Chi lo negherebbe mai, che la città è per antonomasia il luogo dell’intreccio e della complessità? Infatti in genere si parla di anticittà quando appaiono chiari sintomi di semplificazione: dalla ripetitività architettonica, alla segregazione funzionale, a quella sociale e via dicendo. Il luogo urbano per eccellenza di solito è quello storico, o comunque fortemente sedimentato (per non confonderci con l’idea dell’antico, monumentale, tradizionale, che è spesso analoga ma anche no). Un contesto dove hanno avuto modo di depositarsi abbastanza organicamente, e di adattarsi reciprocamente, contenitori diversi e multipli, vari contenuti, e anche tempi di attività e fruizione regolati dai flussi. La dizione tecnicamente suona mixed-use, ma basta confrontare uno spazio concepito artificialmente come tale, con uno cresciuto nel tempo grazie a trasformazioni successive, per capire se non altro quanta semplificazione ci sia, nell’immaginare sul serio di riprodurre complessità. Per non parlare degli approcci più ideologici, dove cioè si compiono scelte e discriminazioni ben precise, più o meno evidenti, tese a escludere più che a includere, la complessità, vissuta come semplice complicazione, di solito «fuori mercato». In principio c’erano le prescrizioni di zona.
Specializzazione tecnica dell’offerta
Le scansie dei supermercati spesso rispondono a criteri che, finché non li si impara a memoria magari senza capirne davvero il senso, ci lasciano abbastanza perplessi quanto a organizzazione e corrispondenza a bisogni umani. Cerchiamo il pane insieme ai crackers, ad esempio, o magari gli stessi crackers dalle parti dei biscotti da colazione, e invece no, tocca scavalcare le catene montuose delle scansie di scope o legumi surgelati, per arrivare alla famiglia di prodotti che il mitico mercato ha deciso inopinatamente di apparentare, e iniziare a cercare quel che ci serve. Con la città lo zoning ha fatto storicamente qualcosa del genere, o almeno ha provato a farlo, con le grandi arterie stradali interpretate come le scansie, e gli edifici, le loro masse, i loro contenuti, la loro disposizione, a scimmiottare quei prodotti di consumo. Raccolti per omogeneità relativa di valori decisi dall’offerta, anziché rispondere alla domanda, che era e resta di qualità urbana, di abitabilità generale, di comoda e felice fruizione spaziale. Sta tutta qui, la differenza tra i quartieri moderni «pianificati» e certa spontaneità messy (per usare il termine reso famoso da Jane Jacobs) di quelli più sedimentati e sottoposti alla pressione della domanda reale. Una domanda reale che parte dal rifiuto di quel genere di offerta, e spesso si dice disposta a qualche sacrificio anche economico pur di andare altrove a far la spesa immobiliare, sia quella familiare che di impresa. In fondo nascono così, gli spazi che poi qualche progettista creativo prova a scimmiottare, in genere male, a tavolino.
Il deserto umano della fascia generazionale
Oggi la parola d’ordine dello zoning mixed use (terminologia apparentemente contraddittoria, ma vedremo che non lo è affatto) è di rivolgersi ai ceti rampanti, riaggregando una serie di spazi-funzioni in quella prospettiva, riorganizzando quindi le scansie urbane dell’offerta di prodotti immobiliari e socioeconomici. L’azzonamento a funzioni composite, come il suo antenato più rozzo monovolume monoclasse monouso, è assai più articolato di quel che sembra nello scimmiottare a volte molto credibilmente una «idea di città», salvo poi cascare come un somaro morto alla prova del confronto col quartiere sedimentato. Ci propone, almeno dagli anni ’80 della deindustrializzazione-riqualificazione, prima i quartieri residenziali-terziari degli yuppies, sia in versione gentrificata brutale (nuova edilizia da archistar), sia nelle forme dell’invasione di spazi tradizionali, svuotati come una zucca di Halloween dal loro contenuto sociale, e pronti al consumo. Se un tempo la discriminante pareva soprattutto economica, oggi ferma restando l’incrollabile tendenza del mercato a proteggere i propri valori fissando almeno una soglia minima monetaria di ingresso e permanenza, una fascia di reddito ammessa e altre escluse, il punto pare un altro: il Millennial oggetto del desiderio e modello di consumi, è una fascia generazionale da cui si entra e si esce. Risultato, l’idea sarebbe anche che da quei nuovi quartieri della movida, degli spazi studio-lavoro-residenza, di quella specie di studentato eterno fatto città, sono esclusi gli anziani. Il primo sintomo è l’esclusione degli anziani già tali (vedi articolo linkato), ma probabilmente anche lo stesso Millennial statistico, avanzando nella vita, rischia di trovarsi nella medesima condizione di incompatibilità pianificata. Così si spiegherebbe, anche, il permanere dell’offerta suburbana, sempre in agguato e che non smette di investire nel futuro, aspettando al varco.
Riferimenti:
Nick Curtis, If the over-50s abandon cities then it’s bad for everyone, The Telegraph, 19 settembre 2016