La tragedia del rinnovo urbano (1966)

Se il racconto di Robert Moses sulla “riqualificazione urbana” attraverso la “eliminazione dello slum” in stile razionalista sembra restituire un processo tutto virtuoso di modernizzazione, in cui gli ostacoli sono solo burocrazia, interessi particolari, o pura diffidenza al nuovo, vedere le cose dal lato dei veri e propri sfollati, a colpi di ruspa e carta bollata, chiarisce meglio la questione. Ovvero sino a che punto l’idea di quartiere definita non molto tempo prima negli studi sociali di Clarence Perry sia stata del tutto stravolta dagli architetti, artefici e vittime di una razionalità del tutto astratta. Ovvero che non tiene asslutamente conto della materia viva costituita dalla società locale, dall’intreccio fra spazi e relazioni, che non a caso negli stessi anni sta al centro delle prime riflessioni di Jane Jacobs.

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Il tessuto originario dell’area di di Stuyvesant Town – da: S. Zipp, Manhattan Projects (Oxford University Press, 2010)

Mi sono trasferito nel Lower East Side la primavera del 1961, e sono rimasto immediatamente colpito dalla condizione delle abitazioni. Gran parte degli isolati erano composti da strette case in affitto da cinque piani, ciascuna con dieci-venti famiglie. Gli edifici sono schiacciati l’uno contro l’altro, e strabordano sul marciapiede. Sono chiamati “ old-law tenements” perché costruiti nel secolo scorso, prima che una nuova legge edilizia fissasse le regole riguardanti le distanze, la ventilazione, le tubature. Si chiamano anche “ walk-ups” perché non hanno l’ascensore. Sono stati fatti per viverci in modo economico e sovraffollato, e sono serviti come punto di partenza per ogni nuova ondata di nuovi immigrati che sbarcava sulla nostra costa orientale. Ecco il motivo per cui il Lower East Side è tanto cosmopolita. I gruppi immigrati si ammassavano in ghetti e affrontavano tutte le ben note difficoltà di essere i reietti, prima di riuscire ad inserirsi nellamainstream della vita americana. Ma si lasciavano sempre delle tracce alle spalle, e il Lower East Side conserva una spruzzata di vari gruppi etnici: italiani, irlandesi, ebrei, polacchi, ucraini, tedeschi, cinesi, neri, e gli ultimi arrivati portoricani, il nostro gruppo più consistente, che costituisce oltre un terzo della popolazione del Precinct Nine, dove abito. Questo quartiere copre solo un paio di chilometri quadrati, ma vanta oltre centomila abitanti.

Le strade sono molto affollate, piene di gente quando il tempo è caldo. Sono anche sporche. Portano sempre tracce di spazzatura che non ce l’ha fatta ad arrivare ai malridotti bidoni, o ai camion della rimozione. Qualche volta sembra che sia la gente che i rifiuti siano traboccati fuori dai casamenti, e in un certo senso è proprio così. Gran parte delle case non sono tenute in modo adeguato, anche se all’interno le condizioni variano di parecchio. Due edifici l’uno di fianco all’altro possono apparire identici visti dalla strada. Dentro, uno è relativamente ben tenuto, mentre l’altro vi aggredisce con il puzzo di orina e altri odori. L’intonaco è scrostato, le scale malferme, ci sono parolacce oscene grattate e scarabocchiate sulle pareti. Anche gli appartamenti possono essere attraenti e abitabili, oppure deprimenti, a seconda dell’intenzione del proprietario e delle possibilità degli abitanti.

Le case popolari pubbliche per inquilini a basso reddito ospitano circa 15.000 persone nella zona orientale del quartiere lungo l’East River. A nord c’è un enorme complesso per abitanti a reddito medio, di proprietà e gestito dalla Metropolitan Life Insurance Company, che però è separato dal resto sia dall’opulenza che dalla Quattordicesima Strada, arteria larga e trafficata. Gran parte degli edifici nella zona povera sono solidi strutturalmente, ma sono frequenti le violazioni ai regolamenti edilizi: tubature difettose, mancanza di riscaldamento, topi ecc. Queste violazioni passano inosservate, perché quello degli edifici degradati è diventato un affare lucroso. Per una serie di motivi, il modo per guadagnare su questi edifici è di possedere molti appartamenti, investire il meno possibile in manutenzione, e lasciar salire gli affitti al massimo possibile consentito dal sistema di controllo di New York. Dato che ai proprietari di casa è permesso un incremento automatico del 15% ad ogni cambio di inquilino in un appartamento, può essere conveniente incoraggiare una rapida rotazione di occupanti, e i proprietari senza scrupoli hanno i loro metodi per farlo, talvolta attraverso le minacce dirette.

