In una giornata di inizio autunno 1992, E. Bruce Harrison, persona universalmente nota come il padre della comunicazione ambientale, tenne un discorso senza precedenti a un pubblico di esponenti economici. C’era in ballo un contratto da mezzo milione di dollari l’anno (ai valori dell’epoca). Il committente Global Climate Coalition (GCC) – a rappresentare settori petrolifero, carbonifero, automobilistico, reti energetiche e industrie varie – cercava un associato esperto di comunicazioni per influire sulla narrazione del cambiamento climatico. Don Rheem e Terry Yosie, due componenti della squadra di Harrison presenti quel giorno, per la prima volta si raccontano. «Volevamo tutti quell’incarico da Global Climate Coalition – ricorda Rheem – ed eccoci là». GCC esisteva solo da tre anni, come forum di scambio informazioni e pressioni sui limiti alle emissioni da carburanti di origine fossile.
La scienza faceva rapidi progressi nella comprensione del cambiamento climatico, e cresceva la consapevolezza della natura politica del problema, ma nel primo anno di esistenza la Coalizione non vedeva particolari ragioni di allarme. Il Presidente George H.W. Bush era un esponente del mondo del petrolio, e come ci ricordava un importante lobbista nel 1990, il suo messaggio corrispondeva a quello GCC. Non si prevedevano limiti all’uso di combustibili fossili insomma. Tutto cambiato nel 1992. A giugno la comunità internazionale definiva un quadro di azioni climatiche, e alle elezioni presidenziali di novembre prevaleva anche un impegnato ambientalista come Al Gore entrando alla Casa Bianca come vicepresidente. Appariva chiaro che la nuova amministrazione avrebbe cercato di regolamentare i carburanti fossili. Adesso la Coalizione capiva di aver bisogno del sostegno di una comunicazione strategica cercando una qualificata consulenza.
Forse sono in pochi al di fuori degli ambienti specializzati ad aver sentito nominare E Bruce Harrison e l’omonima compagnia che dirige dal 1973, che lavora per una serie di clienti tra i più grossi inquinatori americani. Dal settore chimico screditando le ricerche sulla tossicità dei pesticidi; a quello del tabacco; e poi una grande campagna contro i limiti alle emissioni dei principali produttori di auto. Harrison ha fama di essere tra i migliori in assoluto. La storica della comunicazione Melissa Aronczyk, che ha intervistato Harrison prima della morte avvenuta nel 2021, spiega come si trattasse di uno strumento cardine per la clientela che assicurava visibilità ai temi: «Un autentico maestro nel genere». Prima del bando di consulenza, Harrison aveva raccolto una squadra di sperimentati comunicatori e principianti. Tra questi ultimi Don Rheem, senza esperienze nel settore. Aveva studiato ecologia e poi era diventato giornalista ambientale. Un incontro casuale con Harrison, che intuì il potenziale di valore aggiunto di collocarlo nella squadra, lo portò nel progetto GCC. «Pensavo: Wow, questa è davvero un’occasione per lavorare in prima linea su una delle principali questioni politiche attuali. Mi pareva incredibilmente importante».
Terry Yosie – ingaggiata dall’American Petroleum Institute, poi vice-presidente – ricorda che Harrison iniziò la sua presentazione ricordando ai presenti come un suo classico incarico fosse stato di opporsi ad ogni riforma nel settore automobilistico. Svolto rovesciando le prospettive di osservazione. La medesima tattica sarebbe servita contro la regolamentazione climatica. Persuadere il pubblico che le conoscenze scientifiche non erano universalmente condivise, e che oltre alle questioni ambientali i decisori dovevano considerare sempre – dalla prospettiva GCC ovviamente – gli effetti negativi di qualunque scelta su commercio, posti di lavoro, prezzi. La strategia di comunicazione si sarebbe dispiegata su una battente campagna mediatica, su qualunque fronte, dal divulgare opinioni (editoriali di collaboratori esterni ai giornali) alle pressioni dirette sui giornalisti.
«Si incaricavano molti reporter di scrivere articoli sul tema – ricorda Rheem – e faticavano parecchio con la complessità dell’argomento. Io preparavo delle tracce così che leggendole potesse accelerarsi la cosa». Tutta la pubblicistica GCC pullulava di cose non certe, tutta una serie di lettere, glossari, notiziari di aggiornamento periodico. Rheem e tutta la squadra erano molto prolifici nella produzione di dubbi: nel giro di un anno, il gruppo Harrison poteva vantare oltre 500 specifiche menzioni sui media. Nell’agosto 1993, il titolare faceva il punto della situazione in un incontro con GCC. «Una crescente consapevolezza delle incertezze scientifiche porta alcuni rappresentanti al Congresso a esitare su nuove iniziative» recitava una comunicazione interna che Terry Yosie ha deciso di condividere con noi. «Anche gli attivisti che suonano l’allarme per il cambiamento climatico ammettono di aver ceduto terreno sul fronte della comunicazione nell’ultimo anno». A quel punto Harrison consiglia di allargare l’ambito delle voci favorevoli a un ripensamento.
