L’e-commerce mummifica la città?

Foto M.B. Style

Cosa significa, dire che una città è in qualche modo e misura «vitale»? Naturalmente ciascuno ha proprie idee più o meno spontanee o mediate da conoscenze pregresse, che probabilmente andrebbero però proiettate su un quadro generale, per assumere qualche validità non sporadica. Per esempio facciamo il classico atteggiamento di chi protegge con le unghie e coi denti la presenza delle librerie, secondo moltissimi osservatori coincidente con la presenza di cultura, e tali comunque da aggiungere valore inestimabile allo spazio. È vero? In realtà questa a suo modo incredibile confusione tra prospettive personali (la cultura come contenuto di alcune specifiche pubblicazioni, applicata acriticamente sopra un potenziale veicolo di quei contenuti) e realtà provoca strabismi e interpretazioni a dir poco false. E non a caso quasi sempre smentite dai fatti, a partire per esempio dalla «vitalità» presunta ma inesistente indotta, da queste librerie, se non nella testa di chi firma la petizione per conservarle ma non ci ha mai speso un centesimo, le ha solo compiaciutamente guardate qualche volta passandoci davanti, o neppure quello, immaginandosi il resto di sana pianta. La cosa vale ovviamente per una miriade di altre attività, anche solo limitandosi a quelle di scambio commerciale, la cui capacità di conferire valore urbano ai luoghi dipende da tante altre variabili, prima fra tutte quella di indurre flussi e presenze, relazioni attive, diversità.

La città non è solo spazio

Chiunque frequenta, abitandoci accanto o per altri motivi, in modo regolare spazi ad assetto sociale variabile, in fondo ha un’idea molto chiara della vitalità urbana, e dei suoi equilibri. Mi riferisco a luoghi anche molto diversi, che vanno dalla classica piazza – antica o moderna – per funzioni collettive di raduno, al luogo di mercato periodico utilizzato anche per la sosta dei veicoli, a spazi particolari come gli ingressi delle scuole dell’obbligo dove si trovano i parenti in attesa dei bambini, o certe fermate dei mezzi pubblici e via dicendo. Notare che da tutti questi esempi manca proprio la componente commerciale, dello scambio di qualcosa (salvo col mercato periodico, ma il riferimento non è ovviamente a quello), ma si tratta pur sempre di trasformazioni importanti e che comportano l’esistenza o meno di relazioni. In pratica abbiamo spazi vivi e vitali che pur restando identici a sé stessi mutano vistosamente in termini di qualità, perché in certi momenti accade qualcosa che manca in altri. In fondo con la libreria dell’esempio iniziale le cose non erano molto diverse: nell’immaginario dei difensori a spada tratta del negozio, c’è un flusso di cultura che attira flusso di persone che fanno vitalità e conferiscono qualità. Cosa non vera, se di clienti ce ne sono pochi, se invece della cultura si vende prevalentemente paccottiglia, se i flussi sono molto irregolari e squilibrati, magari con sovraccarico esagerato due-tre volte l’anno per le offerte di testi scolastici, e poi deserto e tristezza. Ergo quando parliamo del rapporto fra scambi commerciali di qualsiasi genere e vitalità automatica, non facciamo correre troppo l’immaginazione e le proiezioni di fantasie sul territorio reale.

Dal virtuale al reale

Deve essere questo il percorso che ci porta a ragionare sugli effetti della vera e propria esplosione di commercio elettronico e parallela automazione, sugli spazi urbani, perché letteralmente «prosciuga e cancella l’attività commerciale» così come la conosciamo nei suoi rapporto con gli edifici, le strade, le piazze, e la sostituisce con flussi diversi: pacchi che viaggiano dentro una rete già diretti al consumatore che li ha scelti nel sito immateriale. Questo non significa, come già forse si immagina l’istinto conservazionista, l’ennesima morte della città, ma uno stimolo a provare a ripensarla. Immaginiamoci che i negozi così come abbiamo imparato a conoscerli traslochino le proprie vetrine in un sito web, i propri addetti al lavoro davanti a un terminale, i prodotti costantemente in movimento dentro una rete virtuale-reale gestita da bracci e veicoli automatici, con eventuale parziale supervisione. Ecco che ci appare la effettiva similitudine con quello che si provava a descrivere un po’ semplicisticamente sopra: ovvero luoghi e azioni che la famosa «vitalità urbana delle relazioni» se la devono tutta costruire. Un punto di consegna e ritiro di quartiere con un bar annesso, magari automatizzato in tutto in parte anche quello, può diventare nodo di vitalità? E come si inserisce nella prefigurata rete commerciale integrata degli operatori? Sarebbe utile iniziare a ragionare anche programmaticamente e progettualmente in quel senso, prima che «il mercato» inizia a fare il suo mestiere, e qualcuno che doveva pensarci per tempo davanti al disastro ci risponda: ma noi all’epoca non potevamo sapere. Il rapporto allegato, insieme ad altri documenti e considerazioni proposte da questo sito, ve lo dice a chiare lettere, dove stiamo andando, altro che «non potevamo sapere».

Riferimenti:
Lisa Graham, Urban Logistics: the ultimate real estate challenge? rapporto Cushman & Wakefield, ottobre 2017

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