Le torri scintillano solo se le si guarda da lontano, molto lontano, basta arrivare nei paraggi e si cominciano a vedere dei particolari un po’ meno scintillanti, non solo perché così è la vita, ma anche perché sono fatte apposta per raccontar balle. Niente di male, visto che di architettura si tratta, e raccontarla un po’ gonfiata fa parte del gioco da sempre, ma a volte ce ne scordiamo confondendo simboli e sostanza, e andando incontro a inutili delusioni. Come il cosiddetto riavvicinamento dell’uomo alla natura, che chissà cosa vuol dire poi: stile di vita più naturale perché ci si arrampica idealmente sugli alberi, tirando ideali noci di cocco in testa ai passanti? Oppure maggior rispetto in genere per tutto ciò che è naturale, cercando di non interferire più di tanto con le risorse, il clima, il territorio? Sono due approcci assolutamente opposti, uno il contrario dell’altro, e invece anche con lo strumento di comunicazione dell’architettura si mescolano in un minestrone che rischia di diventare ideologicamente indigeribile. Classicissima l’immagine della lottizzazione suburbana detta immersa nel verde, che prende il nome dal verde (salici piangenti, querce, pascoli eccetera), ma che di fatto lo oblitera in gran parte sotto il proprio solido cemento e asfalto: al massimo, pesantemente immersa nel poco verde residuo, finché dura.
Se scintilla, non è mica tanto naturale
Però anche con la versione contemporanea del classicissimo grattacielo novecentesco, non è che le cose vadano molto meglio di quanto avvenga nella villettopoli immersa nel verde. In pratica, tutte le volte che qualche articolo sulla stampa ci parla della città sostenibile e dintorni, si vede sbucare una torre con appese un po’ di fioriere, più o meno vistose, cascanti, appoggiate su forme curve, paraboliche, a parallelepipedo, guglia, singole o multiple. Ecco, al netto di questi orpelli da catalogo del fiorista, non pare di essersi allontanati di molto dal solito eterno skyline manhattanesco che ci viene riproposto da un secolo circa. Né sembra che l’idea di ritorno alla natura insita nel concetto di vertical farm, almeno nell’interpretazione mediatica degli architetti, si allontani di un millimetro da questo schema del grattacielo con fioriera incorporata: una torre in mezzo ad altri edifici, le finestre che luccicano, e i fatali ciuffi di foglie. Foglie che a ben vedere assomigliano mediaticamente tantissimo alle antiche figurine di passanti, singoli o in nuclei familiari, incollati nelle prospettive dei grandi progetti, a recitare il ruolo della società. Ma appunto, così come in quei progetti di architettura per le future periferie la società e i suoi bisogni venivano in sostanza ignorati, oggi dell’agricoltura urbana si ignora quasi tutto, salvo che trattandosi di “verde” va molto di moda e aiuta a costruire immagine, a vendere il prodotto.
Conta la funzione, lo spazio si trova sempre
Per nostra fortuna, oltre l’enfasi mediatica di chi ci campa sopra, alla comunicazione, esiste anche la più prosaica realtà. Che anche quando si tratta di concetti assai innovativi come la vertical farm prova a ricondurli all’osso, sviluppandone ciò che davvero conta: la natura che ci aiuta a produrre alimenti, e la trasformazione edilizia che organizza lo spazio. Coltivare in verticale vuol dire adattare da un lato le tecniche agricole a operare in contesti molto ristretti, dall’altro adattare gli edifici e le città a convivere con queste nuove forme di produzione alimentare. A ben vedere, un obiettivo non lontanissimo, elementi costitutivi a parte, dall’antica rivoluzione urbana-industriale, quando lo spazio, l’ambiente, i manufatti, iniziavano ad essere ripensati per infilarci una specie di gigantesca bottega artigiana e la nuova energia che faceva girare le macchine. Oggi, a pensarci un istante, quale modo migliore di iniziare il nuovo percorso, che non ripartire da dove si era arrivati prima? Ovvero, il prototipo assoluto ideale della vertical farm altro non è che il contenitore industriale dismesso inteso in senso sia edilizio, che urbanistico, che socioeconomico. Del resto lo riconosce anche il “profeta” del settore, Dickson Despommier, che l’idea più innovativa da ogni punto di vista sinora spuntata è quella di Growing Power, che in pratica trasforma i problemi della deindustrializzazione in risorse per ripartire. Tecnologia, innovazione, urbanizzazione per risparmiare impatti sulla natura: gli ingredienti ci sono tutti, il resto sono varianti locali e di contesto. Se gli architetti si svegliassero un po’ di più, seguissero coerentemente questo approccio, e la piantassero di starsene aggrappati agli strascichi del ‘900, forse potremmo guadagnarci un po’ tutti.
Riferimenti:
Christopher Hume, Aquaponics turn suburban industrial park into farmland, The Toronto Star, 25 gennaio 2015