Le mura della metropoli contemporanea

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Foto M. B. Style

In principio c’erano le bestiacce pericolose in giro, da cui difendersi, e i nostri antenati cercavano barriere naturali con cui difendersi dai nemici, sia a quattro che a due zampe: un dirupo, un masso, un corso d’acqua abbastanza largo facevano benissimo il loro servizio. Non si delimitava nulla, salvo quanto era già delimitato di suo, adattando stili di vita e valori. Le cose cambiano però quando la vita si fa un po’ più complicata e intricata nei suoi stili. Prima c’è il villaggio degli agricoltori e occasionali cacciatori delle pianure, che deve delimitarsi con qualche manufatto anche dotato di certa carica simbolico-religiosa, e poi via via ci sono gli sviluppi tecnici che accrescono sia la complessità intrinseca del limite, sia la sua funzionalità territoriale, sia il mica tanto sottile carico per l’immaginario e i valori. Se si scorrono le pagine dei Misteri di Parigi di Èugene Sue non si può fare a meno di notare l’abisso di atmosfere che l’autore rileva e descrive, fra luoghi che non distano più di una robusta passeggiata, ma che paiono assai più lontani, poniamo delle Due Città (una la medesima Parigi di Sue, l’altra la Londra non percorsa dalle violenze popolane) di Charles Dickens. Quei due posti fra cui oscilla fisicamente e psicologicamente la pallida eroina dei Misteri, altro non sono che la brulicante città dentro le barriere del dazio, e il verdeggiante suburbio fuori porta. Non a caso di lì a poco risulterà assai più rivoluzionario delle decapitazioni, il gesto dell’altro Èugene, il prefetto Haussmann, di ribaltare il concetto di boulevard, da baluardo di separazione a grande striscia trait-d’union fra i quartieri, con la borghesia a passeggiarci dentro in posa per i pittori di paesaggi urbani.

Ciò che unisce può anche dividere

Ma sta in agguato, sempre, anche il rovescio della medaglia, perché le strade riescono anche a svolgere l’antico simbolico fortissimo ruolo di limite invalicabile, come il mortale insignificante solco di Romolo e Remo. Accade ad esempio che ci sia una proprietà di terreni che arriva sino ad un certo punto, insieme ai suoi investimenti, e in assenza di altri soggetti a regolare le cose quel limite di investimenti segni il confine con l’assenza di investimenti, tra la ricchezza e la povertà. Nasce il cosiddetto turf, quel territorio di proprietà implicita di segmenti sociali, o bande organizzate, o interessi, i cui confini si segnano secondo codici cangianti, che occorre imparare a decifrare nel linguaggio metropolitano. E c’è infine la pezza peggio dello strappo escogitata da certa ingegneria urbana efficientista, assai poco attenta alle sue esternalità, ovvero di posare successivamente, dentro a quel solco simbolico, le nuove barriere delle infrastrutture stradali, ferroviarie, delle grandi reti. Da un lato sottolineando quasi doverosamente quel che le dinamiche sociali ed economiche avevano già sancito, dall’altro costruendo una specie di dizionario universale delle identità urbane, per cui anche un totale estraneo a quei luoghi (ma non all’ambiente urbano moderno) coglie immediatamente il campanello d’allarme sul cambio di passo determinato da quella soluzione di continuità: le corsie, il sovrappasso, il pendio erboso: inizia un nuovo mondo, attenzione.

Capire è il primo passo

Oggi, la nuova cultura della mobilità dolce, e la critica al ruolo urbanistico determinante dell’auto privata nel XX secolo, quel suo plasmare le città a proprio piacimento mettendo in secondo piano tutto il resto (che altro è la cultura degli edifici Unité d’Habitation, se non una accettazione implicita della resa?), rimette in discussione l’antico cocktail di fisicità e simboli fatto saltare a suo tempo dal boulevard /baluardo haussmanniano. E forse non è un caso se proprio quel termine aveva finito specie nella cultura modernista americana per andare a connotare proprio quelle strisce multicorsia di traffico veloce, i vari Sunset Boulevard dove alberature e solenni passeggi di borghesi a ricucire l’immaginario metropolitano, non se ne sono proprio visti mai. E allora ecco l’enfasi sulla dinamite a far saltare i viadotti della mobilità automobilistica urbana, a «rammendare quartieri» secondo la dizione cara a certi architetti, fra strisce di parchi o soluzioni edilizie «densificatrici», o recupero di sponde fluviali, porti commerciali e turistici, abolizione di barriere. Ma attenzione a non crearne delle altre, di nuovo invisibili ma a forte contenuto socioeconomico e simbolico. Le mura proteggono, da una parte e dall’altra: la città dalle mille luci si ritira la notte dalle minacce della campagna, ma la campagna a sua volta si tutela dietro ai bastioni scoscesi, magari in forma di orti urbani spontanei da pensionati, o quartieri tranquilli perché difficilmente raggiungibili, o senza uscita diversa dal pertugio di ingresso. Diciamo che, senza un progetto generale, un’idea che abbracci società, ambiente, eguaglianza, questa nuova furia iconoclasta contro le superstrade potrebbe solo fare il gioco di qualche speculatore, e alimentare non visto il lontano solito sprawl. Aldilà del limite, degli occhi tuoi, per dirla col solito Rapetti.

Riferimenti:

Justinien Tribillon, Dirty boulevard: why Paris’s ring road is a major block on the city’s grand plans, The Guardian, 26 giugno 2015

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