Naturalmente esistono leggi che richiedono requisiti minimi rispetto alla manutenzione di un edificio, ma vengono raramente applicate. Prima di tutto, l’inquilino deve compilare un modulo ufficiale di protesta indirizzato all’amministrazione, e spesso non sa come inoltrarlo, o teme ritorsioni dalla proprietà. Secondo, se si inoltra un reclamo, diciamo all’Ufficio Edilizia, possono passare uno o due anni prima che arrivi un ispettore a verificare la violazione denunciata, dato che il personale è inadeguato e c’è sempre un enorme arretrato di domande. Se l’amministrazione accusa un proprietario di violazione, questo deve prima essere trovato perché lo si possa convocare. In gran parte si tratta di proprietari irreperibili, e alcuni sono dei veri esperti a sfuggire al tribunale. Un articolo di giornale, datato agosto 1962, racconta di un proprietario di Long Beach, Long Island, ricercato dall’amministrazione per tre anni. Alla fine gli è stato consegnato il mandato, nei gabinetti del suo ufficio, da incaricati del tribunale che si erano nascosti lì ad aspettare per sessanta ore.

Anche quando il proprietario è convocato davanti alla corte, abitualmente non deve preoccuparsi troppo perché la sanzione è mite: una specie di autorizzazione a violare la legge. Un padrone che paga una multa di 85 dollari per un edificio con 100 violazioni si può giustificatamene ritenere premiato dal una soluzione del genere. E se viene obbligato a spendere soldi per rimediare a queste violazioni, di solito possiede decine o centinaia di altri edifici per recuperare di parecchie volte queste perdite. Ma sarebbe comunque un errore, isolare la sola proprietà e addossare ad essa tutte e colpe, ignorando le banche che la sostengono, il sistema politico, che risponde molto più agli interessi immobiliari che non alle sofferenze umane, o la nostra apatia, che consente che ciò accada. Un giornalista una volta mi ha detto: “Ai padroni di casa bisognerebbe dare una medaglia. Sono gli eroi, in questo caos delle abitazioni. Eroi, perché si offrono alla società come capri espiatori. Diamo a loro la colpa di tutto, e ci sbarazziamo della nostra, del consentire a questa situazione di esistere”.

La situazione generale era grave a sufficienza da far concludere al nuovo arrivato o al visitatore del nostro quartiere che i caseggiati avrebbero dovuto essere rasi al suolo, per realizzarne di nuovi il più presto possibile. Io non facevo eccezione. Nel luglio del 1961, soltanto qualche mese dopo essermi trasferito nel Lower East Side, mi fu chiesto di partecipare a un incontro di rappresentanti dei quartieri. Ci fu comunicato che l’amministrazione aveva individuato un’area su tre isolati, chiamata Tompkins Square Housing Site, adatta a una operazione di urban renewal. Era composta in gran parte da vecchi e piccoli fabbricati di tipo industriale, con solo 165 appartmenti. Era presente una rappresentante dello Housing and Redevelopment Board (HRB) municipale, a sollecitare la partecipazione dei leaders locali nell’elaborare un piano adeguato per quegli spazi.

Devo ammettere che rimasi impressionato dall’atteggiamento di questa funzionaria HRB verso il nostro quartiere. Chiariva come la “partecipazione dei cittadini” fosse uno dei requisiti federali da rispettare da parte della città per ottenere i fondi dello urban renewal. L’amministrazione voleva capire cosa la gente del quartiere volesse e avesse bisogno. A spiegare quanto i poveri manchino di “sagacia” politica, scoprii più tardi che il 1 maggio, insieme all’annuncio del progetto di urban renewal per la zona di Tompkins Square, il presidente della City Planning Commission annunciava contemporaneamente anche un piano simile dall’altro parte della città, nello West Village. La reazione delle due comunità non fu la stessa. Lo West Village tuonò immediatamente il proprio disaccordo rispetto alle intenzioni dell’amministrazione, e con la guida di Jane Jacobs, della Village Voice, e di numerosi portavoce influenti, praticamente inondò il Board of Estimate di proteste. Il progetto fu accantonato. Contemporaneamente, da noi ci fu solo silenzio. Non sapevamo nemmeno costa stava succedendo. Anche a seguito dell’opposizione nel West Village, l’Housing and Redevelopment Board era molto attento a intrattenere relazioni il più lisce possible col nostro quartiere, e così pensò di organizzare l’incontro per la partecipazione dei cittadini.

