«Questi posti non attirano gli storici dell’architettura, perché ci sono coinvolti assai pochi architetti conosciuti, né gli storici dell’urbanistica, perché non sono stati pianificati da professionisti noti. Gli storici delle politiche pubbliche tendono a ricostruire i percorsi delle leggi, più che i loro risultati pratici, e quindi manca ancora uno sguardo critico su come la legge si stata tradotta in spazi di vita tridimensionali». Con questo sconsolato panorama sullo stato dell’arte, Dolores Hayden introduce, a pagina 129, il tema del sobborgo sit-com. Il nomignolo sta a indicare anche l’unica forma di conoscenza davvero diffusa di questi spazi, ovvero il film o telefilm che tutti abbiamo visto fino alla noia: steccati bianchi, prati verdi fra l’ingresso e la strada, automobili parcheggiate, pettegolezzi tra i vicini maschi (sulla qualità delle falciatrici) e femmine (sul fidanzamento dei rampolli). Per il resto, il silenzio o quasi, salvo le critiche frontali e le proposte di modelli radicalmente alternativi: dai progetti della Regional Plannig Association of America o della Resettlement Administration negli anni Trenta, attraverso i grandi quartieri pubblici corbusieriani degli anni Cinquanta e Sessanta, fino al contemporaneo e molto in voga neo-tradizionalismo dei cosiddetti new urbanists. E tutti questi, hanno al massimo realizzato qualche progetto di pura testimonianza, una goccia nel mare del suburbio corrente, che cresce e cresce, fino ad ingoiare all’alba del terzo millennio la gran parte della residenza e delle attività produttive nazionali, con i centri città in declino e sempre più terre estensivamente urbanizzate e sottratte all’agricoltura, ai parchi, agli spazi per flora e fauna.
Ma come dicevo all’inizio, lo sconsolato panorama sullo stato dell’arte sta a pagina 129, su un totale di 250 escluse note e bibliografia. Il resto del libro, sottotraccia molto propositivo, è dedicato a un percorso critico in sette tappe, che corrispondono ad altrettante forme spaziali, sociali, e di rapporti di forza economici, intrecciati nella produzione di suburbio. Vale la pena di elencarli:
Terre di frontiera – è la nascita ufficiale verso la prima metà del XIX secolo del sobborgo moderno, ancora molto vicino al centro di una città ancora piccola, dove si intrecciano aspirazioni da utopia borghese o piccolo borghese, sviluppo delle prime tecniche progettuali di landscape e lottizzazione (col giardiniere Andrew Jackson Downing), nascita di alcuni ruoli sociali nuovi, come la moderna donna di casa, parzialmente segregata ma con un ruolo centrale nell’economia domestica e nelle scelte (con i manuali di Catharine Beecher, vedi il testo in Antologia linkato al termine).
Enclaves pittoresche – questa fase, tipica della seconda metà dell’Ottocento, rappresenta sia il momento maturo di quella precedente, sia l’ingresso di nuovi fattori, che definiscono meglio il tema suburbano. Da un lato la progettazione spaziale si fa più raffinata e complessa, con Frederick Law Olmsted e la fondazione di una vera e propria landscape architecture, dall’altro entrano in gioco gli elementi comunitari dello spazio suburbano (presenti sia nelle enclaves per ricchi, sia in quelle di matrice utopista). Molto interessante per gli sviluppi successivi, l’ingresso stabile dei grandi interessi economici in quello che sembra un ottimo affare.
Suburbanizzazione tranviaria – dopo la guerra civile, la prima grande rivoluzione tecnologica e organizzativa del trasporto meccanizzato urbano, poi elettrificato, inizia a rendere potenzialmente di massa quello che sinora era stato un fenomeno innovativo ma abbastanza marginale. Si inizia a creare la futura “macchina della crescita quantitativa”, che intreccia gli interessi delle compagnie tranviarie, della speculazione fondiaria, dell’industria delle costruzioni e settori connessi. È, solo per fare un esempio, lo stesso fenomeno che in Europa vede i tentativi di riforma in positivo del Garden City Movement, e che sul versante della speculazione immobiliare a Londra si chiama Metro-Land, ovvero realizzazione contemporanea di linee tranviarie e quartieri sempre più periferici.
Sobborghi fai-da-te e su catalogo – come si intuisce anche dal nomignolo, si tratta della modularizzazione e industrializzazione applicata alla casa unifamiliare, che negli Stati Uniti ha una enorme diffusione e rappresenta la chiave d’accesso, per quanto contraddittoria e complessa, all’abitazione suburbana per ampi strati sociali. Emerge il ruolo dell’immaginario collettivo, della pubblicità, delle pagine patinate o in bianco e nero che reclamizzano modelli di abitazione dai nomi improbabili, anche con toni da predicazione religiosa. Uno slogan della Sears, Roebuck & Co. per le case su catalogo, recita: «Per avere il massimo dalla vita, così come stabilito dal nostro Creatore, POSSEDERE UNA CASA È UNA NECESSITÀ ASSOLUTA». L’altro elemento innovativo inscindibile di questa fase, è la diffusione popolare dell’automobile privata, che inizia a ridisegnare per sempre localizzazioni e forme insediative del suburbio.
