Introduzione (F. Bottini)
Sotto il sole del 21 settembre 1924, dopo una semplice cerimonia tenuta nella campagna di Lainate, «l’automobile reale spezza il nastro puntando verso Varese, seguita dalle automobili degli invitati». Così Le Vie d’Italia, rivista del Touring Club, descrive nel numero autunnale dello stesso anno l’inaugurazione della prima autostrada del mondo: la Milano-Laghi. Anche questo «primato» italiano, come quello della ferrovia Napoli-Portici un secolo addietro, si dimostrerà in breve poco più che folkloristico, visto che autostrade, automobilismo, fenomeni e dibattito connessi, dilagheranno nel nostro paese solo trent’anni più tardi, come fenomeno di importazione che ci troverà, come in tanti altri casi, senza adeguati anticorpi per fronteggiarlo.
Anticorpi che, come ci dimostra la brillante riflessione di Alessandro Schiavi sul rapporto fra l’autostrada e quanto oggi chiamiamo «città diffusa», erano del tutto possibili alla metà degli anni Venti, quando (solo per fare un esempio) l’assessore all’edilizia di Milano, Cesare Chiodi, imponeva che nel bando di concorso per il piano regolatore di ampliamento fossero inseriti alcuni elementi di piano «regionale», esteso tanto quanto la rete delle grandi strade di comunicazione che convergevano sul capoluogo dalla fascia pedemontana e dei laghi.
Schiavi, animatore della prima ora nel movimento italiano per i sobborghi giardino, in questo saggio prende dichiaratamente spunto dall’esperienza britannica e dal relativo dibattito, di cui coglie tra l’altro un punto non così esplicito: la grande occasione e insieme il grande rischio che automobili e autostrade rappresentano per la realizzazione dell’utopia decentrata di Ebenezer Howard (che non a caso proprio nel segno dell’automobile vedrà sorgere pericolosi concorrenti, dalla Broadacre di Wright alle varie versioni della visione di Le Corbusier). È lo scomparire della città e della campagna come conosciute sino a quel momento, con l’abnorme crescita di quanto i britannici chiamano ribbon development, i nordamericani road slum. E Alessandro Schiavi, in chiave tutta italiana anche se riecheggia l’anelito ambientalista e conservazionista di Patrick Abercrombie per la campagna inglese, o di Benton MacKaye per la natura incontaminata delle montagne d’America, individua una leva potenziale nella tutela del territorio a scopi di sfruttamento turistico. Non a caso il suo appello è ai comuni che iniziano ad ospitare «seconde case», ad una consapevolezza di comunità locale che in questi anni Venti è cosa rara anche nella borghesia più illuminata (per quanto possa essere illuminata una borghesia che sta sostenendo Mussolini nella costruzione dello stato totalitario).
Strumenti di questa tutela, ancora derivati dai nuovi Joint Committees urbanistici britannici, i piani regolatori intercomunali, che nella dizione di Schiavi anticipano di parecchio sia le proposte INU del progetto di legge urbanistica del 1933, sia l’idea «ascendente» e di sinistra della pianificazione intercomunale del secondo dopoguerra.
Ma la grande modernità e attualità del testo offre troppi spunti di riflessione, ed è forse opportuno lasciare ora che sia il lettore a giudicarne direttamente il valore.
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da: La Casa, giugno 1925
Al secolo del carbone viene succedendo il secolo del petrolio e dell’elettricità. Queste due fonti di energia, colle loro molteplici applicazioni stanno rifoggiando molti aspetti della vita sociale, e influiranno anche sui metodi e i modi di lavoro dell’uomo, e, forse anche, determineranno modificazioni, in meglio, della personalità del lavoratore.
Qui vogliamo esaminare uno degli aspetti della vita dell’uomo che ne sarà influenzato: la casa.
L’urbanismo sembra aver trovato la sua legge del limite nel suo stesso mostruoso accrescimento. Per larghe che si facciano le strade della nuova città quelle delle città vecchie non si possono allargare, se non con una spesa enorme e non economica – l’affluenza della popolazione in certi punti è tale, dati i rapidissimi mezzi di comunicazione rappresentati dalle automobili e dalle tramvie elettriche, che, ormai, le strade esistenti a livello del suolo sopraelevate e sotterranee non bastano a sgorgare rapidamente la massa che vi fa ressa.
