Esiste qualcosa classificabile come «qualità spaziale»? Sembra una domanda piuttosto sciocca e superficiale, espressa così, ma proviamo a dare una risposta altrettanto tranchant e apparentemente arbitraria, per trarne alcune conseguenze: no, non esiste alcuna qualità spaziale, e questo indipendentemente dalla soggettività di chi la valuta da quel punto di vista. Esiste invece qualcosa di più profondo e importante della qualità, e che possiamo definire «finalità spaziale». Di cosa si tratta? Si tratta dell’aspetto a ben vedere fondamentale delle trasformazioni, quello che a sua volta conferisce la qualità, ma al tempo stesso è anche in qualche misura soggettivo, cambia con le prospettive di osservazione. Fra gli esempi più correnti di finalità spaziale nelle trasformazioni del territorio possiamo qui fare, per i nostri scopi, quello di una autostrada, e la domanda ovviamente suona più o meno «a che serve»? Attenzione però, la domanda va posta seriamente, perché ad esempio tra le funzioni dell’opera ci può essere quella di creare occupazione, o far circolare risorse finanziarie, o alimentare bacini locali di economie varie, mettendo in secondo o terzo piano sin quasi all’irrilevanza la funzione della mobilità veloce tra varie origini e destinazioni. Ergo la qualità spaziale della nostra trasformazione si valuta tenendo ben conto di queste o altre finalità, senza le quali non è possibile un giudizio.
A cosa serve la città?
L’esempio di una infrastruttura di comunicazione che in fin dei conti serve assai poco per comunicare, è al tempo stesso estremo e schematico per motivi strumentali, ovvero mettere bene in chiaro come sia sempre indispensabile distinguere i fini dai mezzi, e capire cosa è un obiettivo rispetto al solo strumento per conseguirlo. Se dalla semplicità anche letteralmente lineare dell’arteria veloce, passiamo alla complessità dell’ambiente urbano, a maggior ragione risulta essenziale, questo distinguere, perché moltissime cose vengono vissute e addirittura strategicamente decise come fini a sé, mentre invece dovrebbero essere classificate, giudicate, gestite, come mezzi per raggiungere obiettivi. Riqualificare, modificare, ripristinare, ricostruire uno spazio urbano, solo ragionando in termini burocraticamente tecnico-attuativi può apparire un fine a sé. Si tratta invece di un mezzo, per arrivare ad altri scopi, a partire dai quali è possibile formulare un giudizio: costruisco o demolisco case, con la finalità di mettere a disposizione o sottrarre alloggi al mercato (o all’offerta pubblica), non tanto per costruire in sé. E lo stesso vale per l’orientamento specifico delle trasformazioni, ovvero chi ne trae vantaggio in senso lato, o meglio chi ne trae più vantaggio rispetto ad altri, cosa che rappresenta la vera discriminante politica di tutto quanto. Costruisco, riqualifico, demolisco, bonifico, miglioro o servo uno spazio, ma ovviamente (davvero ovviamente, anche se non ci si pensa sempre) l’obiettivo è di avvantaggiare qualcuno più di altri, addirittura di svantaggiare qualcuno a tutto favore di altri. E qui arriviamo alla parolina incriminata: gentrification.
Pulizia etnica non dichiarata
Se non altro la gran voga e vanvera del termine internazionale che significa sostituzione sociale urbana (in una miriade di contraddittorie forme) in una cosa aiuta: è di sicuro stigmatizzante, sottolinea l’esistenza certa di quel processo, che viene riconosciuto da tutti come se non altro discutibile, da giustificare o condannare, ma sempre da non accettare come acqua fresca. Fin qui tutto bene, salvo naturalmente che poi irrompe di nuovo la confusione tra fini e mezzi, che impedisce di cogliere davvero la differenza tra chi sostiene l’esistenza di una gentrification buona, e chi la condanna senza appello. Poniamoci di nuovo la questione che abbiamo chiamato delle «finalità spaziali», che allargata alle classi sociali forse si coglie ancora meglio: a cosa serve, la gentrification? Qual è l’obiettivo di quella riqualificazione urbanistica e sociale? Se si risponde alla domanda, si risponde anche sulla qualità delle trasformazioni, come spiegato in premessa. Quando quella sostituzione sociale mortifica vasti strati di popolazione, toglie molto agli uni per dare ad altri, appiattisce la complessità che è il sale della vita e dell’esistenza urbana, è male, lentamente uccide la città nella sua essenza. Quindi sono male anche gli atti tecnico-progettuali per attuarla, non sono affatto «neutri», come non è neutrale tirare un grilletto sostenendo che si tratta di un pezzettino di ferro mobile. Oggi per esempio studi sistematici ci dicono che la gentrification appiattente, squilibrante, anticittà, la si induce con politiche pubbliche apparentemente assai positive, come quelle che hanno al centro il verde, i parchi, i giardini. Ma che invece usano risorse collettive in modo evidentemente sbagliato, dato che poi quei vantaggi sono goduti solo da una minoranza. Saperlo, aiuta a regolarsi meglio: il verde, comunque inclinato, non è buono a prescindere.
Riferimenti:
Isabelle Anguelovski et. al., Assessing green gentrification in historically disenfranchised neighborhoods: a longitudinal and spatial analysis of Barcelona, Urban Geography, luglio 2017 (scarica direttamente l’articolo in pdf via Città Conquistatrice Drive)