L’eredità olimpica ai non aventi diritto

Peter Macdiarmid/Getty Images

A Paul Amuzie, pareva l’occasione della vita. Sedicenne, abitava con sua madre e tre fratelli in un alloggio temporaneo, come lo erano stati tutti gli altri da quando i genitori si erano separati. La zona orientale di Londra dove stava, Newham, era una delle più povere e degradate di tutto il paese. Ma adesso si proponeva di farci il Villaggio Olimpico per i giochi del 2012. Studente politicamente attivo alla scuola St Bonaventure, appena a est dell’area prescelta per il progetto, Amuzie partecipava a varie iniziative locali contro la violenza, dopo che si erano verificate gravi aggressioni con armi da taglio, e rappresentava i giovani nell’amministrazione locale. Quando si presentò il progetto olimpico nel 2003, decise di spendere ogni energia nel sostegno all’idea, che avrebbe potuto portare nuovi posti di lavoro, quartieri più sicuri, e la possibilità anche per quelli come lui di avere un alloggio in affitto o magari addirittura di comprarselo. «Non era solo un evento sportivo e occasione di guadagno per qualche costruttore – ricorda oggi Amuzie – ma una promessa di futuro».

Quando le Olimpiadi vennero assegnate a Londra nel 2005, per i sostenitori fu un punto di svolta. Altri giochi olimpici avevano portato tanti danni alle città ospitanti, lasciandosi dietro strutture abbandonate, speculazioni selvagge, danni sociali. Londra sarebbe stata diversa: «Un modello di inclusione sociale». Lasciando in eredità «la completa riqualificazione dell’area a diretto vantaggio di chi la abita». Sebastian Coe, presidente del comitato olimpico londinese, prometteva che le trasformazioni della zona olimpica e delle fasce circostanti avrebbero creato 30.000-40.000 nuove case «per la maggior parte economiche e rivolte a ceti sociali come opieratori sanitari o dell’istruzione».

Sono passati dieci anni da quegli slanci patriottici in grado di unire tutto il paese attorno al progetto olimpico, evocati dal direttore Danny Boyle nella cerimonia di apertura, visione pastorale di una Inghilterra che maternamente si prende cura delle infermiere del Servizio Sanitario Nazionale, ma le case costruite dentro e fuori il sito sono solo 13.000. E di queste solo l’11% effettivamente economiche e accessibili ai redditi medi locali. Mentre nelle quattro circoscrizioni amministrative interessate – Newham, Tower Hamlets, Hackney e Waltham Forest – aspettano un alloggio popolare quasi 75.000 nuclei familiari in povertà disperata. Ci sono anche migliaia di ex abitanti rialloggiati fuori dalle Olimpiadi.

Non era certo questa l’eredità per cui si impegnava Amuzie. Sull’angolo battuto dal vento di Fortunes Walk, nel nuovo quartiere londinese E20, dove Celebration Avenue incrocia Cheering Lane, si stagliano contro il cielo le torri di Victory Plaza. Pareti di cemento che si alzano sino al tetto giardino, al sicuro dalla strada, mentre qualche cartello sulle vetrine vuote ancora promette «abitare nel lusso a East Village»: così è stato ribattezzato alla newyorchese l’ex villaggio degli atleti. Poco lontano un’altra coppia di torri accoglie gli abitanti nel recintato «village green» dove non sono ammessi cani, giochi con la palla, né bambini senza adulti. Entrambi i progetti sono stati finanziati dal braccio della famiglia reale del Qatar e naturalmente nessun alloggio economico. Gli affitti partono da 1.750 sterline al mese per un monolocale e si arriva a oltre 4.000 per la mansarda.

«Pare un enorme tradimento» commenta Amuzie, oggi impegnato come organizzatore sociale con Citizens UK, associazione senza scopo di lucro rivolta alle famiglie in alloggi sovraffollati, e ancora coabita con sua madre e due fratelli a Newham. «Potrebbe anche apparire che l’area sia migliorata, ma non certo per la maggior parte dei suoi abitanti. Hanno portato qui altre persone, e sono quelle che si avvantaggiano. Mentre per me e i miei coetanei non c’è la possibilità di affittare una casa, o di comprarla in condivisione, nonostante tutto il lavoro fatto per le Olimpiadi. L’eredità è una gentrification su dimensioni gigantesche».

