Probabilmente è una cosa che succede da sempre in tutte le città, la leggenda delle targhe sospette: cioè esistono una o più sigle sulle targhe dei veicoli, da cui il residente locale dovrebbe guardarsi, visto che poi corrispondono puntualmente a comportamenti fastidiosi o pericolosi. Leggenda metropolitana, ma non priva di qualche vago fondamento reale, che è piuttosto facile da ricostruire nei tratti essenziali geografico-statistici. Ovvero che esiste un tessuto urbano relativamente complesso nei suoi intrecci di spazi e flussi, relativamente difficile da navigare in scioltezza, cosa che ad alcuni riesce molto bene per lunga pratica e conoscenza, mentre ad altri più pivelli riesce assai meno bene. Tra questi imbranati, all’osservatore casuale risultano ovviamente più vistosi quelli di facile classificazione, ovvero i più numerosi, ovvero quelli a cui capita più probabilmente di capitare per caso in città: i residenti non pendolari delle circoscrizioni vicine, con la loro bella e visibile sigla stampata sulla targa. Lascio al lettore, evocare quella o quelle sigle specifiche per la propria leggenda metropolitana locale, per arrivare al nocciolo della questione che qui più interessa. Ovvero che, oltre alle leggi e norme, codici, regolamentazioni e segnaletica, ciascun contesto urbano vive quasi per forza secondo una serie di convenzioni non scritte (per giunta variabili nel tempo) e non sempre di immediata percezione. Oggi, nella circolazione urbana sta – fortunatamente – rientrando la nuova componente della mobilità senza motore, o meglio dell’intermodalità.
Il salatissimo e piccante gusto del dolce
C’è un nuovo paria per le strade, un nuovo idiota inadeguato contro cui sfogare la frustrazione e lo stress, ed è visibilissimo anche a distanza, forse ancor più del vecchio imbranato forestiero con la targa rivelatrice: l’utente del Bike Sharing. Anche per questo nuovo soggetto, forse è meglio tracciare uno spannometrico profilo sociologico: la sagoma della bicicletta che insospettisce il cittadino residente, in modo analogo (ma diverso) a quello della targa, indica la possibilità di un ciclista che si fermerà nel posto sbagliato, che occuperà sbadatamente il centro della carreggiata dove invece chi sa vivere se ne guarderebbe bene, che imboccherà con ingenua prepotenza un senso unico al contrario, o passerà col rosso al semaforo pedonale proprio mentre sbucano i veicoli dalla curva … E su di loro sono pronti a scatenarsi, per inciso, anche e soprattutto gli ex sospetti, gli immigrati di seconda generazione della mobilità urbana, i furgonisti delle consegne, i pendolari motociclisti con l’ansia di uscire dal labirinto e tornare verso casa, insomma chi credeva di aver trovato almeno un po’ di pace dentro il flussi locali, e invece se la trova turbata dall’idiota emergente. E ci si chiede, si chiedono tutti questi veterani circolanti inviperiti: ma non bastano il codice, la segnaletica, il buon senso? Non che non bastano, esattamente come non bastavano con voialtri prima che imparaste almeno un po’ come si vive, tra tempi dei semafori, divieti di svolta aggirabili stando attenti, slarghi che fanno accelerare un po’ sballando le previsioni di chi vorrebbe attraversare, eccetera. Non è un nuovo idiota, che è arrivato in città, ma una nuova forma di convivenza con cui sarà meglio fare i conti alla svelta, ma stavolta con un aiutino più efficace di un nuovo Codice.
Dolce è un metodo, non uno slogan
Chi continua a ribadire «rispetto delle regole», magari strillandolo esasperato al tizio che gli taglia la strada senza rendersene conto, forse non coglie che l’unica vera regola sempre valida è quella di guardarsi attorno, esattamente come si è fatto per arrivare a capire sinora. E guardandosi attorno seriamente si coglie la trasformazione di fatto della città in uno spazio condiviso di fatto, anche se non ancora di diritto: l’intermodalità è una tendenza molto molto forte, e urgente, la domanda di mezzi «alternativi» al solo veicolo privato a motore cresce esponenzialmente, e capirlo, da parte di tutti, è il primo obiettivo per costruire una convivenza non troppo conflittuale (pacifica no, siamo in città in fondo). La situazione è fluida, e fianco a fianco, sopra e sotto, prima e poi, si incrociano lo scorrere dei pendolari tradizionali, coi mezzi pubblici e privati, dei ciclisti e pedoni locali per gli spostamenti brevi quotidiani di routine, ma soprattutto i nuovi soggetti della intermodalità, che saltano dall’uno all’altro modo. La cosa più improbabile, è che questi nuovi protagonisti, in gran crescita, della mobilità urbana, dolce e veicolare, singola e collettiva, si possano ridurre al comportamento del vecchio utente specializzato. Ancor meno probabile, che qualsivoglia riforma o Codice, o anche trasformazione spaziale (pur importantissima, come arredi, piste, pedonalizzazioni, Aree 30 e ZTL) riesca a fissare una volta per tutte regole semplici e di immediata percezione. Meglio affidare la convivenza a una specie di «nuovo buon senso dolce virtuale», magari pilotato sia dalla pubblica amministrazione che da più consapevoli operatori privati, che in una logica trasversale la smettano di farsi solo concorrenza, ma informino di più utenti attuali e potenziali. Dolce insomma non vuol dire senza motore, ma con un po’ meno spigoli mentali. E lasciamo perdere anche qui eventuali «teorie del gender» applicate alla modalità di trasporto, solo di intelligenza e sensibilità, si tratta, oltre che di pura sopravvivenza!
Riferimenti:
Mosaic Green Commute