Da qui, si formò il Tompkins Square Housing Committee, che iniziò a tenere assemblee pubbliche. Si riconosceva il bisogno di un rinnovamento, e venne interpretata letteralmente la chiara volontà dello HRB per la partecipazione del quartiere. In modo molto naïve ci fidammo delle assicurazioni dei funzionari, che si sarebbe sviluppato un onesto dialogo fra il quartiere e l’amministrazione municipale. Un dialogo che non avvenne mai. Dapprima ascoltammo gli esperti di abitazioni che ci spiegavano le varie possibilità aperte per noi. Contemporaneamente, cinque membri del nostro comitato incontravano gli abitanti nell’area interessata dal progetto, raccogliendo informazioni tra cui:

Gli inquilini pagavano un canone medio mensile di 36,50 dollari per appartamento, o una media di 10,08 dollari per stanza.

Quasi la metà degli appartamenti risultava sovraffollata.

Metà dei nuclei familiari avevano un reddito inferiore a 3.000 dollari l’anno.

Circa tre quarti degli inquilini dichiaravano che avrebbero abitato nei nuovi appartamenti, a condizione che gli affitti fossero sufficientemente bassi.

Poi Robert Dennis, membro del nostro comitato e urbanista (non dipendente dell’amministrazione municipale), insieme a un altro urbanista e a un architetto, costituì un gruppo per eseguire una verifica edificio per edificio, non solo sui due isolati dell’intervento ma anche su altri otto adiacenti e immediatamente a ovest. Ciascun fabbricato venne classificato secondo le tre categorie: (1) strutturalmente validi e senza particolari necessità di interventi; (2) strutturalmente validi ma con bisogno di adeguamenti al regolamento edilizio e di igiene; infine (3) edifici degradati da demolirsi entro dieci anni. I risultati mostravano che quasi tutti i fabbricati, sia all’interno che all’esterno dell’area del proposto intervento, rientravano nella categoria (2).

Grazie a queste informazioni fummo in grado di elaborare una proposta che si basava sulla seguente logica:

1 – Riconoscendo che gran parte degli abitanti l’area di intervento e quelle adiacenti aveva un reddito molto basso, si chiedeva che le nuove abitazioni, pur comprendendo alloggi per redditi medi, fossero costruite principalmente sulla base di affitti che i residenti potessero permettersi

2 – Gran parte degli appartamenti negli isolati del progetto erano situati in due gruppi di edifici in un angolo. Dato che molti inquilini avevano redditi così bassi da non poter affrontare nemmeno gli affitti delle case pubbliche (allora proposte a 16-18 dollari per stanza), o per vari altri motivi erano esclusi dalle graduatorie, chiedevamo all’amministrazione di ridefinire i confini dell’intervento, escludendo questi edifici dal progetto. L’offerta di case per redditi bassi è tragicamente ridotta, e ritenevamo un errore sprecarla così senza necessità assoluta.

3 – Chiedevamo di considerare il sito non a sé, ma in rapporto agli isolati circostanti, in modo tale che il programma di rinnovo potesse diventare la prima fase di una serie di interventi per migliorare e sostituire abitazioni senza spostare un grosso numero di abitanti dal quartiere.

4 – Suggerivamo che il processo di rinnovo, nelle sue varie fasi, non spazzasse via con le ruspe interi isolate, ma usasse criteri più selettivi per conservare gli edifici più abitabili e realizzarne dei nuovi, comprese magari abitazioni in linea in apposite zone “a tasca”.

