L’albero, la città, e il portafoglio

parking trees

Foto J. B. Gatherer

Oggi si pone spessissimo l’accento su ciò che è o sarebbe «naturale», e quindi implicitamente chissà perché superiore, scordandosi del tutto di quanto la specificità umana stia pressoché completamente dentro al fatto di riuscire a sganciarsi in qualche modo dai vincoli naturali, dell’istinto, di una specie di ineluttabile fato ad essere sballottati di qui e di là da voleri superiori. Ci fanno una testa così, tutti i reazionari scemi del mondo, con la famiglia naturale, la naturale inferiorità di questo o quel gruppo (scelto a seconda di criteri artificialissimi e contingenti) etnico o razziale, fino ad arrivare a quelle sparate senza capo né coda del capofamiglia che scimmiotta «naturalmente» il suo antenato cavernicolo quando si compra una casetta con giardino, conformata in qualche modo all’atavico masso da cui dominare la savana (hanno scritto pure questo, con cattedra universitaria, note bibliografiche e vendite record, giuro!). Era inevitabile che proprio nel secolo dell’urbanizzazione planetaria ormai fatto compiuto, se non altro sul versante dell’immaginario e degli stili di vita oltre che della statistica, anche nell’idea di città cominciassero a riversarsi tutti questi strabismi bizzarri della naturalità vera o presunta. Vediamo così il moltiplicarsi degli entusiasmi per la piantina di peperoni sul davanzale, l’orto di quartiere nel lotto del capannone dismesso, la rete continua del verde urbano che inizia a riprodurre almeno in parte certi sistemi delle zone agricole a cui si collega. Ma si tratta spesso, troppo spesso, di entusiasmi mal riposti, di atteggiamenti superficialmente e pur sostanzialmente antiurbani, che confondono una virtuosa ripresa di qualità ambientale con una specie di incrinarsi dell’organismo, dalle cui crepe potrà scaturire il «destino naturale».

Ciò che è artificiale è reale

Mentre invece per sua «natura» la città, o meglio l’organismo insediativo di carattere urbano, è esattamente il prolungamento della capacità umana di sganciarsi dai vincoli primordiali: artificiale per aspirazione, anche se non necessariamente artificiosa e/o meccanica così come la si è concepita ahimè per tutto l’arco della cultura industrialista. Va sottolineato comunque, che per ovvie intuibili ragioni di pura sopravvivenza, fin da subito si è capito quanto non fosse possibile, salvo forse filosoficamente, trasformare l’artificio in macchina tout court, prima conservando qualche isolato polmone di respiro e sfogo (del tutto emblematica la forma esterna assurda del Central Park o di altre piccole o grandi superfici di risulta) e poi via via cercando di integrare sempre più, quasi fossero componenti analoghe del medesimo mix funzionale, gli elementi naturali, le componenti infrastrutturali, edilizie, le reti tecniche. Sicuramente, in questo senso, l’invasione della natura in città è fatto positivo, e per una ragione del tutto opposta a quanto credono i «naturalisti» reazionari: le crepe dentro cui si insinuano piante e animali non sono il segnale di un crollo sistemico, di un cupo drammatico ritorno a un misterioso vendicativo Eden, ma vuoti di senso messi gentilmente a disposizione dalla maturità urbana, secondo un disegno di cui si riescono già a intravedere alcune strategie. E di cui possono iniziare a far parte integrante anche quei brandelli di vita usati da tempo immemore come veri e propri componenti edilizio-meccanici nella costruzione della città artificiale, prime fra tutte le alberature stradali: niente di più naturale, niente di più artificiale al tempo stesso.

L’albero e il servizio economico all’ecosistema

Le alberature che, in singolo o multiplo filare, dai primissimi manuali di ingegneria stradale fanno parte integrante del progetto (salvo nell’aberrazione delle arterie di tipo autostradale) vengono sempre concepite, al pari di asfaltature, cordoli, sezioni tipo di corsia, tombinature, un elemento come tanti: rientrano nell’economia dell’investimento per la gestione dei flussi di traffico. E come ben sanno i consulenti agronomi e sanitari, altrettanto da sempre svolgono in modo complementare funzioni analoghe a quelle dei più vistosi parchi e giardini, anche sul versante del benessere psicologico di chi fruisce le strade, approfittando dell’ombra oltre che di tanti altri servizi svolti. Oggi questi ruoli, che si moltiplicano anche nella consapevolezza (le alberature stradali sono almeno potenzialmente componenti chiave delle infrastrutture verdi nonché delle reti ecologiche urbane) si chiamano servizi all’ecosistema, e proprio il modo di «produzione» e localizzazione di questa componente viva della strada la rende un elemento chiave in cui investire per moltiplicarne l’effetto benefico. Il vantaggio dell’approccio detto servizi all’ecosistema è che si avvale anche di consolidati metodi di calcolo costi-benefici, consentendo quindi di mettere abbastanza facilmente a bilancio le spese correnti per le relativamente piccole trasformazioni urbane, le quali diventano però assai più grandi se consideriamo il sistema e gli obiettivi reali, a cui oggi si aggiunge la regolazione del clima locale e l’abbattimento o contenimento di parecchi inquinanti. Con buona pace di chi sbirciando un alveare selvatico dal parcheggio tra i rami di un albero, o notando come le radici inizino a incrinare la superficie dell’asfalto, sogna un «crollo di sistema»: spiacenti, ma a fine pausa dovrai comunque tornare a lavorare, la catastrofe arriverà eventualmente da un’altra parte.

Riferimenti:

E. Gregory McPhersona, Natalie van Doornb, John de Goede, Structure, function and value of street trees, Urban Forestry & Urban Greening, aprile 2016 (scarica direttamente un pdf da Google Drive Città Conquistatrice)

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