È di qualche interesse un recente articolo piuttosto sarcastico di Bruce Sterling, sul tormentone Smart City, tutto abbastanza giustamente orientato ad argomentare la del resto nota tesi, secondo cui dietro a quel fascinoso marchio quasi sempre altro non si nasconde che l’alleanza commerciale-politica tra chi vuol fare business tecnologico, e chi decide le sorti delle nostre metropoli privo di strategie di adeguato respiro, delegandole in tutto o in parte alle magnifiche sorti del libero mercato. Ne deriva che quell’aggettivo Smart poi non si applichi affatto a una idea di città qualsivoglia, ma a piccoli e medi segmenti di gestione, di solito assai specializzati e non troppo avanzati come obiettivo sociale e spaziale, utili a guadagnarsi visibilità, relazioni, insomma tutto dentro un gioco claustrofobico tra politica e attività economiche, non necessariamente illecito e neppure in sé scorretto, ma lontano di sicuro da quegli scintillanti orizzonti futuribili con cui di solito quei progetti si propongono al pubblico e agli operatori.
Urbanista chi era costui?
Un passaggio iniziale chiave suona alla lettera: «Smart è una fantasiosa etichetta politica usata da un’alleanza contemporanea tra urbanisti di sinistra e imprenditori tecnologici. Definirsi smart, intelligenti, è solo un modo per far apparire stupidi quelli che credono nelle forze di mercato e i nimby». Poche battute che però necessitano di qualcosa di più che non una traduzione dall’inglese all’italiano come quella proposta dalla nostra rivista. Partiamo dal fondo, dove si citano il libero mercato e i comitati locali contrari alle trasformazioni urbane: qui Sterling si riferisce a una diatriba molto vivace negli Usa, che riguarda nello specifico l’urbanistica individuata come ostacolo burocratico ad una adeguata risposta al problema della casa: i liberisti dicono che basterebbe abolire lo zoning (simbolo di espressione dell’urbanistica) e i comitati vorrebbero invece mantenere lo status quo di certi azzonamenti storici a loro favorevoli. Qui entrano in campo i nominati urbanisti di sinistra e i loro alleati che secondo Sterling salverebbero capra e cavoli con la classica scappatoia «il problema è un altro», mettendosi a parlare di reti, efficienza, gestione dei dati, ovvero di cose apparentemente senza rapporti con i problemi concreti come quello della casa. Ma il traduttore italiano anche per carenza di efficaci alternative ci propone un termine, «urbanista», che non corrisponde affatto a ciò che intendeva l’ex guru del cyberpunk Sterling parlando di planners. Dalle nostre parti, se chiedete poi a chiunque di descrivervi un urbanista, in pratica vi dirà un architetto che guarda su ampie prospettive.
L’urbanista cyberpunk postmoderno
E non è certo quella congerie di soggetti che vorrebbero far apparire stupidi sia i liberisti che i conservazionisti locali. Anzi a ben vedere dentro ai planners (pur non classificati di Sinistra per l’occasione dall’autore dell’articolo) ci stanno di diritto anche loro: economisti e sociologi dello sviluppo locale delle università, quelli che da tempo insieme ai giornalisti dei grandi quotidiani sostengono che bisogna cancellare i piani regolatori per «costruire liberamente case come chiede il mercato»; attivisti dei quartieri che nello stile reso famoso per sempre dalle battaglie di Jane Jacobs si oppongono a tutto ciò che si chiama genericamente gentrification; e poi assessori, progettisti, consulenti, consiglieri municipali, imprenditori di sé stessi, e naturalmente anche architetti che guardano su ampie prospettive, pure loro hanno diritto di cittadinanza come planners, eventualmente, basta meritarselo. E però torna quell’ambiguità del rapporto fra la smart city come concetto, le sue ideologie e distorsioni, e questo mondo di planners di sinistra alleati degli imprenditori tecnologici per parlare d’altro e lasciare le cose come stanno. Siamo sicuri che Bruce Sterling, con le sue critiche tradotte in italiano ma non adeguatamente convertite, stia davvero parlando al pubblico italiano, addirittura ad un pubblico qualificato che di città più o meno smart si occupa tutti i giorni per competenza e mestiere? Probabilmente no.
Le vecchie storie ritornano
Il planner è un coordinatore ad assetto variabile, una figura scientifico-tecnica singola o collettiva che coordina gli apporti molteplici specializzati verso un risultato organico, si tratti di una questione specifica (dall’approvvigionamento energetico della città, alla gestione dei servizi, a un’opera infrastrutturale), oppure di un organico piano regolatore generale la cui attuazione si articola su un periodo di generazioni. Così sosteneva almeno un signore che, all’alba di quello che ancora riprendendo dal francese si chiamava tentativamente «urbanismo», faceva il segretario comunale, decisamente sottovalutando il potere di lobby, o meglio ancora di corporazione come si diceva in quell’epoca fascista, degli architetti intuitivo-mediatici. I quali specie in Italia (ma non solo in Italia ovviamente) stavano preparandosi alla loro campagna comunicativa e poi istituzionale-legislativa, riassumibile più o meno così: della città ce ne occupiamo noi, ovviamente ascoltando tutti, ma da noi dovete passare comunque. Era nata l’urbanistica, che rispetto all’ex francofono urbanismo aveva delle differenza davvero abissali nonostante l’assonanza, e ce la siamo trascinata fino ad oggi, quando leggendo che Bruce Sterling critica la smart city ci viene spontaneo concordare con lui, ma per i motivi sbagliati. È il neotecnicismo dell’elettronica che non riesce a cogliere la complessità del planning inteso come convergenza complessa ad assetto variabile, non il vecchio monopolio rivendicato degli architetti-urbanisti che fatica nel metabolizzare (come vorrebbe, come ha sempre preteso di fare) anche le nuove tecnologie dell’informazione, infilandole dentro il calderone dell’idea di progetto spazial-edilizio, oggi ambiental-sostenibile come ieri efficientista meccanico. La cosiddetta ideologia smart city, se leggiamo senza fette di salame sugli occhi i casi di automazione urbana spinta avanzati proposti da Mateja Kovacic, altro non sarebbe che un ennesimo spostamento di baricentro, per la citata «figura scientifico-tecnica singola o collettiva che coordina gli apporti molteplici specializzati verso un risultato organico». Invece del prossimo nemico giurato del disegnatore messo dal destino in un posto sbagliato. Pensarci un po’, aiuta.
Riferimenti:
– Mateja Kovacic, Robot cities: three urban prototypes for future living, The Conversation, 10 aprile 2018
– Bruce Sterling, Le città intelligenti non esistono, Internazionale 10 aprile 2018 (or. The Atlantic)