Si ricorre a ripieghi, ma il mezzo di trasporto è così rapido, e così comodo, di uso tanto più largo, che contribuisce a rendere più intenso il movimento urbano in una ragione che si potrebbe dire geometrica, e che può essere anche senza limiti, mentre le superfici piane sulle quali automobili e tramvie debbono correre hanno limiti fissi, insuperabili, e poi aumentabili entro tali limiti in ragione, potrebbe dirsi, soltanto aritmetica.
E allora, quando la saturazione è raggiunta e, o, prima ancora che sia raggiunta, sia soltanto preveduta, occorre pensare a soluzioni radicalmente diverse. Cioè: uscire verso lo spazio libero con movimento centrifugo.
Ed ecco le autostrade sulle quali si incolonnano velocissime quelle automobili per trasporti individuali, famigliari o collettivi, che, facendo la spola dalla città alla campagna, possono rarefare il centro urbano e spostare il luogo di abituale dimora di una parte notevole della popolazione abitante nella città, o in procinto di andarvi ad abitare.
Il problema dell’Urbanismo, in uno dei suoi aspetti almeno, quello dell’abitazione dopo il lavoro, trova una soluzione che fino ad ora né il trasporto equino, troppo lento, né la ferrovia che si ferma a distanze troppo lunghe, avevano fornita, ma che la tramvia elettrica, e, meglio ancora., l’autoveicolo procurano con pieno soddisfacimento.
L’autostrada, infatti, permette a chiunque, abbia l’autovettura propria o si serva di un omnibus automobile, di percorrere rapidissimamente distanze notevoli, senza soste, senza intoppi, a qualunque ora del giorno e della notte, arrestandosi in qualunque punto, e quindi alla porta della propria casa, e alla porta, o molto vicino, dello studio, della scuola, dell’officina.
Vale a dire che diventa non solo possibile, oggi, ma quel che più conta, conveniente e desiderabile, lavorare in città ed abitare in campagna, senza privarsi dei conforti che la città può fornire, dal teatro alla conferenza, dalla riunione politica al cinematografo.
Ed anche questi mezzi di distrazione e di coltura, tra non molto, si potranno godere se non in modo perfetto ma che tende a divenirlo, a domicilio.
E allora, il problema che ha dato origine verso la fine del secolo scorso e più ancora in questo principio di secolo, alla scienza – o all’arte – dell’urbanismo, inteso nel senso di saper costruire la città secondo criteri di ragione e ispirazione artistica, limitato al centro urbano, entro il pomerio, e poi più tardi ai villaggi suburbani, si allarga non solo al Comune, ma alla provincia, alla regione.
Infatti, grazie all’automobile, vediamo, ed ora, più accentuatamente grazie alle autostrade vedremo, che, lungo tali nastri, si vengono costruendo in linea continua o, a minore o maggiore distanza, tra loro, infinite abitazioni per una singola famiglia che vuol godersi la campagna, l’isolamento, il silenzio, pur essendo sulla strada nella quale si arresta il fulmineo veicolo privato o pubblico.
Di quello che potrà essere l’andazzo futuro si può già avere un’idea percorrendo le grandi arterie principali che conducono ad un centro urbano attraverso centri minori. Ivi, fuori del nucleo antico, si possono vedere per chilometri lungo quelle arterie, costruite o in costruzione, case grandi e piccole, uniformi o di aspetto diverso, le quali trasformano le due fascie di verde laterali alla strada in una specie di via lattea costellata di abitazioni umane.
Vale a dire che non si ha più la campagna, e non si ha né la città, né il villaggio, ma un polverio di costruzioni che deturpano la campagna trasformandola in una zona urbana senza carattere senza armonia, e per la sua stessa ripetizione quasi all’infinito, monotona ed uggiosa.