Secondo altri coinvolti nel corso degli anni il fallimento è anche peggiore. Nick Sharman dirigeva il settore attuativo alla London Development Agency, col compito di acquisire terreni sloggiando gli occupanti. Recentemente come eletto del Labour al consiglio municipale di Hackney, ha lavorato sei anni alla commissione urbanistica della London Legacy Development Corporation (LLDC), l’ente che avrebbe dovuto realizzare le promesse dei giochi. Oggi è arrivato alla conclusione che qualunque aspirazione originale sia stata abbandonata. «Nessuno ormai fa più neppure finta che possano esistere risultati positivi per gli abitanti dello East End. Tutto è spinto da una ideologia di libero mercato e qualche parolone di buone intenzioni, chiacchiere buttate lì per tener buoni gli abitanti, mentre tutto si rivolge ai più ricchi. Un disastro ad ogni livello».

Anche un ex componente della legacy corporation ha idee pessimiste molto simili. «C’è anche qualche sacca di risultati positivi, ma certo in generale le trasformazioni non hanno migliorato la realtà e le aspettative degli abitanti. Abbiamo scaraventato altre diversissime persone dentro il parco Olimpico creando un enorme squilibrio sociale». Parlando con chi ha ricoperto le varie cariche decisionali olimpiche, e i tecnici che dovevano tradurle in interventi, emergono varie tematiche e occasioni perse. In parte il pasticcio si deve a una certa ingenuità di chi ha iniziato tutto il processo olimpico ancora con la sindacatura di Ken Livingstone. Ma la maggior parte degli allora protagonisti concorda che la vera svolta ci sarebbe stata nel 2008, con l’elezione del successore di Livingstone, Boris Johnson.

La candidatura olimpica di Londra ha pochissimo a che vedere con lo sport. Dopo l’elezione a sindaco nel 2000, Ken Livingstone si è convinto che i giochi sarebbero stati un ottimo metodo per incanalare risorse nella rigenerazione di quella fascia urbana orientale. «Fece assolutamente di tutto per ottenere le Olimpiadi» ricorda Sharman. «Metteva quello al di sopra di tutto il resto. Ma era realmente convinto che avrebbero molto contribuito a trasformare l’area». Lo stesso Livingstone era molto franco sulle sue motivazioni: «Chiedo le Olimpiadi perché è l’unico modo per investire i miliardi pubblici necessari allo East End» dirà nel 2008.

Nel 2004, Livingstone classificava il basso corso del fiume Lea come «opportunity area». Quel corso d’acqua serpeggiante che si insinua verso il Tamigi attraversando la fascia orientale londinese era da lungo tempo ridotto a una discarica, un ammasso di gasometri sbocchi fognari, cavi dell’alta tensione, depositi di rottami e capannoni industriali, mescolati su canaletti minori. Quello stato di inquinato degrado nella domanda dei giochi veniva sottolineato: uno spazio avvelenato dall’industria, una discarica in mezzo ai quartieri più problematici della capitale. Ma «maturo per la riqualificazione» come recitava la relazione.

Nel 2006, comunicando al governo l’acquisizione di terreni da imprese locali, l’ispettore David Rose descriveva la zona luogo di «degrado ambientale, economico e sociale». Doveva essere almeno ripulita perché se ne interessasse qualche costruttore, e le Olimpiadi, con quei grandi bilanci disponibili per bonifiche dei suoli e infrastrutturazioni di base, erano il veicolo ideale. A giustificare l’acquisizione dei suoli c’era anche la promessa di case economiche, con obiettivo del 50% «a servizio dei bisogni della popolazione dei quartieri per continuare a vivere nell’area». Ma da alcune ricerche territoriali universitarie emerge una immagine diversa da quella della discarica. La professoressa Juliet Davis, che dirige la Welsh School of Architecture alla Cardiff University, descriveva il sito nell’ambito della sua tesi di dottorato dedicata alle Olimpiadi. Mappando l’area nel 2006, Davis rilevava oltre 280 attività ad impiegare 5.000 persone, dalla produzione di cinture all’affumicatura del salmone, dalle parrucche alla panetteria. C’era una comunità di persone felicemente insediate in complessi residenziali cooperativi, o una chiesa pentecostale del Ghana con una delle congregazioni più grandi d’Europa.

