In principio era la cementificazione, lo sprawl, la dispersione sul territorio di qualunque attività salvo quella agricola, sottraendo spazi appunto all’agricoltura, alla natura, sostituendole con strade, parcheggi, distributori di benzina, tubature, cavi, tralicci, svincoli, e assai più sparpagliati edifici simil-industriali, simil-commerciali, simil-terziari e residenziali. Quel prefisso «simil» sta solo a significare il fatto che la funzione non aveva a ben vedere nulla da spartire col contenitore o il contesto. Il suburbio era nato originariamente per andarci ad abitare, e solo perché stare troppo pigiati nelle città con le tecnologie dell’epoca era impossibile. Poi a qualcuno venne in mente l’ideona: ma perché oltre alle case là in mezzo all’aria fresca e ai prati verdi non ci portiamo anche tutto il resto? Ottimo dissero utopisti e riformisti, programmiamo il cosiddetto decentramento pianificato, alla ricerca di un nuovo equilibrio fra l’uomo, il suo ambiente, il lavoro e le relazioni. Macché, replicarono bruschi (e in maggioranza schiacciante) gli altri: il destino dell’umanità è uno solo, quello di ammucchiare quattrini rivendendo ogni cosa ai gonzi, questo si chiama sviluppo del territorio e crescita economica. Le prime cose da rivendere ai gonzi sono le idee, il resto viene automaticamente da sé.
Il mercato delle vacche sul territorio
Come ci insegnano ancora oggi ad esempio certi profeti della sicurezza, il modo migliore per far finta di risolvere i problemi è allontanarsene, guardare da un’altra parte, e lasciarli a marcire fin quanto non si ripresenteranno. Allontanarsene, naturalmente, a pagamento, comprandosi qualcosa: la casa lontana, l’automobile per andare qui e là perché la casa è lontana da tutto, i beni di consumo individuali indispensabili quando ci siamo allontanati da quelli comuni e condivisi. Il suburbio del mercato perverso nasce così, con le sue sacche incomunicanti, i luoghi misteriosi e inaccessibili, le vere e proprie assurdità come i contenitori che non contengono nulla, salvo un teorico valore edilizio. Nasce da lì, la parola «cementificazione» che si sostituisce a quell’altra parola, «città», nel momento in cui qualcuno intuisce quanto sia assurdo chiamare così una montagna di metri cubi da cui è escluso ermeticamente il fattore umano. Non servono a nulla, oppure servono solo per un brevissimo e programmato periodo, poi si abbandonano al loro destino, a marcire come i problemi che hanno creato. Le stesse persone che ormai chiamano, a ragione o a torto, tutto quanto «cementificazione», non hanno però capito davvero quale sia il problema nella sua complessità: non è possibile tornare indietro, la cementificazione non è reversibile, la natura cancellata è cancellata per sempre, da quelle pretese di falsa libertà.
Riciclaggio dei rifiuti
Nei paesi cosiddetti ricchi, ricchi di quella cosa assai apprezzata ai nostri giorni che si chiamano quattrini almeno, l’alba del terzo millennio sorge su un territorio inevitabilmente e irreversibilmente urbanizzato, ma che non è affatto città, ovvero non è affatto adeguato a farci stare e girellare degli esseri umani, al massimo dei gonzi sopra delle automobili, a consumare qui e là qualcosa. Se lo mettano in testa, gli allergici del cemento comunque e dovunque: se qualcosa si può e si deve fare, è iniziare ad avere un atteggiamento meno miope e meno nimby, e iniziare a praticare quello che qualche architetto in buona o malafede chiama suburban retrofitting, vale a dire modernizzazione e riciclaggio del rifiuto territoriale, verso funzioni e forme umane. Si discute molto per esempio se sia lecito o desiderabile aumentare le densità edilizie, ma molto meno dell’altro aspetto, ovvero del superare quei sistemi a vasi non comunicanti delle zone omogenee, nate proprio per incrementare il nomadismo automobilistico e non risolvere i problemi spostandoli. Città è convivenza, ricerca dei modi migliori per praticarla, e quindi il contrario di segregazione. L’aveva intuito, certamente male e schematicamente, il razionalismo quando parlava di unità di abitazione integrata, o di città giardino verticali, spaventando non poco chi si immaginava alveari autoritari trappola. Oggi, tocca lavorare e riflettere in senso ampio, tecnologico, sociale, ambientale su obiettivi analoghi, anche se evitando di scimmiottare gli scatoloni anni ’30, che hanno fatto sul serio il loro tempo, pur mascherati dai renderings di certi studi. Ci proviamo?
Riferimenti:
Andrew Levine, Jurassic Office Parks: New Life for Old Suburban Campuses, Forbes, 5 giugno 2015