parti. Ma a quanto pare tutti sono contenti, e in effetti rispetto ai casi “visionati” sinora, il risultato sembra migliore. Sarà perché, in fondo, qui di fatto non si è consumato troppo spazio aperto? Sarà l’abitudine? Sarà la Ferilli? Mah!
Cugini di campagna
La concorrenza commerciale, sia sul territorio che nell’iper-uranio multinazionale, inizia a produrre e rendere visibili cloni geneticamente modificati, che cambiano pelle (ma non più di tanto) per adattarsi meglio all’ambiente. La particolare operazione che qui si descrive brevemente, si può chiamare dei “cugini di campagna”: sono quattro, si assomigliano tanto, e sono pensati per la stessa campagna italiana. Visto che in questo campo l’inglese, a proposito e sproposito, va via come acqua fresca, preciso che la campagna qui si intende sia come campaign, che come countryside. Non che per i cugini la cosa faccia molta differenza.
L’impatto dei villaggi della moda è soprattutto visivo: come le lucine si accendono una dopo l’altra su un albero di Natale, nello stesso modo i nuovi colori dei villaggi si sovrappongono via via nel panorama italiano a svincoli dell’autostrada, a campagne, a periferie. Almeno è così che sono stati presentati sinora. In altre parole, all’apparizione presentata come tale seguiva una riflessione, più o meno (di solito, meno) seria e approfondita. Il caso del Fashion District di Bagnolo San Vito, nella fascia meridionale tra Mantova e gli argini del Po, è un’occasione per procedere in senso inverso, visto che l’apparizione al momento in cui scrivo deve ancora avvenire, e le luci sono spente. Ovvero, mentre vengono stese queste note il villaggio è ancora in costruzione, e le quinte quasi cinematografiche delle architetture in stile spuntano ancora piuttosto brulle e grigie dalla pianura a ridosso del fiume. Prontissime, sono invece le premesse e le promesse di questa ulteriore variazione sul tema dei nuovi insediamenti commerciali. Premesse e promesse che scivolano via lisce, su quello che i promotori chiamano the red velvet rope to value [25].
L’impresa e il lavoro
Come ci informa l’ufficio stampa nel file scaricabile dal sito, “la Fashion District è una holding costituita da un insieme di società immobiliari e di gestione”, con lo scopo di lanciare “un format commerciale distributivo innovativo, che si sviluppa sul modello del distretto industriale, che è ciò che ha determinato il successo del sistema imprenditoriale italiano”. Naturalmente, come si capisce scorrendo le specifiche di questa variazione sul modello del distretto industriale, non si vuole riprodurne il modello insediativo (con relativo disordine, sparpagliamento e quant’altro), ma lo spirito di azione complementare fra le imprese, in questo caso con un rapporto integrato fra produzione, distribuzione, immagine. A parte le specifiche scelte in campo commerciale, pare proprio però che dal punto di vista spaziale interno/esterno e da quello dei rapporti col territorio vasto, non si esca dall’importato schema degli outlet villages, o almeno così si intuisce leggendo che a Bagnolo – come nelle altre tre “gambe” dell’articolata operazione a scala nazionale – vedremo “città in miniatura con strade, piazze, persino portici, che assecondano e favoriscono un modo del tutto italiano di fare acquisti: la passeggiata”[26]. Scala nazionale, si diceva, visto che anche la struttura della holding e l’azione parallela immobiliare/organizzativa atterra contemporaneamente e con criterio identico su quattro siti: questo di Bagnolo nel mantovano, uno a Santhià nel vercellese, e due nel centro sud, rispettivamente a Valmontone nell’area romana e Molfetta nel barese. In cifre, e sempre intendendo complessivamente l’organismo a quattro gambe, questo sta a significare una superficie totale di vendita di 125.000 metri quadri, suddivisi fra 521 negozi più 225 “shop in the shops” (l’articolazione distributiva che probabilmente caratterizza l’approccio denominato per “distretti”), che creano 2.630 posti di lavoro e 10.500 posti auto, a servire una clientela annua calcolata in 52 milioni di gruppi/auto.