E se è vero quel che diceva il Ruskin che «l’anima di una nazione è espressa nella sua architettura» si può immaginare quale anima può pullulare da un polverio di case costruite, in quest’era mercantile retta dalla dottrina del «compra a buon prezzo e vendi caro», in serie, e nelle quali, non la concezione originale architettonica obbediente a uno spirito di ordine, di logica, di proporzione e di rapporti delle varie parti, dei vuoti coi pieni, dell’aspetto esteriore in relazione ai bisogni cui deve soddisfare l’abitazione, ma la decorazione ornamentale pretende dare il carattere differenziale alla costruzione, e sostituirsi all’idea architettonica, invece di esserne lo spontaneo compimento.
Siccome questo malanno è minacciato anche per l’Inghilterra dove si sta per costruire l’autostrada Londra-Brighton-Portmouth-Southampton, i giornali hanno gettato l’allarme, e tra gli altri, il Manchester Guardian del 22 aprile scriveva nel suo editoriale:
«In fatto, l’Inghilterra è sotto la minaccia di diventare un paese in cui al viaggiatore che percorra, a piedi e in auto, una strada importante sia urbana, o suburbana, la campagna circostante non è permesso scorgerla che attraverso i portici di mattoni o di cemento delle case che costeggiano quelle strade. Noi non possiamo impedirlo. Ma ciò non aggiungerà certo credito a quelle autorità pubbliche le quali non fanno alcuno sforzo per incoraggiare forme più civili e più provvide di piani regolatori.
Si aggiunga, al lato estetico della questione, il lato economico. È troppo evidente che una dispersione di abitazioni sopra linee così infinite, importerà una spesa ingentissima il giorno in cui, per necessità, l’Ente civico dovrà provvedere per esse alla fognatura e alle condutture dell’acqua, del gas, della luce: Finché le case disseminate sono poche, il Comune può anche disinteressarsene, ma quando esse son cresciute in fila quasi ininterrotta e costituiscono una propaggine civica, seppure in ordine sparso o in fila indiana, non potranno sottrarsi alla pressione che gli abitanti faranno per avere i servizi fondamentali a tutela dell’igiene e per soddisfazione delle comodità loro. E in ogni caso, il fornimento di tali servizi riuscirà costoso anche agli stessi privati ove volessero procurarseli da soli.
Ed allora, l’inconveniente che già si verifica oggi, ed al quale i comuni resistono, di dover portare i servizi alla periferia a costruzioni sorte sui margini e intramezzate da aree fabbricabili deserte, si aggraverà, e la spesa che il Comune dovrà sopportare non sarà compensata dal gettito delle imposte e delle tasse addossate a quegli abitanti urbani foranei.
Di qui la necessità evidente di estendere i piani regolatori fino a comprendervi la campagna coi suoi villaggi; di qui la convenienza di fare in modo che l’automobile, l’autostrada e la ferrovia elettrica, mentre da un lato risolvono un problema, non ne creino un altro, quello sopra lamentato, e che alla disposizione «a nastro» delle nuove costruzioni si sostituisca il loro raggruppamento in punti idonei con criteri che rispondano all’economia ed all’estetica.
Sia che si rinnovino ed allarghino i borghi esistenti, sia che se ne costruiscano di nuovi in prossimità delle grandi arterie automobilistiche, e dove la natura lo consiglia, ché, ripetesi, data la rapidità del mezzo di trasporto la distanza tra l’arteria principale e un punto laterale più riposto e più attraente o più comodo, non ha importanza in ragione di tempo, è desiderabile che si adottino criteri razionali che limitino e guidino la libera anarchia attuale favorita dalla mancanza di regolamenti e di tracciati.
Gli esistenti villaggi o i nuovi nuclei, ove le case siano disposte in modo da assicurare la maggiore libertà agli abitanti, e da permettere nello stesso tempo di godere certi servizi in comune col riservare boschi, spazi verdi, campi di gioco, aree libere per edifici di uso pubblico – dai venditori, all’ambulatorio, dall’ufficio postale alla scuola professionale – potranno così diventare le cellule delle future città «satelliti» nelle quali si intravvede la soluzione definitiva e la cura dell’elefantiasi urbana, e la fusione della città colla campagna, cioè dei benefici dell’una con quelli dell’altra.
