La «teoria della finestra rotta» e i vasi comunicanti della sicurezza urbana

Foto E.B. Fisher

Il sacro meccanismo soggettivo della sicurezza percepita, e soprattutto percepita dai ceti dominanti, ce lo raccontano loro malgrado benissimo i due riconosciuti profeti della famosa «teoria della finestra rotta». Perché ci sono zone oggettivamente più sicure quando altrettanto tangibilmente il numero di reati non sta affatto calando, ma invece addirittura cresce. E però quello che va capito e introiettato è cosa in realtà spaventa la gente, ed evidentemente non sono i reati, almeno finché qualcuno non gli salta direttamente addosso da un angolo oscuro. Quindi certo la maggior parte delle persone è effettivamente intimorita dalla criminalità, dalla violenza, dalle aggressioni, dall’improvviso scatenarsi dell’insolito che accade ovunque. Ma non dobbiamo né sottovalutare né tantomeno liquidare come privo di importanza un altro aspetto, che è quello dell’atteggiamento in qualche modo antisociale nei comportamenti, nell’aspetto, negli effetti di alcuni stili di vita e abitudini: la gente teme la diversità, è inquietata da ciò che si allontana dalla sua idea di normalità. Non necessariamente gesti violenti, reati, ma semplici (o meno semplici) comportamenti vistosi, non condivisibili, imprevedibili, che vanno dall’accattonaggio aggressivo all’ubriachezza agli schiamazzi di singoli o gruppi, o semplicemente persone disturbate. Tutte situazioni in cui la pura visibile presenza delle forze dell’ordine in divisa, di pattuglia a piedi, mescolate ai cittadini, comunica sicurezza. Così almeno le premesse di George L. Kelling e James Q. Wilson al loro abusato «Broken Windows. The police and neighborhood safety», sul numero di The Atlantic del lontano marzo 1982.

«Mixed results»

Abusato soprattutto perché, nonostante fosse una sorta di saggio «scientifico», su basi psicologico-comportamentali, per giunta scritto da due persone dichiaratamente portatrici del punto di vista della sola polizia e da una prospettiva altrettanto dichiaratamente interna (organizzativa, sindacale, di legittimazione), le interpretazioni e attuazioni sul territorio, poi, ne hanno travisato il senso. In alcuni casi senza neppure sapere di quale teoria si trattasse, quali percorsi istituzionali e locali avesse seguito, solo che «pare riporti l’ordine» e soprattutto i valori immobiliari. Ed è certamente questa colpevole crassa ignoranza, verificabile addirittura in certe presuntuose dissertazioni reperibili sul web e a loro volta convinte di avere «valore teorico», ad aver prodotto risultati contrastanti, secondo uno schema che qualcuno potrebbe definire a macchia di leopardo. Perché in fondo in fondo si potrebbe anche dire, come fa la sinistra solidale da sempre, che criminalità e sicurezza sono una questione squisitamente sociale, che si risolve con politiche di tipo sociale, pur senza escludere strumentalmente ed episodicamente qualche classica misura di ordine pubblico e uso della forza, praticata o esibita. Lo conferma una qualunque mappa comparata di reati, sicurezza percepita, e dispiegamento della forza pubblica in una area urbana: non esiste alcun verificabile rapporto tra quelle «politiche della finestra rotta» e il recupero di abitabilità di un quartiere, le cose vanno per conto loro, o sembrano andare così, in un modo o nell’altro, un po’ come capita.

Una dose fissa di insicurezza e reati da diluire

Diciamo pure che, come in fondo implicitamente ammettevano anche i due studiosi di psicologia e organizzazione delle forze dell’ordine, non esiste né strumento repressivo né peraltro prevenzione che tenga, salvo una sorta di «riduzione del danno»: pare esserci una sorta di massa critica dei reati fissa, su cui è sostanzialmente ragionevole effettuare una sorta di diluizione o spostamento. Qui si intrecciano e scontrano le declinazioni progressiste o di sinistra, e neoliberali e di destra. Quella più nota e che appunto prende il nome improprio e pasticciato di «politiche della finestra rotta», è decisamente di destra, e vuole come spesso si dice ripulire i quartieri dal senso di insicurezza. Lo fa coi soliti strumenti: pattuglie, varie forme di «esibizione dei muscoli pubblici», a cui seguono man mano aumenta la sicurezza percepita che era il primo obiettivo, le azioni individuali e private, di solito di tipo economico oltre che comportamentale. Dall’apertura di nuovi negozi, al trasloco di famiglie che prima non si sarebbero mai sognate in zona, a grandi o striscianti trasformazioni urbanistiche. Inutile ricordare come questo processo è quanto oggi in un modo o nell’altro viene indicato come gentrification, e a cui corrisponde una delocalizzazione e dispersione (o riconcentrazione) del medesimo disagio che prima generava insicurezza locale. Mentre un approccio progressista e attento a queste forme di vasi comunicanti urbani, evita sia il puro spostamento che la pura repressione, pur senza rinunciare di per sé al dispiegamento delle forze dell’ordine. La vera differenza sta nella coscienza di affrontare i comportamenti antisociali di varia gravità in quanto tali, riducendone gli impatti negativi (dal senso di insicurezza alla manifestazione vera e propria in reati gravi), anziché privilegiare una zona a spese di un’altra come avviene nei classici processi di gentrification pilotata e spinta da questioni di degrado anche sociale. Stupisce piuttosto lo stupore degli osservatori, quando notano come le dinamiche di manifestazione del disagio siano così variabili in luoghi che hanno caratteristiche apparentemente simili. Magari smetterla di fare gli sbirri dilettanti, e peggio ancora applicare «teorie» ignote e comunque schematiche alla complessità urbana, aiuterebbe a superare tanti equivoci.

Riferimenti:
Sara Burnett, Larry Fenn, Urban killings rise in clusters as many areas grow safer, AP News, 21 dicembre 2017

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