«Insomma nessuna derelitta dismissione industriale – ricorda Davis – ma tutti sono stati espulsi e ricollocati dopo l’assegnazione dei giochi, molte attività hanno chiuso, altri piuttosto lontano da Londra. Altri ancora certo erano già in qualche difficoltà, ma anziché in qualche modo agevolarli la rigenerazione olimpica esasperava il declino. I cosiddetti «spazi da lavoro economici» realizzati dentro e attorno all’area dei giochi sono di fatto inaccessibili al tipo di attività che erano insediate». Una indagine demografica del 2018 ha rilevato come l’80% dei posti di lavoro al parco olimpico o employment hub sia coperto da bianchi a fronte del 31% nell’area. Spesso alle Olimpiadi si attribuisce il merito di aver salvato un acquitrino avvelenato, costruito case, creato posti di lavoro e centri di commercio scintillanti nell’East End, ma ci si dimentica che gran parte di tutto questo sarebbe avvenuto comunque.

Nel 2003, il progetto di trasformazione urbana più importante dopo la seconda guerra mondiale era presentato da Chelsfield, Stanhope and London & Continental Railways per la parte orientale di ciò che sarebbe diventato poi il sito olimpico. Stratford City doveva essere il nuovo Canary Wharf, luccicante nodo metropolitano con 5.000 abitazioni e 30.000 posti di lavoro dentro il gruppo di grattacieli collegati addirittura all’Europa grazie alla nuova stazione internazionale (per quanto ne sappiamo nessun Eurostar si è mai fermato a Stratford International). Nel luglio 2005, quando i giochi venivano assegnati a Londra, il progetto subiva una radicale revisione. Per risparmiare tempo e denaro si accelerava la realizzazione di 2.800 alloggi perché fungessero da villaggio degli atleti. Come già accaduto in altre città sedi olimpiche, le case venivano realizzate a cura di un costruttore privato, e nel caso venne scelto l’australiano Lendlease nel 2007. Ma con la crisi finanziaria del 2008 la compagnia era in difficoltà, e il governo rilevò tutto il piano del valore di un miliardo di sterline. «Finanziando l’intero progetto il villaggio diventa pubblico e pubblico il vantaggio derivante dalle vendite successive» suonava la promessa della Ministra per le Olimpiadi Tessa Jowell.

In realtà quel villaggio degli atleti venne poi ceduto nel 2011 a circa metà del costo di realizzazione, a una joint venture tra finanziaria del Qatar e Delancey, con una perdita di 275 milioni di sterline del contribuente. L’ingresso pubblico originario nella proprietà e realizzazione avrebbe dovuto tradursi in case economiche, scuola, strutture sociosanitarie, mentre ai privati erano lasciate altre parti degli interventi, centro commerciale, uffici e appartamenti di lusso. Il Westfield è diventato uno dei più attivi shopping centre d’Europa mentre Lendlease dal proprio International Quarter incassa affittii stellari per gli uffici, e Qatari Diar Delancey prosegue nella propria costruzione di complessi a torre esclusivi recintati di lusso col marchio Get Living London.

