In principio era il verde, solo quello e pure troppo. Nel senso che la nascita della nostra civiltà umana coincide più o meno col grande successo del nostro allontanarci dalla natura, o quantomeno dal contatto diretto troppo stretto con alcuni suoi aspetti. Infatti l’insediamento stabile consiste, già nella sua forma minimale, in una obliterazione della natura, che si tratti di qualcosa di molto piccolo come il pavimento in terra battuta di una capanna, o di assai più grande come una città con tutte le sue strade, edifici, fogne, discariche. Al punto che conservare un pezzettino di natura, lì dentro, diventa motivo di orgoglio e ostentazione, dai giardini pensili dell’antichità ai più moderni parchi privati di nobili e ricconi. Con la prima esplosione urbana e demografica dell’era industriale, nella grande città avvengono due fatti complementari: prima l’espansione dei quartieri residenziali e produttivi ingloba e circonda le tenute agricole o giardini formali, poi in tempi più recenti molto di quel verde smette di essere privato ed entra nella dotazione pubblica dei servizi come parco o giardino aperto a tutti, per la salute, la sosta e lo svago.
Un equilibrio tra natura e artificio
Sono questi spazi residui spontaneamente conservati, in tutto o in parte, e sottratti agli originari proprietari e funzioni, ad essere la traccia su cui in seguito nasce l’idea più pianificata del verde metropolitano moderno, di cui il Central Park di New York è in qualche modo l’antesignano. Nasce per motivi sanitari, visto che l’idea di urbanizzare senza soluzione di continuità tutta l’isola di Manhattan, come previsto nel piano originario del 1811 (quello che disegna gli isolati standard di oggi nella griglia ortogonale di strade e viali) si rivela micidiale senza un grande polmone intermedio fra i due corsi d’acqua dell’Hudson e dello East River. Nasce secondo un percorso pianificato, perché quei terreni parzialmente pubblici, ancora lontani dall’essere davvero appetibili per le costruzioni, sono acquisiti alla città e sottoposti a una progettazione architettonico-urbanistica-ambientale d’avanguardia, che riproduce artificialmente su grande scala alcuni processi naturali, addomesticandoli alle esigenze cittadine. La cosa più importante è che questo verde, con tutti i pur contraddittori elementi “di mercato” presenti, come il valore elevatissimo degli immobili che gli si affacciano vicino, esteso alle zone adiacenti che diventano esclusive, ha un forte elemento pubblico, collettivo, e anche identitario. Sarà questa forte identificazione della cittadinanza nel suo parco, a proteggere di fatto il grande rettangolo da infiniti tentativi di speculazione su un secolo e mezzo abbondante.
Il doppio artificio ideologico del verde scolorito
Oggi, a non molta distanza da quel modello di verde pubblico multifunzionale, è stata realizzata la famosa High Line, considerata nuovo modello di spazio urbano per il terzo millennio, modo di portare la natura in città con forme innovative, ma che introduce un fattore dirompente: si tratta, a ben vedere, di qualcosa di totalmente artificiale. Perché di fatto nonostante la grande autonomia delle specie vegetali scelte, e le grandi dimensioni del passeggio, che differenza concettuale esiste fra il recupero a verde del viadotto ferroviario High Line e l’arredo con fioriere di un’area pedonalizzata, asfaltata o lastricata a porfido? Ancora un po’ più a ovest della ex ferrovia recuperata, si fa un ulteriore passo avanti, stavolta dentro fino al collo in un intervento di riqualificazione con immobili di lusso: il parco, evidentemente artificiale/artificioso anche se lussureggiante, è montato sui piloni di un molo dell’Hudson. E dall’altra parte dell’oceano, a Londra, un analogo parco su pilastri nel fiume è concepito addirittura come un green-mall, ponte-passeggio a pagamento che attraversa il Tamigi. Sullo stesso percorso si colloca poi il noto complesso residenziale del Bosco Verticale a Milano, dove ogni parvenza di spazio collettivo scompare, ovviamente con e piante di pertinenza degli appartamenti. In sé, non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che la pubblicistica continua a ribadire che questa sarebbe la “natura in città” del terzo millennio: stiamo forse tornando all’ancien regime, coi poveracci stipati dentro a stie invivibili, e i ricchi col loro verde privato di delizie? La domanda che implicitamente si pone anche questa rassegna di verde privatizzato e tecnologico proposta da The New Republic.
Riferimenti:
How the Rich Are Remaking Urban Parks, The New Republic, 13 febbraio 2015