Nonostante gli ostacoli del poco personale, tempo e fondi a disposizione, riuscimmo a raccogliere un ampio consenso per la nostra proposta nel quartiere. Il nostro consiglio di quartiere, il settore abitazioni della LENA (Lower Eastside Neighborhoods Association), i gruppi dei portoricani e delle associazioni per i diritti civili, insieme ad altri gruppi locali, sostenevano il progetto, ed era chiaro il favore con cui era accolto anche da altre persone prive di una voce istituzionale. Anche la sezione locale dei Democratici, feudo di Tammany Hall, ci promise un sostegno: più tardi ritirato, probabilmente su pressione del comune. Emergeva già chiaramente come lo HRB, se era pronto a riempirci di tutte le informazioni generali riguardo alle procedure, non manifestava alcuna volontà di uno scambio di idee sui contenuti. Ci incontrammo con Milton Mollen, presidente HRB, e coi componenti del comitato, in parecchie occasioni, e fummo sempre accolti con cortesia. Ma non avevamo alcuna idea di cosa gli urbanisti del comune stessero progettando per conto dello HRB, né ci veniva consentito accesso alle loro discussioni. Come ci dichiarò il responsabile del progetto per HRB in un incontro dell’agosto 1962, i tecnici non volevano gente del quartiere “che ci sbircia da sopra la spalla”.

Negli uffici centrali dello HRB il presidente Mollen presentò nel dicembre 1962 quella che dichiarò essere non un’idea preliminare, ma “la bozza del piano finale”. Ignorava le priorità urgenti segnalate dal quartiere, proponendo invece un insediamento omogeneamente per redditi medi, con 900 unità, affitti da 30 dollari per stanza, e con la possibilità di ridurne fino al 20% a 18 dollari stanza: comunque ancora fuori portata per la maggior parte degli abitanti. Mollen sottolineava come HRB volesse accelerare al massimo con Washington per una approvazione rapida.

Il 10 gennaio 1963, si tenne un incontro pubblico alla Public School 61 sulla Dodicesima Strada Est. Era invitato tutto il quartiere, per una presentazione di entrambi i progetti su base paritaria. Il presidente HRB Mollen e i suoi tecnici rappresentavano l’amministrazione. Ad ascoltare le descrizioni e fare domande, quasi 300 persone (un risultato fenomenale, per il nostro quartiere), dopo di che fu approvata una mozione di base di sostegno al piano del quartiere contro quello dell’amministrazione, con soltanto quattro voti contrari, anche se senza dubbio c’erano presenti altri dissidenti. L’orientamento della comunità non avrebbe potuto essere più evidente, ma anche questo non suscitò alcuna sensibilità da parte della HRB a discutere le gravi discrepanze. HRB continuo ad utilizzare le enormi risorse e personale a sua disposizione per trovare sostegni al proprio progetto, anche di fronte ad un chiaro sostegno del quartiere per quello alternativo. Lo fecero principalmente contattando e sollecitando una serie di gruppi, in gran parte con riferimento alla zona a nord della Quattordicesima Strada, e che di conseguenza erano propensi a favorire un insediamento di ceti a reddito medio ad elevare il tono dell’area.

Tutto questo mi colpì, in quanto attacco a bisogni e interessi di persone che avevano tanto da perdere, ma avevano poco peso politico. Era di scarsa consolazione il fatto che la nostra esperienza non fosse isolata, ma si inserisse in un quadro che interessava altri quartieri in tutta la città. Gran parte dell’opposizione veniva da uomini benintenzionati, che sembravano incapaci di mettersi nei panni dei nostri vicini. Dopo ripetuti inviti, il responsabile dell’ufficio esecutivo della HRB accettò di fare un giro in zona e visitare alcuni appartamenti insieme a noi. Andammo da una anziana signora ebrea che ci mostrò la sua casa. Tutto lì appariva vecchio, ma pulito e ben tenuto. “Non è una meraviglia” spiegò, “ma è casa mia. Dove altro dovrei andare?”. Continuammo a parlare per un po’, giù per le scale fino all’ingresso, ma la cosa che sembrava colpire di più il funzionario era un bidone della spazzatura nell’atrio, e uno scarafaggio che strisciava su per il muro rischiando di cadergli sulla spalla. Parecchie volte i funzionari HRB si erano scagliati con indignazione contro gli “slum infestati da topi e scarafaggi”, che volevano eliminare. Era un argomento, e abitando in condizioni parecchio migliori, probabilmente parlavano di qualcosa in cui credevano onestamente; ma sembrava non riuscissero a vedere le cose attraverso gli occhi di quei poveri, a capire che anche avere solo uno spazio vecchio e piccolo, è sempre meglio che non averne nessuno. Né nessuno di loro riusciva a suggerire un modo per alloggiare i poveri a cui la casa veniva tolta dal progetto di urban renewal, salvo stiparli dentro a case per redditi bassi la cui quantità era già in diminuzione.
Questo riassume la critica principale contro lo urban renewalcome è pensato oggi: ovvero che di solito distrugge le case per chi ha un basso reddito, e non le sostituisce, dato che in sostanza si rivolge ai ceti a reddito medio. Al netto, il risultato è che lo slum semplicemente si sposta e si diffonde. Per ognislum distrutto, a New York se ne creano altri due.

