C’era una volta (e a dire il vero c’è ancora adesso, viva e vegeta) la cosiddetta «visione per la città». Aveva la caratteristica di essere in un modo o nell’altro comprensiva, ovvero di coinvolgere direttamente e meno direttamente moltissimi aspetti, spaziali, sociali, ambientali, economici. Altro carattere, o meglio grave limite, di questa grande visione, era il suo essere assai parziale: parziale negli interessi che rappresentava, parziale negli ambiti che consapevolmente toccava (ma molto meno consapevolmente sconvolgeva), spesso anche parziale nell’agire su questo o quel comparto, con l’idea di allargare poi a cerchi concentrici o tellurici i propri effetti. La vera qualità che però interessa qui sottolineare, della classica visione urbana, è il porsi al di sopra del piccolo bisogno immediato, grazie a un approccio sistematico, che certo sviluppa una intuizione, ma lo fa quantomeno professionalmente, seguendo criteri non episodici. Solo per restare ad anni relativamente recenti, basta pensare agli sviluppi delle moderne reti infrastrutturali metropolitane (dai trasporti alle reti tecniche a quelle immateriali di comunicazione), o alla complementare «città macchina» del razionalismo architettonico e urbanistico, nelle varie versioni nazionali e storiche, dalle affermazioni di principio tra le due guerre mondiali, attraverso lo urban renewal, sino agli esempi più tardi dei quartieri di espansione oggi fin troppo stigmatizzati.
Ad ogni azione corrisponde una reazione
Alla grande visione, per propria natura in qualche modo progressista, si contrappongono tutte le posizioni conservatrici del particulare, nonché altre piccole visioni di campo assai più circoscritto. Non c’è alcun giudizio positivo o negativo di per sé, in questa classificazione, salvo separare idee magari parziali ma comprensive, da altre idee che comprensive non sono affatto, né aspirano ad essere. C’è qualcosa d’altro da osservare, però, ed è che tutti i piccoli progetti circoscritti, vuoi di reazione-conservazione, vuoi di micro-trasformazione senza approccio comprensivo, di fatto fungono anche da cartina di tornasole dei limiti della grande visione: evidentemente non era così attenta come affermava, a comprendere davvero interessi, spazi, aspirazioni future, se suscita reazioni del genere. Verso la metà del XX secolo, alla pura resistenza conflittuale dei piccoli progetti-interessi alla grande visione, comincia ad aggiungersi un altro percorso dialettico della trasformazione urbana, ed è quello della partecipazione. La cui particolarità si trova nel tentativo di condizionare direttamente i modi e obiettivi del grande progetto introducendone via via a mosaico di propri, anziché semplicemente aspettando che la propria resistenza passiva ne induca qualche evoluzione. Ma fatalmente, anche nel campo della trasformazione urbana si propone da subito il dilemma tra democrazia e governabilità dei processi, ovvero nel caso specifico tra tempi di attuazione di un progetto univoco, e necessità di modificarlo in progress con una efficienza accettabile.
Processo al processo
Da questa nuova forma dialettica, nascono interi filoni di ricerca e azione, professionalità, leggi e norme, tutte intese sostanzialmente a fluidificare qualcosa: su un versante la possibilità di sviluppare un progetto davvero comprensivo, che risolva a monte le conflittualità nascendo già aperto a modifiche e al dialogo, dall’altro gli strumenti tecnici e organizzativi per far sì che ogni soggetto interessato possa esprimersi, e far confluire le proprie idee nelle decisioni. Diventa però straordinaria l’accelerazione (e potenziale distorsione) operata negli anni più recenti dall’accumularsi delle innovazioni tecnologiche, sia nell’ambito della produzione degli elaborati di progetto, sia in quello comunicativo e di scambio. Se agli albori del processo partecipativo in pratica esisteva solo la faticosa forma assembleare, di confronto e scambio dati e informazioni, oggi le reti tecniche consentono scambi e intrecci impensabili in tempo quasi reale. Ma la vera transustanziazione sembra essere arrivata con una serie di app in grado (a seconda del tipo di impostazione e soggetti coinvolti) di far esprimere giudizi positivi o negativi su un grande progetto, o intervenire attivamente con suggerimenti di modifica, o infine proporne di propri. Pare restare però, di nuovo, aperta una questione diciamo così filosofica: ha davvero senso che la partecipazione dei cittadini e dei loro eventuali gruppi organizzati, si esprima per «progetti tecnici autogestiti», che spesso di fatto diventano delle specie di commesse collettive a un professionista o studio professionale? Non avrebbe assai più senso se, viste le effettivamente straordinarie potenzialità tecnologiche, i cittadini facessero il mestiere che sanno fare meglio, e cioè esprimessero bisogni? Giusto per non privare la «grande visione» dello spirito comunque progressista e comprensivo che l’ha sempre caratterizzata, pur nel rispetto degli interessi e aspirazioni di tutti.
Riferimenti:
Oliver Wainwright, Tinder for cities: how tech is making urban planning more inclusive, The Guardian, 24 gennaio 2017
Immagine di copertina: Urban Intelligence