I particolari del piano esecutivo del 2003 incombono sull’eredità olimpica vent’anni più tardi. All’epoca Londra aveva programmi per un 50% di case economiche, ma al progetto se ne riduceva la quota al solo 30%, sulla base di considerazioni di fattibilità finanziaria. Visto che il villaggio atletico di proprietà pubblica bastava a coprire gran parte della quota di case economiche previste per l’intera Stratford City, le trasformazioni più recenti dello East Village – come le torri di Victory Plaza e altri vicini fabbricati agli steroidi – possono essere realizzate e gestite in regime di totale libero mercato, senza alcun alloggio convenzionato. Con la guida di Robin Wales, sindaco municipale di Newham dal 2002 al 2018, il borough ha lavorato per attrarre ceti più agiati e convogliare parte dei suoi più fortunati abitanti verso l’Essex. «Newham London – uno luogo dove si sceglie di abitare e lavorare» suonava lo slogan un po’ patetico della circoscrizione, inserito dentro i loghi delle promozioni olimpiche. Mentre non si parlava affatto con enfasi paragonabile dell’espulsione di nuclei familiari a basso reddito sino a Stoke-on-Trent.

Penny Bernstock, ricercatrice emerita allo University College London, che ha seguito i processi di costruzione olimpici per gli alloggi economici, sottolinea quanto le statistiche ufficiali – parlano di 3.000 case del genere realizzate dopo i giochi – non calcolino però quelli demoliti per far spazio alle Olimpiadi. Clays Lane era il più importante complesso cooperativo residenziale del suo tipo nel Regno Unito. Realizzato nel 1977, vicino all’attuale velodromo, era un esperimento di costruzione per una comunità coesa rivolta agli abitanti vulnerabili dell’est londinese. La demolizione avvenuta nel 2007 ha sradicato 450 nuclei in affitto low-cost «facendo a pezzi la comunità» per dirla con le parole di un ex residente. Bernstock nota come questa espulsione abbia tolto dalla disponibilità altri 327 alloggi sociali, e dunque il bilancio sia ulteriormente da ricalcolare dal 2012 (in East Village e primo quartiere realizzato dopo i giochi, Chobham Manor): solo 110 veri alloggi economici. Pochissimi a fronte del bisogno.

Una famiglia che ho intervistato è stata in graduatoria per una casa pubblica a Newham 15 anni. Sono in sette e stanno in un alloggio con una sola stanza da letto vicino al parco olimpico, i bambini dormono sul pavimento. «Ci spiegano che noi non siamo prioritari dato che abbiamo un lavoro. Le Olimpiadi hanno peggiorato tutto, fatto aumentare gli affitti, espulso famiglie, e noi scendiamo le graduatorie per la casa anziché salirle». Gli obiettivi promessi per quanto riguarda le abitazioni non sono stati raggiunti: e tutto il resto del quartiere? Invece di essere frutto dell’azione coordinata di molti progettisti, urbanisti, amministratori e gruppi di lavoro, e finanziato da un flusso finanziario pubblico-privato, ciò che si vede dell’eredità olimpica è l’emergere del tutto casuale di singoli progetti specifici.

«Nessuno ci credeva che avremmo avuto assegnati i giochi» mi racconta un architetto che aveva collaborato al masterplan e poi a progetti successivi. «Madrid, Parigi o New York, avevano tutte offerte migliori della nostra. Era logico che Londra non potesse farcela. Ci chiesero di elaborare una versione del piano anche senza i giochi, ovvero come ci immaginavamo che sarebbe finita. Ma poi all’improvviso l’assegnazione e tutte quelle nuove condizioni e vincoli dal Comitato Internazionale Organizzativo. Pensammo: merda! Dovremmo rendere raggiungibile da qualunque casa il parco olimpico in venti minuti spostandosi su una circonvallazione di servizio: era anche solo teoricamente possibile?». Uno dei risultati sono quelle strade grandi, ampie, tantissime, che affettano la zona, rendendola molto più simile a uno spazio espositivo che a un’area di Londra qualsiasi. «Mi fa ancora sobbalzare la vista di certe infrastrutture – racconta un ex coordinatore di progetto olimpico – strade concepite per far girare atleti e funzionari il più rapidamente possibile, vorrei che avessimo magari pensato un po’ di più a cittadini e pedoni».