Come ci confermarono ripetutamente alti funzionari dello HRB, ammettendolo anche in qualche occasione in forma pubblica, il terzo di popolazione senza nessun posto dove andare è quello con redditi inferiori a 4.000 dollari l’anno, esattamente quei cittadini i cui bisogni vengono scavalcati in questa avventura dello urban renewal. Gli stessi funzionari ammettevano con identico candore di non aver alcuna soluzione al problema della casa per i redditi inferiori. Un’onestà che colpiva, ma al tempo stesso non offriva alcuna via d’uscita. I tecnici spiegavano le necessità della casa per le famiglie a reddito medio di Manhattan chiedendoci di considerare la città nel suo insieme, non soltanto il nostro quartiere. Non si può negare, il bisogno della città per una offerta più adeguata di abitazioni rivolte a chi ha un reddito medio, e paga più tasse. Ma quando questo bisogno assume costantemente priorità rispetto ad altri evidentemente più urgenti, e li scavalca sbrigativamente, si capisce come l’argomento possa essere poco persuasivo. C’è poco da ridere, per i poveri. In ultima analisi, si dimostra ancora una volta di lavorare in termini di welfare state a tutto beneficio del cantato ceto medio, e di interessi come quelli immobiliari e del settore edilizio, che da queste operazioni maturano immensi profitti.

Un altro aspetto che ci preoccupava profondamente era la discriminazione contro neri e portoricani, a cui l’operazione diurban renewal si affiancava. Non è per cattiva comprensione, ma per le conseguenze subite, che qualcuno ha chiamato i progetti di rinnovo urbano “rimozione urbana” o “rimozione dei neri”. Dato che il nostro sistema di discriminazione ha spinto a forza neri e portoricani dentro a slum e ghetti, essi si ritrovano ad abitare esattamente nelle aree che la città individua come degradate e oggetto di operazioni di urban renewal. L’Ordine esecutivo del Presidente Kennedy del 20 novembre 1963, abolendo la discriminazione nelle abitazioni a finanziamento federale, ha posto fine (almeno legalmente) alla pratica di rifiutare l’affitto a neri o altre minoranze per motivi etnici o razziali. Ma non sono mai state queste le forme principali di discriminazione nel quadro del rinnovo urbano. La forma principale era quella economica, perché sgombrava gli appartenenti alle minoranze (nel nostro caso portoricani) che non erano in grado di pagare l’affitto nella nuova edilizia. E dunque nel Lower East Side, che è contemporaneamente misto dal punto di vista razziale e predominantemente a basso reddito, l e migliaia di abitazioni per redditi medi prodotte dallourban renewal praticamente non hanno alcun occupante nero o portoricano. I progetti sono diventati uno strumento per conferire “equilibrio” all’area, anziché per produrre isole di squilibrio. Il nostro comitato era comprensibilmente preoccupato per il proseguimento di questo processo.

Ho già spiegato che lo HRB fu in grado di assicurarsi il sostegno di gruppi (compresa una chiesa e parecchie sinagoghe) i cui dirigenti abitavano a nord della Quattordicesima Strada. Due si collocano in un’altra categoria, e meritano menzione particolare. Uno era il comitato direttivo delLENA. Il nostro consiglio di quartiere, uno dei quattro che costituiscono il LENA, sosteneva il progetto contrario a quello dell’amministrazione cittadina. Lo stesso faceva la Housing DivisiondelLENA. Ma il comitato direttivo di questo organismo è dominato da persone che possono essere classificate rappresentanti gli interessi delle cooperative a reddito medio e altre attività della zona sud-orientale del Lower East Side. Favoriscono in generale le abitazioni rivolte ai redditi medi invece di quelle per i più bassi. Strutturato in modo che il potere emani dall’alto verso il basso, e non viceversa, il LENA spiega bene come i portavoce dei poveri tendono ad essere persone che non li rappresentano in modo adeguato.

