Ci sono modi coerenti e umani di avvicinarsi a un tema con spirito tecnico-scientifico, e altri che quello spirito si limitano a scimmiottarlo strumentalmente, come quando certi «studi» pur di sostenere ad ogni costo la propria tesi escludono dati e riferimenti del tutto disponibili che potrebbero indebolirla. Purtroppo tanta pubblicistica, e per giunta pubblicistica in grado di influenzare l’opinione pubblica e gli stessi decisori, per puri motivi di interessi di parte pare orientata in quella direzione: si parte da un convincimento astratto (o peggio ancora da un progetto e obiettivo) e si fa di tutto per arrivarci «logicamente e conseguentemente». Figuriamoci quando gli eventuali dubbi sulla tesi-obiettivo prescelto riguardano qualcosa che confondiamo con un centro della nostra esistenza, dall’amore della mamma, al sole che sorge ogni mattina, all’automobile come centro dell’universo così com’è, come e sempre stato, e come sarà in eterno. Da decenni ormai si accumulano da un lato informazioni scientifiche sui danni di questo universo automobilistico all’ambiente, alla società e alle sue relazioni anche economiche, dall’altro innovazioni tecniche e organizzative in grado di ribaltare letteralmente quel paradigma di «sacrifici per il progresso». Ma il finto approccio superficialmente tecnico-scientifico non la smette di sfornare le proprie immagini di futuro degne di un episodio dei Jetsons, in cui tutto cambia salvo non cambiare assolutamente nulla.
La macchina suburbana della crescita socioeconomica
Ogni tanto qualcuno, tra chi propone innovazioni varie, in fondo lo ammette: «Sono un suicida dei miei interessi: una volta risolto così il problema non servirò più a niente». Salvo poi tornare sui propri passi nella pratica, ovvero cerare sempre nuovi problemi da risolvere, anziché concludere il proprio ruolo levandosi di mezzo. Con l’automobile e l’intuizione economico-organizzativa di Henry Ford è successo qualcosa del genere, dato che in realtà il vero prodotto da venderci non era lo scatolino di lamiera individuale con motore a petrolio, ma tutto ciò che ne sosteneva l’esistenza e riproduzione seriale: strade e luoghi da raggiungere obbligatoriamente con quelle strade, collocati rigorosamente e artificiosamente lontanissimi uno dall’altro. Lo sa benissimo chi, non certo da oggi, ha affrontato il tema spazio-flussi-società-sviluppo, che il vero nodo da sciogliere è proprio quello di infrangere l’artificiosità consumista e conservatrice del suburbio disperso, ma che lo si può fare ritorcendo contro il sistema le stesse innovazioni che ha prodotto. Pensiamo alle telefonia, che dagli anni ’20 in poi alimenta l’indifferenza localizzativa e lo sprawl urbano delle attività umane, ma che con le sue evoluzioni parallele alla «smaterializzazione» dei processi ha finito per promuovere urbanità e prossimità fisica. La medesima cosa sarebbe già avvenuta da tempo anche con le innovazioni tecnologiche interne al mondo dell’auto, se non fosse entrato in campo il boicottaggio probabilmente consapevole degli interessi legati al settore: sarebbe bastata l’elettrificazione dei veicoli, con la necessità di più elevate concentrazioni di servizi di ricarica e popolazione di utenti, a stroncare il modello suburbano. Oggi a quella innovazione praticamente mancata, si aggiunge però quella del pilota automatico, e per la nostra pubblicistica faziosa è il momento di entrare in campo nel suo approccio Jetsons: che bello uscire dalla villetta ogni mattina e andare in ufficio con la macchina che si guida da sola, potremo addirittura abitare a duecento chilometri di distanza dal posto di lavoro!
I nodi tirano sul pettine
Balle, naturalmente, ma si sa che chi grida più forte spesso riesce ad avere ragione. Perché mai si dovrebbe abitare a cento chilometri da dove si lavora? E ancora: con tutti i possibili strumenti di lavoro a distanza immaginabili o neppure immaginabili a disposizione, perché si dovrebbe «andare al lavoro», anziché (come fa in realtà un numero ormai esorbitante di persone) agire da postazioni scelte per i più svariati motivi, ma infinitamente diverse dal classico ufficio? Una condizione che per giunta si va estendendo, nella realtà e in potenza, anche a chi sinora era materialmente impegnato ad operare fisicamente su qualcosa, e che via via grazie ai processi di automazione e robotizzazione avrebbe un ruolo di controllo e coordinamento, del tutto analogo a chi oggi svolge mansioni amministrative e decisionali. E la domanda che si pone davvero chi ragiona scientificamente sul tema dell’auto elettrica e senza pilota suona: in quale ambiente può svilupparsi meglio? Dove riesce ad attecchire questa straordinaria doppia innovazione, non inquinante e non usurante, sicura, condivisibile all’ennesima potenza anche sul versante dei prezzi, distribuibili su un numero gigantesco di utenti non proprietari? E la risposta, se si procede sistematici, suona: in qualcosa di molto simile, concettualmente parlando, a un ambiente cittadino così come l’abbiamo sempre conosciuto: prossimità, densità, relazioni, propensione a innovare anche comportamenti e adeguarsi al mutamento. Magari non sarà una versione leccata di centro storico tradizionale, come vorrebbero alcuni, con tanto di bancarelle della frutta in piazza all’ombra del campanile, ma il modello da cui partire anche per motivi pratici è esattamente così, nei suoi tratti essenziali. Il che comporta però una diversa convergenza tra pubblica amministrazione, attori economici, scelte politiche di grande respiro. La spinta del cambiamento climatico e dell’urbanizzazione planetaria, comunque in corso, saranno decisive?
Riferimenti:
Robin Millard, Driverless, electric future just round the corner for urban cars, Digital Journal, 19 novembre 2017