Il parco olimpico appare tagliato fuori rispetto ai quartieri circostanti e non si tratta di un caso. Quel sito è stato scelto proprio perché aveva dei confini perimetrali definiti, i corsi d’acqua, l elinee ferroviarie, le strade multi corsia, un’isola ad elevata sicurezza, uno spazio che poteva esere interdetto con un preavviso minimo. Si è parlato molto di «ricucitura» alle zone circostanti dopo i giochi, senza però cogliere davvero il punto. «Accessibilità e integrazione sono state affrontate in modo vago e meccanico – racconta l’architetto del master plan – anziché riflettere sui flussi più importanti. Metà almeno dei nuovi collegamenti realizzati non ha alcun senso per chi abita nei quartieri confinanti e che si sente tuttora escluso da lì».

Timori che emergono dai racconti di chi sta fuori da quel definito perimetro. Ethan Suppaya è cresciuto al Carpenters Estate, immediatamente a sud del sito olimpico appena oltre la ferrovia. Di cui sta dalla parte sbagliata appunto, un luogo derelitto da decenni di mancate promesse di trasformazione mai mantenute (il consiglio municipale di Newham ha poi approvato i progetti a maggio ma si può risalire al 2001). Suppaya aveva otto anni all’epoca dei giochi e si ricorda soprattutto un’epoca di traslochi forzati. Lafamiglia sgombrata dall’appartamento che occupava a Dennison Point, dove i nonni avevano vissuto quarant’anni, con la torre destinata ad essere demolita, progetto più tardi accantonato. Oltre il danno la beffa quando quegli appartamenti sgombrati erano usati dalle riprese televisive degli eventi grazie alla posizione vicina elevata favorevole.

«Tutto quel posto pare una città murata» racconta Suppaya, oggi diciassettenne. «Da un lato il mondo olimpico pulito scintillante, dall’altro la vecchia Stratford sporca e scassata. La fermata di autobus più vicina è a quindici minuti a piedi attraverso il centro commerciale Westfield. Ci sono stato solo in gita scolastica, non ha l’aria di essere pensato per noi». Il momento in cui la vicenda olimpica prende una svolta fondamentale è dopo il 2008 con l’elezione di Boris Johnson sindaco di Londra. Nei quattro anni che ancora mancano ai giochi, Johnson imprime una trasformazione radicale alla filosofia dell’evento e del suo rapporto con la città. È molto determinato a lasciare il segno: dal momento dell’assegnazione e della passaggio di consegne e Pechino, quando si conquista le prime pagine col clownesco sventolare di bandiere e straparlare di conto alla rovescia. Sono olimpiade sue personali, dimentichiamoci di Ken Livingstone che pure le aveva tanto cercate e volute. Questo deve ricordare la gente.

Come ricordano molte persone addentro alle cose e decisioni, quelle abitazioni economiche pensate all’epoca di Livingstone, parzialmente costruite come villaggio degli atleti, improvvisamente diventano «troppo europee». È una anticipazione della cultura Brexit, questo notare come dei complessi a corte su dieci piani tra viali alberati paiano più adatti magari a Barcellona che a Londra, insomma una cosa brutta. Johnson e i suo consulenti vorrebbero tornare a qualche tipo di architetture più vittoriane, georgiane: palazzine a schiera, gruppi di ville, usando come modello Bloomsbury o Maida Vale. «Significa fare case da un milione di sterline sul sito olimpico» giudica un progettista durante una riunione dell’epoca. Questo cercare modelli nostalgici e edifici più bassi ha come immediato effetto un drastico taglio di volumi e numero di alloggi, fino a dimezzarlo, dai potenziali 12.000 ai 6.000 del progetto attuale del parco olimpico.