Solo qui, nella striscia di campagna fra gli abitati di Pietole (Virgilio) e Bagnolo, chiusa tra un canale e l’Autobrennero, servita dalla Statale 413 Carpi-Modena poco dopo la diramazione della 62 per la Cisa, si creeranno 550 posti di lavoro. Anche se per ora a questo proposito il supplemento specializzato Corriere Lavoro specifica solo “100 addetti alle vendite, 30 responsabili punti vendita, 25 viceresponsabili punti vendita”[27]. Il totale, cifre alla mano, fa 155. E gli altri? Anche il sito della “associazione mantovani nel mondo” resta un po’ sotto le previsioni dei promotori, e scrive che “Quando la struttura sarà a pieno regime, gli occupati si aggireranno sulle 400 unità”, ma forse c’è solo un metodo di calcolo diverso. Lo stesso sito web, ci informa tra l’altro che più o meno di fianco al Fashion District, nella stessa zona già a destinazione produttiva, su una superficie di 160.000 metri quadri si insedierà dal 2005 un impianto tessile decentrato dal polo mantovano, la Lubiam, per cui si prevedono altri 400 posti di lavoro. Quindi a quanto pare non vale la pena andare tanto per il sottile sulle questioni di impatto ambientale (come suggerito tiepidamente dal programma di sviluppo locale del basso mantovano): “Nemmeno il ritrovamento di preziosi reperti archeologici nell’area ha rallentato l’intervento”[28].
Cosa esattamente ci andranno a fare, i nuovi occupati, tra le colorate pareti degli “shops” o negli angoli specializzati degli “shops in the shops”? Possiamo cercare di indovinarlo scorrendo le job opportunities del sito di impresa, opportunities a cui corrisponde – spesso se non sempre – l’attivazione di corsi del Fondo Sociale Europeo. Il piccolo popolo che in futuro occuperà professionalmente i vari anfratti del finto villaggio in stile padano/rinascimentale, si articola fra addetti – manageriali e non – alla vendita, personale per la ristorazione, e presumibilmente qualche unità per servizi, vigilanza, manutenzione ecc.; molti anche se non tutti – in una quota da definirsi – avranno contratti di tipo interinale, per cui la società ha già stipulato accordi con la Synergie (da qui, forse, le varie discrepanze nelle cifre). I corsi di formazione FSE di 600 ore per figure di Sales Promoter, gestiti dalla Fashion District in collaborazione con gli enti amministrativi territoriali interessati, prevedono lezioni in aula e stages in materia di: Comunicazione; Orientamento al mercato; Inglese; Altra lingua straniera; Organizzazione aziendale; Tecniche di vendita; Servizio al cliente; Modalità espositive; Gestione strategica e operativa di un punto vendita; Merceologia; Informatica. Non è poco, e a questo si aggiunge la formazione permanente di aggiornamento per personale già assunto, su approfondimenti delle materie citate, e/o altre discipline necessarie a muoversi tra la clientela anche internazionale e le varie proposte di Adidas, Rosenthal, Calvin Klein, Calzedonia, Pompea, Bassetti, Arimo ecc. Altro che braccia inopinatamente strappate all’agricoltura, come qualche spiritoso (a partire dal sottoscritto) potrebbe insinuare guardando i padiglioni a colori caldi che spuntano dagli ex campi arati della pianura mantovana.
Territorio e ambiente
Come ci conferma – se necessario – il dossier sui factory outlet italiani preparato dal Politecnico di Milano[29], quella dei parchi commerciali è tutt’altro che una moda passeggera, ma vero nuovo paradigma del paesaggio socioeconomico e territoriale, che volenti o nolenti ci avvicina alle modalità distributive e insediative moderne europee. I principi alla base del villaggio tematico-commerciale, riassumendo al massimo, sono: grande dimensione e forte articolazione delle proposte (gli “shops in the shop”, o comunque i piccoli esercizi o produttori, ma anche intrattenimento, ristorazione ecc.); sinergia interna ed esterna (col “territorio” in senso lato) che determina localizzazione e ruolo; amplissima capacità di attrazione (che nei fatti travalica di gran lunga il “territorio” di cui sopra).