Il problema non è facile da risolvere per disposizione dell’autorità centrali.
Come, infatti, imporre a chi vuol costruire sul proprio, in margine alla strada secondo il sistema del «nastro» senza togliere aria e luce al vicino, nulla domandando al Comune, di andare a costruire più o meno lontano dal luogo prescelto per favorire lo sviluppo di gruppi nuovi, secondo il sistema del «nastro».
Ma, quello che non può fare d’autorità il potere centrale possono farlo gli Enti locali da quello stimolati e guidati, come possono farlo gruppi di associazioni di cittadini resi cogniti e persuasi della bontà ed economicità di un metodo anziché dell’altro. Le campagne di stampa, i voti motivati dei competenti, la suggestione dell’esempio possono molto sull’opinione pubblica, specialmente negli inurbati che desiderano tornare ad rem rusticam, e che sono in grado di pregiare i vantaggi di un luogo antivedendone il futuro sviluppo in confronto dell’utile immediato.
Quanti che furono tacciati di cervelli balzani perché, dieci anni or sono, andarono ad abitare in una casetta isolata alla periferia, ora che questa è stata raggiunta dalla città e dai servizi pubblici, e si mantiene come un’oasi di verde, di fiori e di pace, sono invidiati da coloro che son rimasti al centro d’onde vorrebbero fuggire per non subire affitti di rapina e non possono perché non trovano dove allogarsi?
E quanto non hanno servito le campagne della stampa dei sodalizi, per salvare il paesaggio dalle brutture della pubblicità per scoprire aspetti naturali pittoreschi da visitare rendendoli accessibili con strade, e per salvaguardare dalla rovina ruderi interessanti, col crescere intorno a loro l’ammirazione e il rispetto. Così, se i Sindaci dei Comuni attraversati da una autostrada si incontrassero e si accordassero per far segnare da competenti le linee di un piano regolatore intercomunale, in cui fossero messi in valore i luoghi naturalmente più attraenti e più adatti per farvi sorgere nuovi aggruppamènti e se ne tracciassero le grandi linee, e si offrissero vantaggi a chi volesse costruirvi, oppure si integrassero con schemi di piani i villaggi ed i borghi esistenti, inspirandosi ai criteri informatori e alle esigenze della vita moderna, se, insomma, si facesse per la futura città-giardino prossime alle autostrade quello che fanno i Sindaci delle piccolissime città balneari per attirare costruttori di villini stagionali, non vi è alcuna ragione di pensare che non si otterrebbero risultati apprezzabili. E perché quegli stessi Comitati che hanno presa l’iniziativa delle autostrade e che ora.si assumono anche il compito del servizio, sulle medesime, degli automnibus, non potrebbero trovar conveniente di acquistare in posizioni adatte zone di terreno destinate a diventare delle città-giardino ripartendole in lotti fabbricabili e cominciando fin d’ora a piantarvi alberi ed arbusti ornamentali come sogliono fare le società ferroviarie inglesi nelle zone di loro proprietà ai lati della ferrovia?
Le probabilità di riuscita, cioè di vendita di tali aree sarebbe accresciuta dal fatto che l’elemento essenziale per invogliare chi deve spostarsi dalla città alla campagna, la strada e il mezzo di trasporto rapido, esistono già, e che, quindi, l’errore e la mancata riuscita del «Milanino» non potrebbero ripetersi. Ricordiamo che l’esempio di Letchtworth e di Welvyn le due città giardino a qualche decina di chilometri da Londra, servite soltanto da una linea ferroviaria – quindi meno comodamente che non da una autostrada – come applicazione del metodo dei «nuclei centrali» contrapposti alle disseminazioni «a nastro» sono ormai probatorii non solo sotto l’aspetto sociale ed estetico, ma anche sotto quello dei vantaggi economici tanto per gli abitanti come per gli azionisti.
È sperabile che anche in Italia tali esempi trovino imitatori lungiveggenti, ora che si offrono nuovi coefficienti di riuscita nell’autoveicolo e nell’autostrada.