«Scienziati, economisti, studiosi, esperti, sono molto appetiti dai media e richiesti dal pubblico, molto più dei rappresentanti di interessi economici del settore». Nonostante la gran maggioranza degli studiosi del clima concordasse sul fatto che le attività umane fossero una componente importante del cambiamento e che era necessaria una decisa azione, c’era comunque un piccolo gruppo convinto che non esistesse motivo di allarme. L’idea era di sostenere economicamente questi scettici finanziandone discorsi, op-ed sui giornali (1.500 dollari ad articolo) e organizzare cicli di apparizioni in radio e Tv. «Il mio compito era di individuare le voci fuori dal coro e trovargli pubblico e visibilità – ricorda Rheem – All’epoca non sapevamo tante cose e dovevo sottolineare quante fossero». I media erano avidi di quei punti di vista. «I giornalisti da soli cercavano le opinioni contrarie. Alimentavo una fame già esistente».
Molti tra scettici e negazionisti credono che il sostegno GCC e di altri non avesse alcun effetto sulle loro opinioni. Ma scienziati e ambientalisti che dovevano combatterle e respingerle sostenendo la realtà del cambiamento climatico si trovavano davanti un fronte molto organizzato e difficile da affrontare. «La Global Climate Coalition seminava dubbio ovunque gettando fumo negli occhi e gli ambientalisti non capivano cosa stesse succedendo» ricorda oggi l’ecologista John Passacantando. «Ciò che i geniali comunicatori al soldo delle grandi compagnie sapevano benissimo è che per vincere la sfida la verità non c’entra nulla. Basta ripetere un numero sufficiente di volte la stessa cosa e la gente comincerà a crederci». In un documento databile al 1995, che ha voluto condividere con noi Melissa Aronczyk, Harrison scrive che «GCC è riuscita a invertire la corrente dell’opinione dei media sulle conoscenze scientifiche del cambiamento climatico, contrastando efficacemente il messaggio eco-catastrofista e confermando l’assenza di un consenso generale sulle ragioni del riscaldamento planetario».
Erano state costruite le basi per la campagna principale: la strenua opposizione al negoziato degli accordi di Kyoto per ridurre le emissioni del dicembre 1997. Tra gli scienziati c’era consenso sul fatto che fosse evidente il contributo umano al riscaldamento. Ma la pubblica opinione americana ancora mostrava segni di dubbio. Il 44% degli intervistati da un sondaggio Gallup era convinto che gli scienziati non fossero affatto d’accordo. Questa antipatia rendeva assai più difficile per la politica agire, e l’America non attuò le decisioni di Kyoto: una grande vittoria per il fronte industriale. «Credo che E Bruce Harrison fosse molto fiero del suo lavoro. Aveva saputo gestire l’intervento delle compagnie nella narrazione del riscaldamento globale» ricorda Aronczyk. Il medesimo anno degli accordi di Kyoto, Harrison vende la compagnia. Rheem decide che quel genere di comunicazione non è la sua carriera ideale, e Yosie si è già da tempo rivolta ad altri incarichi. Anche GCC inizia a sfaldarsi, molti componenti non condividono quella linea dura. Ma tattiche, metodi, messaggi di dubbio, sono ormai sedimentati e sopravviveranno ai loro creatori. Trent’anni dopo le conseguenze sono attorno a noi.
«Credo si tratti dell’equivalente morale di un crimine di guerra» dice l’ex Vice-Presidente Al Gore delle grandi compagnie petrolifere sabotatrici di opinioni. «Ed è uno dei crimini più gravi dalla Seconda Guerra Mondiale. Dalle conseguenze inimmaginabili». Riflette Don Rheem: «Farei qualcosa di diverso oggi? È difficile rispondere» fuori dall’ombra della campagna GCC. «È triste che non sia successo gran che» ma resta la convinzione sulle grandi incertezze degli anni ’90 a impedire «azioni più drastiche» per non parlare del ruolo di paesi come Cina e Russia, corresponsabili di decenni di inazione come e più dell’industria americana. «Credo sia piuttosto facile costruire una teoria della cospirazione anche sulle intenzioni perniciose di chi vuole fermare il progresso. Personalmente, non ne vedo. Ero giovane, curioso. Sapendo quel che so oggi avrei agito in modo diverso? Forse, probabilmente».
da: BBC News, 23 luglio 2022 – Titolo originale: The audacious PR plot that seeded doubt about climate change – Traduzione di Fabrizio Bottini