Queste caratteristiche, comuni a tutte le varianti sul tema, mettono ben in luce la irrinunciabilità, ad esempio, di una collocazione altamente focalizzata (e altamente focalizzante ad esempio riguardo ai flussi di traffico), di una stretta integrazione con altri interventi (nel caso mantovano, ma anche altrove, una zona produttiva, o un bacino turistico di massa prossimo), ma allo stesso tempo una particolare attenzione a temi di impatto ambientale e paesistico. Un quadro generale delle precondizioni, potenzialità e cautele, per il caso specifico del Fashion District di Bagnolo San Vito, è ben riassunto dalla relativa scheda del Piano Territoriale provinciale di Mantova, di cui riportiamo di seguito alcuni elementi.
Il contesto comunale in cui l’intervento si colloca, è descritto nel sito web municipale come “prevalentemente agricolo, ma si diversifica anche in altri settori grazie al lavoro di piccole e medie imprese artigianali e commerciali e alla presenza di alcuni impianti industriali”[30]. Per la pianificazione territoriale vasta, qui siamo in un ambito ben infrastrutturato, potenzialmente complementare al rafforzamento della fascia produttiva meridionale del capoluogo, che di conseguenza “rappresenta un riferimento prioritario per la definizione delle politiche insediative”, nel quadro della “connessione alla realizzazione del corridoio plurimodale autostradale e ferroviario Cremona-Mantova e al sistema tangenziale di Mantova”. Con queste premesse, le indicazioni per la pianificazione generale (il Prg secondo il sito comunale è attualmente in corso di redazione a partire da una bozza già presentata e pubblicamente discussa) sono di svilupparsi per “progetti di riqualificazione organici, mirati alla valorizzazione degli elementi di carattere paesaggistico, di natura ambientale o infrastrutturale presenti”, con un inserimento nel quadro delle reti ecologiche-ambientali così come infrastrutturali.
Resta, ovviamente, il problema di come inserire in pratica, in questo contenitore logico dove tutto in teoria si tiene, le molte decine di migliaia di metri quadri della “nuova meta turistica pensata per il piacere di chi la visita e collegata a parchi tematici, a family entertainment center, multisala cinematografiche, auditorium e grandi alberghi”[31]. Una meta turistico-commerciale che, come tutte le altre sue simili, ha una isocrona media di 60 minuti, di solito calcolata sulle velocità autostradali rese realistiche dalla collocazione a ridosso di svincoli e nodi ad altissima acessibilità. Il che, nonostante tutto, non descrive ancora appieno l’idea secondo cui si tratta di “macro dimensioni di cui attendiamo fiduciosi sviluppi e aperture”. E, come ci informa la stampa, le decisioni che contano sono già prese da un pezzo: “18 ettari di terreno pertinente, un’area commerciale di 34.000 metri quadrati, 110 negozi che apriranno in due fasi successive e un investimento di 80 milioni di euro”[32].
Evidentemente si sono chiariti tutti i dubbi sull’effettiva compatibilità ambientale di un intervento di queste dimensioni, così come risultano anche dal rapporto relativo al Programma Integrato di Sviluppo Locale “Basso Mantovano”, che individua alcuni punti critici della proposta Città della Moda, nella previsione del traffico indotto, localmente e su un contesto più ampio ed articolato, con possibilità di riservarsi in casi simili “esclusione di uno o più progetti, soglie dimensionali, tipologie costruttive”[33]. E su quei 18 ettari di terreno pertinente, nelle giornate già corte di fine ottobre 2003, spuntano dalla bruma padana, quasi finiti, i padiglioni freschi di cemento. Si profila visibile lo schema anticipato mesi fa: “distribuiti a corona su di un’area quadrangolare, saranno caratterizzati in stile architettonico cinquecentesco, tipico dei centri storici della zona”[34]. In attesa del giorno dell’inaugurazione, prevista nella prima settimana di novembre, come annunciato a colori brillanti con immagini esotiche, sulle pagine nazionali di alcuni quotidiani di grande diffusione.
E qui finisce il ragionamento “prevenuto”, ovvero sviluppato seppur superficialmente in base alla documentazione disponibile online, con un solo e rapido sguardo al cantiere, tra quel canale, quell’autostrada, e quei fossi. Fossi piuttosto simili a quelli della vicina Pietole, appena oltre il ponte sulle sei corsie, dove duemila anni fa una contadina, in cammino per i campi, si sgravava del futuro poeta Virgilio.
