Le domande dell’innovazione urbana

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Mira El Dito

Pare il trionfo dei progettini, di questi tempi: progettini che al massimo sognano di diventare progettoni, senza nulla perdere del loro retrogusto di chiuso e contingente. In pratica, la domanda di autorappresentanza senza mediazioni dei cittadini, così come si manifesta ai vari livelli di governo della cosa pubblica, è sbarcata anche sul piano delle decisioni operative, specie per quanto tocca la stessa vita di quei cittadini, o sembra toccarla: quale migliore esperto di chi alla questione vive dentro ogni giorno? Spuntano come funghi le richieste di referendum su qualsiasi cosa, e l’aspettativa non è tanto che il referendum (che dovrebbe essere strumento eccezionale e di indirizzo) tocchi magari qualche aspetto controverso su cui non si trovava ricomposizione altrimenti, ma decida in modo diretto che fare, come farlo, fin nei dettagli. Referendum cittadini sulla realizzazione del tram in corsia riservata dal punto A al punto B attraverso un dato percorso e con certe fermate: Vuoi Tu Che Il Tram Elettrico Giallo Che Si Ferma Davanti Al Bar Pino Venga Realizzato? (rispondere SI oppure NO). La questione qui non è tanto di competenza in sé e per sé, certo non siamo più ai tempi in cui c’era una microscopica quantità di savant tecnico-scientifici a fronte di una massa brulicante di semi-idioti in grado al massimo di reagire bene o male all’innovazione. La questione è invece il punto di vista: il cittadino in quanto tale ne esprime uno assolutamente folle.

Secondo me

Uno dei classici passatempi dei bambini è quello di costruirsi fantasie, in genere molto apprezzate dagli adulti sia perché formative, sia nel merito perché esprimono in effetti un punto di vista assai personale e svincolato da tanti condizionamenti. Il fatto è che questo valore di «igiene mentale» smette di esserlo nel momento in cui, da adulti, condizionamento sta anche a significare consapevolezza del contesto. Un bambino, per fare un esempio, può legittimamente sognare un enorme parco con tanto di dinosauri e scimmie saltellanti qui e là, collocato davanti alla sua porta di casa: un adulto che si immagina il medesimo parco, anche al netto di scimmie e dinosauri, dovrebbe ragionare su quel che c’è oggi, davanti al suo zerbino, inclusi i potenziali sogni concorrenti dei dirimpettai, per esempio. E non irrompere nella discussione con quei violenti (difficile trovare un altro aggettivo) «secondo me», seguiti da dettagliatissimo progetto, che ormai intasano qualunque tentativo di dibattito pubblico su qualunque argomento. Restare bambini, insomma, può anche andar bene un po’ nel merito, un po’ meno nel metodo: la prospettiva individuale deve lasciar spazio a uno sguardo più ampio, oppure restare sì concentrata, ma cambiare obiettivo. Magari chiedersi, invece di che farne esattamente di quel che sta davanti allo zerbino di casa, cosa si vorrebbe in generale dalla vita, rispetto alle sensazioni evocate da quel vago bisogno di parchi scimmie e dinosauri. Insomma tocca imparare a porre le domande, se si vogliono o addirittura si pretendono risposte.

Tempi moderni

Siamo (forse siamo sempre, a nostra insaputa) in un momento di rivoluzione tecnologica costante, e sta alla città e alla società adeguarsi e interagire in qualche modo col mondo che cambia sotto gli occhi. Per fare un esempio di spontaneo adeguamento, certo discutibile ma assai significativo, pensiamo ai più giovani «nativi digitali» e al loro istinto per distinguere i luoghi sulla semplice base di una qualità: c’è la rete disponibile, non c’è campo. Nel primo caso si tratta di luogo accogliente, nel secondo di spazio potenzialmente ostile: le altre qualità (compreso il parco coi dinosauri e le scimmie davanti allo zerbino) vengono dopo, perché comunicare significa poter interagire quasi direttamente con qualunque spazio e qualità. Nasce da lì, quell’uso sempre più frequente di luoghi un tempo improbabili per sostare, smartphone alla mano, seduti comodamente su un cordolo di marciapiede davanti a un cestino traboccante di rifiuti in un parcheggio vuoto, o passeggiare berciando nella notte, in posti che la vulgata delle vecchie zie inquadrerebbe come decisamente loschi e minacciosi. La domanda, prosciugata al massimo, qui è: datemi comunicazione. Non datemi il telefonino, non datemi il giardino, non datemi l’automobile per andarci al giardino, eccetera. Ergo, bisogna arrivare a formularla giusta, quella domanda, collocando i propri bisogni nel contesto, e vedrete che la smetteremo di scontrarci, praticamente da subito, col nostro vicino che davanti allo zerbino accanto voleva metterci la sua piscina olimpionica, coi piranha invece dei dinosauri. Leggere in questa prospettiva, il percorso personale dell’urbanista per caso di fronte alle tecnologia smart, qui di seguito (imparassero certi assessori, tanto per cominciare).

Riferimenti:
Rohit T. Aggarwala, The First Principles of Urbanism: Part I, Sidewalk Talk, 12 settembre 2016

 

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