Piuttosto simile il sostegno al progetto HRB da parte del presidente del comitato urbanistico di zona per il Lower East Side. Questo organismo ha soltanto poteri consultivi, ma in quanto gruppo di leaders che apparentemente rappresenta gli abitanti dell’area, la sua opinione è di qualche peso. Anche più del LENA, questo comitato è sotto il controllo di interessi politici, commerciali e delle abitazioni per i redditi medi (in alcuni casi ci sono persone che siedono in entrambi gli organismi). Fui nominato in questo organismo, mi spiegarono, per dargli “equilibrio”, ma non c’era alcun equilibrio. Ancora un volta i poveri erano chiusi in trappola. Quando lo HRB rese pubblica la sua “bozza di progetto definitivo” e iniziò a cercare consenso sullo schema, non si parlava più in alcun modo di dialogo con la città. I tecnici proseguivano l’iter. Il presidente di circoscrizione venne a sorpresa a farci visita in parrocchia, ma era per spiegare, non per ascoltare. Robert Dennis (il nostro urbanista) ed io, scoprimmo di una piccola concessione nel maggio 1963, in un incontro finale con presidente e membri del comitato HRB (la proposta di comprendere 200 alloggi con un canone ribassato sino a 18-20 dollari a stanza), ma è piuttosto difficile chiamare questa cosa un dialogo. Di conseguenza, non ci rimase altra alternativa se non opporci al progetto dell’amministrazione. Eravamo in contatto con Robert C. Weaver e i funzionari della Housing and Home Finance Agency, per protestare in particolare sul fatto che la città non aveva seguito le procedure richieste di partecipazione. La risposta fu che il Citizens Advisory Committee del sindaco aveva esaminato e approvato il piano HRB, quindi erano state rispettate le procedure legali. Era la prima volta che sentivo nominare quel Comitato. Nemmeno loro, probabilmente, avevano mai sentito parlare di noi, che non avevamo di sicuro avuto occasione di presentar loro le nostre idee. Dopo tutte le promesse sulla partecipazione dei cittadini che ci aveva fatto lo HRB, un piccolo gruppo scelto di persone, tutte lontane dal nostro quartiere, improvvisamente diventava un legittimo strumento di partecipazione. Ci sentivamo vittime di un processo di manipolazione dei cittadini.

Ci opponemmo allo HRB nelle pubbliche udienze in Municipio davanti alla City Planning Commission e al Board of Estimate. Riuscimmo ad avere più interventi dei nostri avversari; e se gli intervenuti residenti fuori da quartiere fossero stati esclusi, la nostra forza si sarebbe mostrata molto più esplicita. Abbiamo perso. Ma riuscimmo a dare all’amministrazione un brutto momento, e a ribadire almeno un concetto: erano i poveri ad essere la questione principale nella costruzione di case, non l’ultima. Più tardi, nel 1965 fu annunciato dallo HRB che la quantità di alloggi a canone contenuto, finanziati ai sensi del Paragrafo 221-d-3 del National Housing Act, veniva aumentata da 200 a 370 – anche se con fitti medi stimati a 26,50 dollari per stanza. Secondo questa procedura, un appartamento di una camera era proposto in affitto a 106-111 dollari al mese, spese escluse.