Fashion District giorno e notte
L’inaugurazione per quanto ne so è stata una faticaccia, a partire dall’ora di cena di giovedì 6 novembre, con un revival dei “mitici” anni Settanta per cui è stata ripescata una vecchia Gloria discotecara, con contorno delle solite ubique starlette televisive, a illuminare le tenebre della città diffusa. Dato che il sottoscritto in quel momento stava in un ingorgo della stessa megalopoli, ma spostato di un centinaio di chilometri verso ovest, per la virtuale cronaca dell’evento dobbiamo fidarci delle informazioni di un sito trendy, che quel pomeriggio anticipava: “un vero e proprio spettacolo che vedrà la partecipazione di Luisa Corna in qualità di presentatrice e cantante in coppia con Gloria Gaynor, i ragazzi di Amici di Maria De Filippi, Masha del Grande Fratello e l’ex letterina Alessia Fabiani”[35]. Insomma un trionfo, oltre che dello stile architettonico “cinquecentesco” sicuramente apprezzato da tutti, anche dell’indispensabile nazionalpopputismo, che lo valorizza.
Ma la vera inaugurazione, per un posto del genere, è quella del primo sabato pomeriggio, quando tutti i Fantozzi delle isocrone di competenza (e anche qualcuno in più, come nel mio caso), si accodano un fanalino dietro l’altro sulla statale ultraintasata, per sperimentare quello che il già citato tale Steve Collins, della JP-Design descrive: when you visit you’re made to feel you’re on the guest list [36]. Una lista lunghissima, che si snoda dai due serpentoni della statale e del casello autostradale, per imbottigliarsi nel percorso (si spera solo provvisorio) a cul-de-sac, che dopo aver zigzagato attraverso la zona industriale scavalca l’unico ponte sul canale ad immettere nel solito, maledetto, sterminato, parcheggio ad anello. Un parcheggio più o meno identico, nel male e nel malissimo, agli squallidi ciambelloni neri che stringono ad anello i vari villaggi della moda in stile: cambiano gli slogan pubblicitari sull’ispirazione storico-culturale del progetto, ma resta identica la prospettiva di osservazione dei lontani scatolini colorati dei padiglioni commerciali, da cui ci separa l’infinita distesa ondosa delle lamiere luccicanti. Non aiutano, nel caso specifico, l’abbondante pioggia e i lavori conclusi a metà, come testimoniano le larghe sbrodolate di fango, e le brusche interruzioni delle false prospettive “cinquecentesche”, evidentissime per chiunque (come il curioso sottoscritto) non punti a paraocchi innestati verso uno dei disneyani cancelli di ferro battuto, che immettono in una specie di piazza con fontana.
Una volta all’interno, nonostante qualche ulteriore segno di “non finito”, il panorama migliora di parecchio, ma osservando meglio non possono non tornare in mente le riflessioni dello storico dei centri commerciali Richard Longstreth: nonostante tutti i voli pindarici, anche in buona fede, di intere generazioni di progettisti sul tema dei valori anche sociali e civici di questi spazi, la logica mercantile alla fine si piglia tutto, ma proprio tutto. Detto in altre parole, chi si aspettava un centro storico, cinquecentesco o altro, vero, verosimile, o finto, se ne può anche tornare a casa, a cercarselo in giardino tra l’oleandro e il baobab, se crede. Le piazze, nonostante l’illuminazione ad effetto, nonostante l’improbabile blasone Fashion District che campeggia similgentilizio su una facciata in stile, sono vuote come un foro boario la notte di Natale: non un paio di pensionati a spettegolare, né una coppietta a pomiciare, né tantomeno un botolo a concimare le aiuole nuove di zecca. La folla, che è tanta, tantissima, non si scosta istintivamente più di un metro o due dal filo delle vetrine, al punto che anche i portici (con i loro colonnati vezzosamente varianti in stile,colore, ed effetto prospettico ogni manciata di metri) sono quasi vuoti, salvo fidanzati o mariti solitari, fumanti, impazienti, o semplicemente preoccupati per lo stato del conto corrente (nessun automatismo maschilista di pre-giudizio: pura osservazione statistica).