E contemporaneamente la coalizione conservatrice al governo modifica il concetto di «casa economica» definendola di valore sino all’80% di quello di mercato, e nel programma per il dopo Olimpiade si aumenta il peso delle proprietà condivise. Come ha sottolineato Nick Sharman, con questo tipo di «case economiche» ci vogliono redditi annuali di almeno sessantamila sterline, sino a novantamila. Mentre quelli medi dei quartieri nell’area sono di 27.000. «L’unico vero tipo di alloggio economico è quello sociale in affitto. Ma negli primi cinque anni post olimpici costituiva soltanto il 6,4% delle case portate a termine». Secondo l’ente incaricato oggi quella cifra è salita all’11%, e si raggiungerà a completamento il 13%. I programmi edilizi sono stati ulteriormente tagliati, sempre a sentire i bene informati, dal desiderio di Johnsons per «stimolare le curiosità e la meraviglia del visitatore» dei giochi. Con l’idea di proporre qualcosa che rivaleggiasse con la Statua della Libertà o la Tour Eiffel. Da lì nasce l’ArcelorMittal Orbit, monumento al magnate dell’acciaio e sponsor dell’evento, Lakshmi Mittal, uomo più ricco del Regno Unito all’epoca, concepito da Anish Kapoor in forma di intricate montagne russe senza giostra.

«Avevamo già un ottimo progetto di case e rete stradale per quel luogo – ricorda ancora l’architetto del masterplan – salvo che Boris aveva tutt’altre idee. Spuntò dal nulla il concorso per una torre belvedere». Si presentò Antony Gormley, e poi lo studio Caruso St John, con le forme di una specie di molo di attracco verticale. «Si doveva realizzare incredibilmente in fretta ed essere divertente» ricorda Peter St John. «Boris voleva uno scivolo e così l’abbiamo messo in una stanza speciale in cima a cui si poteva accedere e partecipare a un’estrazione a sorte per incontrare il sindaco. Scopo principale del tutto pareva di divertire Boris stesso e farlo ridere. Mi ha fatto piacere non vincere quel concorso» (e l’architetto del masterplan precisa: «Stranamente la giuria scelse il progetto più detestato da tutti»).

ArcelorMittal Orbit doveva essere un’attrazione in grado di produrre introiti, biglietti di ingresso a 17 sterline, ma finì per costare 10.000 sterline la settimana di gestione. Venne infine realizzato uno scivolo nel 2016 sperando di aumentare i biglietti venduti ma senza raggiungere il risultato sperato. L’attrazione ha prodotto un debito di almeno tredici milioni per l’interesse di 9 milioni del prestito di Mittal. La rielezione di Johnson a sindaco nel 2012, spinta anche dall’entusiasmo olimpico, gli aumenta le ambizioni di controllo totale sulle modalità del progetto. Scioglie l’ente già predisposto per gestire il dopo evento e istituisce la London Legacy Development Corporation, sul modello della London Docklands Development Corporation, che aveva realizzato il Canary Wharf negli anni ’80. Si installa alla presidenza e ne allarga i poteri ad una zona più ampia. Per quello che è ormai il marchio di fabbrica Johnson di tratta di una mossa di potere assoluto. Nomina un consiglio «Imbottito di gente invischiata nei suoi interessi» come commenterà una voce informata.

Soprattutto, Johnson fa sì che i rappresentanti eletti delle circoscrizioni locali siano in minoranza nelle decisioni urbanistiche, ovvero che qualunque scelta importante abbia campo del tutto libero. Johnson vuole risultati e li vuole in fretta, prima della scadenza come sindaco. «Ci chiedeva con insistenza di accelerare al massimo l’attuazione degli alloggi post-evento» racconta un ex addetto della corporation. «Tempi tagliati sostanzialmente della metà. Dovevamo fare tutto prima velocissimamente». Una velocità che si pagava cara. «Condizionava tantissimo l’economicità di quegli alloggi. I calcoli originali si basavano su una valutazione dei prezzi tendenziali dei terreni, ma anticipando così tanto la consegna non si poteva contare sulla rivalutazione. Nelle riunioni con Boris, dovevamo constatare sempre come queste grosse decisioni venissero prese senza pensarci troppo. Si osservava magari che in quel modo si aumentavano i costi e la risposta suonava: cosa vuol dire costi?».