Il rapporto di Stuyvesant Town con l’area a sud della Quattordicesima Strada è un classico esempio moderno di come ci si accanisca sui poveri attraverso le abitazioni, perché si tratta di persone spendibili politicamente. Stuyvesant Town copre diciotto isolati urbani, e ospita 22.405 persone, secondo il censimento del 1960. Fino alla fine della seconda guerra mondiale quegli isolati erano un prolungamento delle vecchi e degradati casamenti in affitto a sud della Quattordicesima. Ci sono fattori economici, razziali, e reciproci sospetti a separare chi abita a nord e a sud di quella strada. Chi vive a Stuyvesant Town di solito non ama andare a sud a far spesa, visite o in chiesa. Non molti fra loro mandano i figli a scuola a sud della Quattordicesima Strada, iscrivendoli invece a quelle molto ma molto superiori a ovest del quartiere. Sono spaventati e disgustati da quello che vedono, a sud della Quattordicesima. C’è un giornalino locale che circola in tutti gli appartamenti di Stuyvesant Town, e che soffia su queste paure drammatizzando gli aspetti più sordidi della zona dei casamenti, raccontando a grandi titoli dei giovani teppisti e criminali della zona sud che assalgono e derubano la gente di Stuyvesant Town. D’altra parte, le persone che stanno a sud della Quattordicesima non conoscono i propri vicini a nord. Non sono i benvenuti a circolare per le strade o i campi da gioco di Stuyvesant Town perché è proprietà privata, controllata da guardie in uniforme. Qualche volta ci si riferisce alla Quattordicesima Strada chiamandola la Barriera. 

Originariamente, in quegli isolati nel 1940 abitavano circa 15.000 persone. In gran parte povere. Nel 1943, attraverso una nuova legge statale e un contratto con l’amministrazione comunale, la Metropolitan Life Insurance Company acquisì i terreni a un prezzo drasticamente ridotto. La città sosteneva la perdita in cambio di un successivo aumento delle tasse immobiliari. Arrivarono le ruspe, e furono evacuate migliaia di famiglie. Non ce ne fu praticamente nessuna che andò ad abitare nelle nuove case, completate fra il 1947 e il 1949.

La Metropolitan Life costruì Stuyvesant Town bianca e middle class, secondo una forte tendenza a creare una comunità di tipo suburbano a Manhattan, una città non-città. Secondo lo spirito degli anni ‘40, si praticava apertamente una discriminazione nei confronti dei neri, finché la pressione del consiglio municipale costrinse la Metropolitan Life ad ammettere tre famiglie nere, nel 1950. Un’ordinanza approvata l’anno successivo rese illegale la discriminazione in questo tipo di complessi edilizi. Ma ancora nel 1960 secondo il censimento – dieci anni dopo che Stuyvesant Town aveva accettato l’integrazione – su un totale di 22.045 persone soltanto 47 erano nere, un misero due per mille. Se si aggiungono i 16 portoricani, si alza la percentuale di integrazione a quasi il tre per mille: tre abitanti neri e portoricani su ogni mille residenti!

Con la costruzione di Stuyvesant Town accaddero parecchie cose. Primo, migliaia di persone, in gran parte poveri, dovettero abbandonare la zona. Il cancro dello slum si diffuse altrove. Secondo, I nuovi alloggi non erano soltanto stratificati economicamente, ma anche restrittivi in senso razziale. Ma c’era molto altro in gioco, perché l’ingiustizia ha un suo modo di espandersi in tutte le direzione. Pensiamo alla scuola. Sin dagli ultimi mesi del 1963, quando l’annosa richiesta per scuole più integrate e di maggior qualità a New York sembrò indicare la possibilità di un maggior scambio di alunni in entrambe le direzioni dalla Quattordicesima Strada, la reazione dei genitori di Stuyvesant Town e in genere dell’area a nord fu furibonda. Nel corso di assemblee pubbliche molti abitanti parlarono in modo sprezzante della situazione al di sotto della Quattordicesima, difendendo indignati la santità della scuola di quartiere. Se un complesso come Stuyvesant Town esclude sistematicamente le persone, se gli abitanti di questo complesso si autoesimono da qualunque responsabilità nei confronti della miseria di vicini di cui hanno invaso gli spazi, è giusto dare la colpa agli esclusi, di una situazione caratteristica dei ghetti sovraffollati? O essere sorpresi perché neri o portoricani o altri vogliono disperatamente interrompere questo orribile stato delle cose? Si potrebbe anche chiedere quale prezzo, alla fine, paghino gli abitanti di Stuyvesant Town in termini di valore morale, per il fatto di abitare in un ghettomiddle-class. Quello che vediamo succedere a Stuyvesant Town è esattamente la medesima fuga dalla realtà rappresentata dagli insediamenti suburbani.