L’unico vero effetto concreto della scelta stilistica, o delle balle a uso gonzi sulla scelta stilistica, a piacere, si nota nel punto di interfaccia fra il mondo esterno e l’enclave felice del distretto commerciale dedicato al retailtainment: mancano del tutto i “portali”, tratto comune dei villaggi di Serravalle, Fidenza, Franciacorta, anche se il tema era declinato in vari modi, dall’atrio barocco, al colonnato di Ben Hur, al portico per sgranapannocchie. Qui nelle ex campagne di Bagnolo San Vito è un cancello tipo Cenerentola, a introdurci in quello che ostinatamente, ancora pochi giorni fa e mentre già se ne vedevano i mozziconi spuntare dai campi, era definito “vero e proprio villaggio in stile cinquecentesco, che secondo i progettisti meglio ricorda le atmosfere del territorio virgiliano”[37].
Atmosfere del territorio virgiliano che invece sono proprio del tutto diverse, come basta verificare ripassando in senso inverso i cancelli disneyani, la ciambellona nera a lamiere ondulate del parcheggio, e il ponte sul melmoso canale verso la zona industriale. Perché oltre gli orizzonti artificiosi (e del tutto legittimamente tali, visto che di centro commerciale si tratta) della caricatura di centro storico privatizzato, sta il cosiddetto “territorio virgiliano”, con cui il villaggio non ha proprio voluto avere niente a che spartire, salvo citare a pezzi e bocconi qualche cartolina, dopo aver frullato proporzioni e materiali secondo la formula magica del GLA, neologismo da iniziati che sta per Gross Leasable Area. Nulla di più estraneo, solo per fare un esempio, alle strade che oltre il ponte dell’Autobrennero si infilano dall’abitato della frazione di San Biagio verso gli argini del Po, tra canali, poderi e cascine, fino al piccolo cimitero di San Nicolò, proprio sotto l’alta scarpata d’erba che segna il margine esterno del Grande Fiume. Da quella scarpata e dalle stradine lì intorno, il pomeriggio di Ognissanti scendeva una folla varia, a visitare le tombe dei cari. Folla tanto simile, forse identica, a quella che oggi si pigia ad un massimo di novanta centimetri dal filo vetrina, ma se non altro immersa in una “atmosfera virgiliana” un po’ più onesta.
In definitiva e per farla breve: Ok con la nuova frontiera del commercio qualificato, e va bene anche la mega isocrona, purché non si intasi di traffico superfluo pure il lavandino. Passino anche i villaggi in stile che cercano il “legame col territorio”, ma chissà perché sembrano dappertutto tutti uguali, soprattutto per la ciambellona nera e repellente (e probabilmente evitabile) del parcheggio. Passi tutto, se come a quanto pare è possibile si possono fare buoni accordi con le amministrazioni locali, che vadano oltre gli oneri di urbanizzazione, che vadano oltre la promozione dell’immagine tramite ballerinette e cantanti nazionalpopolari (o glamour, forse sempre per via del “territorio”). Solo, e scusate se concludo queste digressioni con una espressione tecnica: vedete di non prenderci per il culo.
[questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Metronomie, dicembre 2003, e successivamente sviluppato come capitolo centrale del volume I Nuovi Territori del Commercio, Alinea 2005]
NOTE
[1] Running all around the Central Park is a wide glass Arcade or Crystal Palace. This building is in wet weather one of the favourite resorts of the people, for the knowledge that its bright shelter is close at hand will tempt people into the park even in the most doubtful of weathers. Here manufactured goods are exposed for sale, and here most of the shopping which requires the job of deliberation and selection is done. The space is however a good deal larger than is required for these purposes, and a considerable part of it is used as a winter garden, and the whole forms a permanent exhibition of a most attractive character – the furthest inhabitant being within 600 yards. Ebenezer Howard, e la sua versione pedonale del moderno Shopping Mall al centro della sua Città Giardino, da un articolo inedito per la Contemporary Review – fine anni ’90 del XIX secolo circa – riportato da R. Beevers, The Garden City Utopia. A critical biography of Ebenezer Howard, MacMillan, London 1988, p. 52
[2] Cfr. Peter Hall, Colin Ward, Sociable Cities. The Legacy of Ebenezer Howard, Wiley & Sons, Chichester 1998. A proposito del Palazzo di Cristallo di Howard, gli Autori sottolineano, forse con qualche piccola forzatura che: it is clearly the direct precursor of the great enclosed shopping malls … which now crown our city centres and new edge-of-town centres (p. 22).