Sobborgo sit-com – la quinta modalità, citata all’inizio, è il sobborgo da cartolina, che come ci racconta Dolores Hayden esiste, appunto, solo sulle cartoline, almeno all’inizio. È il racconto pubblicitario, cinematografico e televisivo a trasformarlo almeno in parte in realtà spaziale e sociale. Alle spalle, a spingere verso questo inveramento della profezia, una “macchina di crescita” ormai consolidata, in cui si intrecciano gli interessi fondiari, quelli dell’industria automobilistica e delle costruzioni, a cui si aggiunge l’elemento determinante dei corposi investimenti pubblici per la casa in proprietà, guidati dal senatore McCarthy. Proprio lui: quello della caccia alle streghe e dei “comunisti” scovati nei camerini di Hollywood. Emblematica di questi tempi di prima guerra fredda la frase del costruttore Lewitt (quello di Lewittown, New York): «Nessun uomo che ha una casa con giardino può essere comunista!».
Edge Node – il termine usato comunemente è quello di “Edge City”, ma Dolores Hayden preferisce giustamente quello di “nodo”, per queste concrezioni di volumi sparsi e funzioni varie che non hanno nulla della città. A partire dalle origini del tutto artificiali di questa vera e propria esplosione insediativa: la legge del 1954 sull’ammortamento degli immobili industriali e commerciali (quella che lancia la carriera del Mall Maker, Victor Gruen, vedi i suoi testi in Antologia), e lo Interstate Highway Act firmato da Eisenhower per motivi militari, ma con la spinta fondamentale della “road gang”, ovvero gli interessi autostradali, che si sostituiscono definitivamente a quelli tranviari cambiando la dimensione del fenomeno suburbano. Inizia l’epoca che a suo tempo Robert Fishman aveva definito ottimisticamente “tecnoburbio”, caratterizzata dal centro commerciale regionale, dal pendolarismo dilatato, dai baccelli monofunzionali a compartimenti stagni: residenza, commercio, produzione, ecc.
Frange rurali – l’ultima (per ora) frontiera del suburbio è quella che sta iniziando a impensierire seriamente anche le attività produttive agricole. È la residenza “di frontiera” di chi lavora negli Edge Nodes ma non ci trova spazio per abitare, ed è costretto (e può permettersi) a cercare casa nei nuovi, spesso esclusivi sobborghi creati ai margini di antichi villaggi rurali, dai nomi wagnerianamente roboanti come Valhalla. Spazi magari di alta qualità presi isolatamente, ma che da un lato iniziano il solito processo di consumo del suolo diretto e indiretto, dall’altro consumano tempo e risorse in pendolarismo, complessità di gestione familiare, totale asservimento ad una mobilità automobilistica di dimensioni mastodontiche.
Le ultime reazioni a questo stato delle cose, come si sa, sono nel segno della smart growth, o in termini di progettazione spaziale fisica di new urbanism. Ma la smart growth rappresenta anche in gran parte la reazione delle forze conservatrici alle spinte del mondo ambientalista, in prima fila gli interessi immobiliari con lo Urban Land Institute e altri, o addirittura i centri culturali dichiaratamente di destra come la Heritage Foundation. E il new urbanism spesso, pur nelle ottime intenzioni e nella sostanziale positività di alcuni risultati, rischia di essere a-storico anche nel suo voler recuperare elementi storici neo-tradizionali nella progettazione spaziale. Valga per tutti il caso di Seaside, il pluripremiato villaggio sulle coste nord-occidentali della Florida che recupera il senso del vicinato negli spazi, nelle regole urbanistiche e in quelle di gestione dell’ambito collettivo. Questo villaggio, che pur voleva esprimere l’esatto contrario del sit-com suburb, è stato scelto come sfondo per il notissimo The Truman Show, con Jim Carrey, che presenta una realtà artificiosa a dir poco paranoica. Forse questo ha portato grande popolarità ai progettisti, Andrés Duany e la moglie Elizabeth Plater-Zyberk, ma dimostra la grande capacità di metabolizzazione della “macchina di crescita”, che tutto divora.
La soluzione, indicata sottotraccia per tutto il libro da Dolores Hayden, è quella di utilizzare gli strumenti della storia per ricostruire i punti di forza della varie forme suburbane, e riproporli secondo forme nuove. Non solo forme spaziali, ma miscela non artificiosa di relazioni sociali, anche in senso ampio, come ad esempio quelle dei mutui per la casa in proprietà, o gli investimenti infrastrutturali, che sono questioni prettamente politiche. Perché la questione centrale sono i modi di sfruttamento capitalistico del territorio. Come avremmo detto noi, qualche lustro fa. Chissà se si può ancora dire.
Riferimenti:
Catharine Beecher, La casa ideale per l’angelo del focolare (1869)
Victor Gruen, Larry Smith, Origine del centro commerciale (1960)
Dolores Hayden, Building Suburbia. Green Fields and Urban Growth: 1820-2000, Pantheon Books, New York 2003 (il link è a un breve estratto tradotto in italiano per Eddyburg alcuni anni fa in occasione dell’8 marzo )