A differenza di quanto avviene a sud della Quattordicesima, Stuyvesant Town ha un peso politico. In termini di risorse finanziarie, organizzazione, capacità di esprimere i propri bisogni, gli abitanti di Stuyvesant Town hanno un ascolto sproporzionato all’interno dei processi decisionali, come ha dimostrato la capacità di bloccare qualunque adeguamento nelle scuole.
Sui margini orientali del Precinct Nine c’è una larga striscia di case pubbliche per famiglie e basso reddito (i complessi delle Jacob Riis e delle Lillian Wald) con una popolazione totale di circa 15.000 abitanti. La cifra comprende quantità circa identiche di inquilini neri, portoricani e caucasici. Gli affitti oscillano dagli 11 ai 18 dollari per stanza al mese, in questi due complessi, a seconda del reddito, degli abitanti a carico per famiglia, e di altri fattori. I complessi Jacob Riis e Lillian Wald da un certo punto di vista rappresentano una certa forma di discriminazione contro i poveri, anche se sono stato ovviamente concepiti e vengono gestiti a vantaggio delle famiglie a basso reddito.
Per molti, le abitazioni pubbliche rappresentano l’unica scelta di casa decente, e chi critica le case popolari non dovrebbe dimenticarlo. Al momento attuale esiste un arretrato di 120.000 richieste per case pubbliche nella città di New York. Solo il 10% dei richiedenti ottengono ogni anno l’assegnazione. Qualcuno non fa nemmeno domanda perché non può permettersi gli affitti minimi, e altri non ne hanno diritto per motivi come figli illegittimi o presenza di criminalità all’interno della famiglia.

Da un certo punto di vista il settore della casa pubblica è malato. Lo è principalmente perché ammucchia insieme le famiglie a basso reddito entro un solo ambito economicamente segregato (spesso anche dal punto di vista razziale). Non c’è niente di implicitamente malvagio nel fatto che le persone povere abitino insieme. La cosa diventa sbagliata, però, quando essi vengono sistematicamente esclusi dall’abitare insieme agli altri, e quando 15.000 persone sono legalmente penalizzate sottraendo loro le famiglie di maggior successo economico, con la loro capacità di esercitare leadership. Ciò accade perché per avere diritto alle case pubbliche non si deve guadagnare più di uno specifico reddito (a seconda delle dimensioni della famiglia ecc.). Quindi i più stabilizzati e utili residenti in questi complessi – esattamente chi è meglio posizionato per contribuire a realizzare un senso comunitario – vengono costantemente espulsi.

Il risultato più evidente di questa situazione delle abitazioni pubbliche è che i complessi tendono ad essere invasi dalloslum. Gli inquilini devono prendersi il pro e il contro, perché i complessi diventano segnati a dito, e gli abitanti si sentono un po’ meno umani perché vivono lì dentro. Si instaura lo scoraggiamento. Ma c’è anche un risultato meno evidente, di questa strategia di sfratto della leadership dalle case pubbliche. Politicamente, ai poveri vengono sottratti i migliori portavoce e organizzatori. Quando questi inquilini intraprendenti se ne sono andati, non ci si può aspettare che mantengano per forza una partecipazione rispetto alle sofferenze un tempo provate; e anche quando lo fanno, di solito sono troppo lontani per far qualcosa. Una delle conseguenze è che i poveri, tenuti isolati e con la visibilità politica ridotta a un sussurro, vengano facilmente scavalcati nel momento in cui si prendono le decisioni.

Isolati dentro a ghetti di miseria, abbandonati dai poveri di ieri che ora conducono esistenze separate nei nuovi ghetti middle-class, i molto poveri si trovano al di fuori di qualunque filone di pensiero e strategia. Come Sansone, sono stati privati della propria forza, e abbandonati a far girare la ruota. E spesso non consentiamo loro nemmeno questa dignità. [Nota: nell’ottobre 2006, il complesso di Stuyvesant Town e quello confinante del Peter Cooper Village, sono stati venduti per una cifra record a un privato. Si teme diventino case di lusso (f.b.)].

Titolo originale: New Yorkers Without a Voice: A Tragedy of Urban Renewal, The Atlantic, aprile 1966 – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Vedi anche, qui su La Città Conquistatrice, Robert Moses, Slum e rinnovo urbano (1945)

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