[3] La distinzione fra i due aggettivi “diffusa” e “dispersa” non è certo questione di lana caprina, ma linea di confine piuttosto chiara fra atteggiamenti di carattere sostanzialmente moralistico o modellistico, che si opporrebbero a qualunque idea di decentramento e diffusione, e riflessioni più mature sulla effettiva sostenibilità di questo modello di sviluppo. Cfr. Roberto Camagni, Maria Cristina Gibelli, Paolo Rigamonti, I costi collettivi della città dispersa, Alinea, Firenze 2002
[4] Le informazioni di partenza che riportiamo qui, sono tratte dal sito http://www.primeoutlets.com/corporate/default.html della Prime Retail: una delle società operatrici più importanti del settore negli USA, e particolarmente importante nel contesto italiano dato che partecipa alla holding Fashion District, che a partire dal 2003 sta realizzando una campagna su grandissima scala, con investimenti enormi, articolata su un primo gruppo di quattro villaggi (Cfr. i successivi paragrafi su Bagnolo San Vito), a cui dovrebbero seguirne altri. Le informazioni sul modello, quindi, devono essere prese come comunque “di parte”, anche se sembrano abbastanza affidabili.
[5] Uno dei testi più importanti dal punto di vista teorico-storico, che spesso ricorrerà direttamente o implicitamente negli approcci di queste note, è la storia di come decentramento, suburbanizzazione e centri commerciali regionali si siano evoluti nel paradigmatico “laboratorio di modernità” rappresentato dalla conurbazione di Los Angeles: Richard Longstreth, City Center to Regional Mall. Architecture, the Automobile, and Retailing in Los Angeles, 1920-1950, MIT, Cambridge (Mass.) 1997.
[6] Dati da una indagine effettuata nel 1998 dalla Hollander, Cohen & McBride Research, di Baltimora, disponibili sul sito della Prime Retail http://www.primeoutlets.com
[7] Le informazioni generali sullo scenario europeo sono desunte dall’abstract del rapporto Factory Outlet Centre Retailing – Europe pubblicato nell’agosto del 2003. Per maggiori dettagli vedi il sito http://reports.mintel.com/sinatra/mintel/new/report/
[8] the continual evolution of this sector across 14 European retail markets, offering you a unique perspective of the industry that can be used to focus business activity … our analysts identify areas of untapped potential throughout Europe. Ivi
[9] Si tratta di una parziale deduzione. Letteralmente il testo recita: outlet shopping centers have been very successful in the United Kingdom and France, and Italy should follow suit. Currently, Italy remains dominated by small individually owned stores. In the apparel field alone, there are 113,000 shops, the largest number of any European country. Overall, large scale distribution such as department stores account for 37% of Italian spending on consumer goods. This figure is expected to rise to 47 % by 2005. Il senso di queste osservazioni puramente quantitative, e insieme la previsione di crescita della grande distribuzione dal 37% al 47% in soli due anni, forse danno l’idea di qualcosa di più radicale. Cfr. i dati del rapporto The rise of Factory Outlets; per maggiori informazioni vedi il sito http://www.infomat.com/research/
[10] Il fortino delle griffe, è il titolo scelto da Il Manifesto per pubblicare una versione abbreviata di questo testo il 5 giugno 2003. Un testo più lungo, sempre sullo stesso argomento dell’Outlet di Serravalle Scrivia è apparso su Urbanistica Informazioni n. 190, per un disguido, il titolo generale “Preludio, miraggi padani” scelto dalla redazione, era solo quello del primo paragrafo. Un errore veniale, ma forse fuorviante per eventuali lettori.
[11] Roberto Almagioni, “Troppo bello per essere vero”, Architetti n. 2, 2000
[12] Barbara Hogan Galvin, Outlet Center Challenge, june 2001, al sito http://www.ICSC.org
[13] Come si comprende leggendo i testi successivi sugli altri villaggi commerciali, la questione delle isocrone e dei bacini d’utenza, pur nella grande dimensione e relativa semplificazione, è comunque complessa se si tiene conto della compresenza di vari operatori in concorrenza. Al punto che, come è ormai verificabile lungo parecchie strade statali dell’area padana, i cartelli nuovi di zecca che pubblicizzano gli outlets appena inaugurati abbondano anche e soprattutto a parecchie decine di chilometri di raggio, e anche e soprattutto nelle immediate vicinanze dell’Outlet concorrente, come lungo la via Emilia e la Statale della Cisa ad annunciare il villaggio Franciacorta, a pochi passi rispettivamente dal parco commerciale “verdiano” di Fidenza e da quello “virgiliano” di Bagnolo San Vito.
