L’idea di «riportare la natura in città», di mescolare in qualche modo foglie e pietre, non passa mai di moda, e così anche molte delle discussioni sull’agricoltura urbana finiscono per restarne fortemente influenzate, ovvero per mescolare immaginario, obiettivi sociali, vaghe fantasie di per sé innocue ma molto meno se si scambiano per realtà, con più solidi progetti e nozioni. Chi sostiene a vario titolo, pubblico o privato, le attività di produzione alimentare in ambiente cittadino, spesso oscilla tra i due poli delle pure ma strampalate buone intenzioni, o di certo procedere molto terra terra magari produttivo ma solo sul breve termine. Pare sempre utile, anzi indispensabile, imparare a distinguere chiaramente l’entusiasmo dalla realtà. Specie a fronte di una pubblicistica dove un vasetto sul balcone, in grado di «produrre» se va bene tre peperoni in un anno, si trasforma in una specie di lisergica autosufficienza alimentare, mentre l’articolo di giornale è già passato a illustrare fantastici progetti di archistar che riproducono il medesimo vasetto in serie su milioni di davanzali. Insomma ci sono cose che sappiamo, e altre su cui sarebbe molto, molto meglio saperne di più, per evitare che secondo un’altra moda, anche l’agricoltura urbana si trasformi in feticcio, o peggio ancora parola chiave da rivoltare come una frittata a seconda delle esigenze del momento.
Cosa sappiamo
Spazi e metodi, nonché obiettivi ambientali, potenzialità produttive, portati sociali dell’agricoltura urbana, variano a seconda del tipo di attività, ovviamente. Ergo si può dire che quel che sappiamo è l’esistenza di questi tipi, nonché la loro del tutto legittima appartenenza al campo agricoltura urbana, a partire anche dal citato vasetto sul davanzale, che per esempio può avere un altissimo valore sociale e pedagogico, ma (salvo esaminarlo in una logica sistemica e sinergica) scarso valore ambientale e alimentare, di per sé. Il vasetto si può accomunare a tutto quanto è privato, contingente , diciamo così autogestito, e che va dalle colture improvvisate su qualche tetto o terrazzo, all’iniziativa di condominio negli spazi un po’ più grandi sopra i box interrati o sul retro del capannone dismesso, concesso dalla proprietà. Di valore potenzialmente superiore in ambito ambientale e alimentare, tutte quelle colture che già nascono con una logica più complessa e sistemica, ovvero gli orti di quartiere e propriamente urbani, spesso regolamentati dall’amministrazione e promossi in modo pubblico-privato; su dimensioni analoghe e spesso sfumando qualitativamente in modo impercettibile, anche produzioni e gestioni più market-oriented sia legate a una domanda innovativa, comunitaria e molto locale, sia a iniziative tutte da capire come la classica ristorazione che vuole mettersi un fiore all’occhiello. Ultime, quelle attività che hanno come fine ovvio e vistoso il produrre alimenti, con criteri di impresa, anche se adattata all’ambiente socio-spaziale della città: dai campi periurbani inseriti nelle infrastrutture verdi, alle sperimentali vertical farm ad alta tecnologia, e relative reti locali e non. Per ciascuno di questi casi come per altri, restano però aperte moltissime opzioni, e relativi dubbi.
Cosa dovremmo capire meglio
Dubbi che richiedono sia osservazione, che studio, che sperimentazione pratica, per essere sciolti. Anche solo per restare a quell’ambito puramente economico che in tanti, troppi, sopravvalutano nei propri giudizi, ma che è indubbiamente essenziale in una valutazione oggettiva, pensiamo come si sappia poco o nulla su criteri in grado di calcolare sul serio il contributo generale di queste attività al metabolismo locale, e i relativi benefici «nascosti» per altri settori. Quanto possono pesare, direttamente e indirettamente, le nuove attività produttive alimentari urbane, rispetto al mercato del lavoro, in positivo o magari in negativo, che effetti sulla qualità delle relazioni economiche, sui processi formativi, sulle prospettive per i giovani che entrano nel mercato, o per anziani in cerca di ricollocazione? Ci sono poi quegli effetti economici più ampi, ma per nulla indiretti, del tipo di trasformazione spaziale-ambientale-sociale indotta dall’agricoltura urbana su altri ambiti, per esempio la localizzazione di altre imprese, o i valori immobiliari, o i sistemi di trasporto. E quelli diretti relativi alla capacità o meno del settore di attirare investimenti, da aree esterne al bacino locale, oppure internamente ma sottraendoli ad altri canali, e poi il valore aggiunto specifico dell’agricoltura dei vari tipi, o delle attività correlate (trasformazione, distribuzione). Di questo se ne sa pochissimo, mentre invece sarebbe assai utile saperne molto, molto di più, sia per evitare a noi stessi e ad altri di continuare con quell’approccio fatuo e modaiolo prevalente sinora, sia per iniziare a costruire politiche collettive più mirate nel futuro prossimo.
Riferimenti:
Raychel Santo, Anne Palmer, Brent Kim, Vacant lots to vibrant plots, Johns Hopkins University, maggio 2016 (scarica direttamente il rapporto dalla pagina della Johns Hopkins)