Non c’è molto da stupirsi per la gran moda del ritorno ai bei tempi antichi, quando i mulini erano bianchi, e la vita un susseguirsi di sagre paesane, vinello spumeggiante e saggi consigli dei nonni davanti al caminetto. Come? Non era proprio così? Strano, perché viene invece presentata e sostanzialmente immaginata proprio così dappertutto, e soprattutto a chi ha un tipo di sensibilità sintonizzata al genere Heidi le caprette ti fanno ciao. Quel genere di sensibilità che in un modo o nell’altro impedisce di connettere e confrontare ragionevolmente due forme di comunicazione diversa: una parte di mondo ancora sostanzialmente inchiodata al supposto bel tempo antico, e di cui abbondano i notiziari sulle carestie, le epidemie, la povertà rurale, e il nostro presunto passato che chissà perché nelle medesime condizioni di base sarebbe stato tanto diverso. Misteri della mente umana, che però trovano almeno parziale spiegazione nella triste realtà quotidiana: se andare avanti in una determinata direzione provoca disagio, l’impulso immediato è quello di invertire la rotta a 180° e iniziare a guardarsi alle spalle. Scrutare in lontananza e notare soprattutto gli aspetti positivi diventa, così, parte di una specie di strategia di sopravvivenza.
Contraddizioni in seno al popolo
Nel campo dei trasporti e della mobilità, oggi in buona sostanza la gran moda della bicicletta, della pedonalità e di alcune conseguenti organizzazioni spaziali diciamo così tradizionali, assume valenze del genere, altrettanto contraddittorie. Si guarda cioè al passato, a un mondo senza auto sostanzialmente immaginario, costruendosi cartoline su misura che ricordano più le serie Com’era bella la mia città tanto popolari su Facebook, che qualsivoglia riscontro oggettivo. Perché appunto alla ricerca autoconsolatoria di aspetti positivi non corrisponde una altrettanto entusiastica evocazione degli altri, di aspetti. Quando la mobilità era piuttosto contenuta entro i limiti del settore urbano, si dovevano forzosamente contenere non solo i consumi e la loro varietà, ma anche la fruizione dei servizi, magari anche quelli di emergenza. Pensiamo solo un istante cosa significa la rete commerciale, non soltanto per il consumatore ma dal punto di vista di tutti i fornitori, e ricordiamo per un istante solo il classico mercato com’era una volta, popolato (venditori a parte) in condizioni di quasi monopolio da massaie e dipendenti delle famiglie più ricche. Perché? Perché richiedeva una professionalità da formare in anni e anni di studio. Oggi grazie anche al sistema spazio-tempo reso possibile dall’auto di massa, da un lato ci sono reti diverse che richiedono meno capacità, dall’altro anche apprendere alcune capacità di uso del mercato tradizionale diventa alla portata di più soggetti. Quindi demonizzare l’auto in sé va bene solo se ci spinge a considerarla su un arco tematico allargato.
Car sharing space sharing time sharing
Oggi si parla spesso, e naturalmente spesso pure a vanvera, di decrescita ed economia della condivisione. Concetti così ampi e di fatto abbastanza filosofici da non significare pressoché nulla, se non li si cala in qualche modo nella realtà. Quando si parla in pratica di economia della condivisione, si scopre come in realtà all’idea poetica vagamente solidale spontanea subentri subito una logica imprenditoriale che soprattutto la condivisione ce la vende come modello di consumo. Mentre decrescita, concetto nato e diffuso soprattutto da una consapevolezza dei limiti delle risorse, si sostanzia molto immediatamente nello spostare l’obiettivo dalla quantità alla qualità, dal materiale all’immateriale. Un facile esempio dell’intreccio di tante sfumature di questi processi è il car sharing così come si sta delineando nelle nostre città dopo la massiccia diffusione delle app gestionali, e il superamento della rigidità del luogo di parcheggio della vettura. Questo modello di condivisione per nulla solidaristico finisce però per delineare davvero una decrescita di consumi materiali, in modo sorprendentemente allargato: un’automobile sola viene usata potenzialmente 24 ore al giorno (anziché restare ferma 23 ore e passa come di media), ha bisogno di molto meno spazio di sosta, viene usata solo quando davvero serve e non giusto perché la si possiede. Gli effetti sullo spazio esterno sono chiarissimi, basta pensare al teorico taglio di 23 auto, 23 teorici garage privati con vialetto e scivolo di ingresso, 23 piazzole standard davanti a casa previste dalle norme urbanistiche eccetera eccetera. E si possono immaginare, anche e parzialmente, effetti allargati simili su utenze di impresa, non solo strettamente private.
L’innovazione è di destra o di sinistra?
Ne emerge un tipo di città sensibilmente diversa, ad esempio perché sarà possibile gradualmente convertire gli spazi risparmiati a funzioni alternative, ma anche perché nascono flussi di mobilità diversi, compositi, dove non esiste più solo il ciclista puro, l’automobilista puro, e al massimo il pedone che sale sul mezzo pubblico o viceversa. Si riorganizzano le reti dei servizi, si mescolano le attività nei quartieri e si rimescola anche il tempo della metropoli assottigliando sino a farli quasi scomparire i picchi delle ore di punta e di morta. Ma esiste una rigidità, ancora, da superare, determinata dalla tecnologia e dal mercato: non sempre c’è l’auto disponibile, del tipo necessario, alla distanza necessaria, ad esempio perché si sta in periferia dove risulta meno fitta la rete degli utenti e dei flussi. Ma oggi, come ci raccontano ogni tanto i giornali, si sta lavorando (soprattutto Google, ma non solo) alla cosiddetta driverless car.
E qui, signore e signori, entra in campo una bella differenza tra approccio conservatore e progressista, non certo sui massimi principi che lasciamo ai filosofi da terza pagina, ma molto terra terra. Il modello dell’auto condivisa, come fanno capire anche certi manager di grandi aziende, insieme a certe innovazioni tecnologiche nell’aria indica una direzione dell’intero settore produttivo, che si chiama demotorizzazione: non comprare più veicoli, ma servizi integrati da Fiat, Ford, Toyota eccetera. Una evoluzione molto urbana, che si appoggerebbe di preferenza a certe densità (dove c’è banalmente più mercato), certe articolazioni spaziali, certe propensioni individuali e collettive a innovare. Immaginiamoci cosa succederebbe superando lo scoglio dell’auto senza conduttore, che si sposta da sola da un posto all’altro a raccogliere i passeggeri, magari anche quelli che non guidano. Macché, replica il comparto palazzinaro-immobiliarista, l’auto senza pilota non esce dal modello proprietario, quello sarebbe un complotto comunista inaccettabile, e anzi rilancia alla grande i valori immobiliari suburbani, visto che risolve (secondo i palazzinari, non nella realtà) il problema della congestione, delle lunghe trasferte, degli ingorghi, grazie alla capacità di gestirsi ed essere gestita in modo interattivo. Chi ha ragione? Ovviamente chi vince le elezioni su un programma che tenga intelligentemente conto di queste variabili. Per adesso si veda di seguito un esempio di questa protervia decisamente conservatrice, e pure un pochino ottusa nonostante la vicinanza alla Silicon Valley.
Riferimenti:
Cory Weinberg, How driverless cars could encourage sprawl – and reshape Bay Area real estate, San Francisco Business Times, 2 ottobre 2014
L’innovazione è anarchica.
Esistono addirittura fior di studi scientifici che collegano l’innovazione alla «anomalia» intesa in senso quasi psichiatrico