[14] Giacomo Morri, Daniela Sanna, “Evoluzione della distribuzione commerciale: il factory outlet”, Dedalo n. 2, 2003
[15] Ilaria Ciuti, “Grandi griffes in trincea”
[16] All’epoca in cui veniva scritto questo pezzo, destinato in prima battuta ad un “consumo” immediato, si dibatteva sul concetto di opinione pubblica come “potenza mondiale”, paragonando le posizioni sul tema della guerra “preventiva” dei decisori politici e del protagonismo sociale di massa diffuso. Si ipotizzava un ruolo nuovo di tale opinione pubblica in un più vasto ambito decisionale. Se ciò sia o meno avvenuto o stia avvenendo, ed eventualmente in quali ambiti, lascio al lettore giudicare.
[17] Questo breve paragrafo è stato scritto come semplice introduzione al link col sito della Regione Piemonte, Settore Commercio, dove era ed è disponibile lo studio di impatto effettuato da un gruppo di lavoro del Politecnico di Torino. http://www.regione.piemonte.it/commercio/osservatorio/serravalle.htm Si riporta qui col medesimo scopo.
[18] Oltre al testo di Richard Longstreth, citato alla nota 5, per una visione di lungo periodo di quanto chiamiamo ora città diffusa faccio riferimento a: Robert Fishman, Bourgeois Utopias. The Rise and Fall of Suburbia, Basic Books, New York 1987. Il termine che meglio descrive soprattutto l’epoca di definizione del modello Factory Outlet moderno, è il “tecnoburbio”. Ho inserito, a uso degli studenti di un corso di Urbanistica del Politecnico di Milano, la traduzione del corrispondente capitolo, al sito http://www.diap.polimi.it/~rrozzi/corsoarch nella sezione “Megalopoli e città diffusa”.
[19] Citazione, giudizi e concetti tratti da http://www.just-style.com
[20] Ce ne sono, ad esempio, di ottime, da parecchi punti di vista e stati di avanzamento dei lavori, disponibili sul sito http://www.parma-italy.com
[21] “A Fidenza nell’outlet all’americana”, Il Corriere della Sera, 5 maggio 2003
[22] http://www.regione.emilia-romagna.it
[23] “In quattromila a Rodengo per la Sabrina nazionale”, Bresciaoggi, 14 settembre 2003
[24] Si tratta di un nuovo gruppo italo-americano: European Fashion Center. Per i particolari societari e i programmi di espansione Cfr. il sito http://www.franciacortaoutlet.it
[25] L’affermazione è di tale Steve Collins, della JHP-Design, consulente “globale” della Fashion District, compagnia con sede a Londra e operativa in tutto il mondo. JHP’s role is to develop concepts for the environmental landscaping, corporate communications (signage trail and wayfinding) as well as the design of department stores at each centre store space. Citazione dal sito http://www.jhp-design.com/news/news.html
[26] http://www.fashiondistrict.it
[27] Supplemento a Il Corriere della Sera, 10 ottobre 2003
[28] http://www.mantovaninelmondo.org
[29] Dati e informazioni in parte disponibili liberamente a: http://www.infocommercio.it Il Dossier consultabile è curato da Luca Tamini, del Laboratorio Urbanistica e Commercio, Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano. La sezione ad accesso limitato contiene schede informative di dettaglio sui singoli casi (operativi e in fase di progettazione o realizzazione).
[30] http://www.comunebagnolosanvito.it
[31] “Sbarca in Italia Prime Retail”, http://www.minervagroup.it
[32] Alessandro Cheula, “Draco a Mantova con un mega-outlet da 80 milioni”, Il Giornale di Brescia, 23 luglio 2002
[33] Sono le limitazioni descritte al Paragrafo 3.3. Analisi della sostenibilità ambientale
[34] http://www.mantovaninelmondo.org
[35] http://www.fashionmagazine.it
[36] http://www.jhp-design.com/news/news.html
[37] Anna Talò, “Qui si vive di sola moda”, Il Giorno, 30 ottobre 2003