Spinto dalle esigenze di bilancio di ripianare parte del debito olimpico il modello economico per le trasformazioni destinate al post evento si basa sulla cessione di superfici interne al parco al miglior offerente in affitto per tempi lunghi. Invece di farsi carico della trasformazione, come oggi cominciano a fare le amministrazioni locali, la legacy corporation ha semplicemente chiamato i grandi costruttori, da Taylor Wimpey a Balfour Beatty, perché ne traessero profitto. Nick Sharman sostiene che, con tutti i terreni già acquisiti dall’ente pubblico, la legacy corporation avrebbe potuto farsi carico direttamente delle trasformazioni, e investire poi nel futuro come per esempio avvenuto nel dopoguerra con le New Town o a Milton Keynes. Invece tutti questi soldi dalla svendita pare non arrivino proprio come dicevano. L’ambizione di partenza di Ken Livingstone era di raccogliere almeno 1,8 miliardi di sterline dalla vendita dei vari lotti edificabili, anche introducendo nell’equazione la quota del 50% di alloggi economici. Ma a soli due anni dalla scadenza dell’ente per l’eredità olimpica, si sono incassati in totale soltanto 239 milioni dalla vendita di terreni. Si citano una serie di ragioni per queste cifre tanto basse, dagli effetti della Brexit, agli andamenti dei prezzi degli immobili e inflazione, al cambio di quantità degli obiettivi per le case economiche (che sono meno e non di più del 50% di Livingstone).

Ma la vera ragione, emerge, è un altro cambio di regime effettuato da Johnson. Nel 2014, quando dopo i giochi il parco olimpico ha riaperto ai visitatori, dopo 300 milioni di sterline in rifacimento de verde, Boris Johnson decide che tutto manca di attrattività. L’Orbit chiaramente non basta a portarci folle sterminate, e si decide che il parco olimpico ha bisogno di un «polo di livello mondiale per le arti e l’istruzione». Prendendo spunto da South Kensington con la «Albertopoli», il quartiere dei musei e delle università nato dopo la Grande Esposizione del 1851, Johnson battezza la sua personale visione «Olimpicopoli». Qualche interesse da parte della proprietà del museo Madame Tussauds e Legoland, ma l’elenco finale pre decisamente di più alto profilo intellettuale. Fissato un traguardo di completamento al 2025, l’ammasso di complessi edilizi a indirizzo culturale comprende un centro e museo della danza V&A Sadler’s, London College of Fashion, studi della BBC e a sud una nuova sede dello University College London. Quest’ultimo pare un enorme calorifero sta accanto all’Orbit e riesce addirittura a far sembrare la massiccia struttura di Kapoor un po’ meno brutta al confronto.

Il progetto è stato rivisto e rilanciato poi col marchio East Bank nel 2018, dal nuovo sindaco laburista Sadiq Khan, nel tentativo di farne un equivalente post olimpico culturale del polo South Bank eredità post 1951 del Festival della Gran Bretagna. Un confronto un po’ difficile. «È come South Bank strizzando fuori tutto lo spazio» commenta un architetto che ci lavora. «Sostanzialmente una megastruttura gigante allestita con stili diversi. Prodotto finale dei metodi attuali di acquisizione». Piers Gough, architetto che siede nel consiglio legacy planning, concorda: «Non ha la grandiosità che dovrebbe avere. Nulla da dire sugli edifici in sé che funzionano operativamente, ma non entusiasma come si poteva ragionevolmente sperare».

Anziché tenere un concorso internazionale per ciascun fabbricato – poteva essere la scelta ovvia per progetti di quel livello – la legacy corporation ha gestito la cosa sul modello dei lotti residenziali, e il concorso ha coperto tutto l’insieme. Il consorzio vincente comprende decorosi studi di architettura (O’Donnell & Tuomey, Allies & Morrison, o i giovani spagnoli di Arquitecturia per l’elegante passerella) ma tutto appare già come deciso dal consiglio dell’ente, quei massicci fabbricati che formano un unico complesso. Resta ancora qualche speranza per il V&A. Progettato da O’Donnell & Tuomey, assomiglia a un granchio di cemento in punta di piedi,sempre pronto ad allontanarsi in fretta da quegli ingombranti vicini. Il sito sarà dominato verso nord da grandi isolati residenziali, quelli che col loro valore aggiunto dovrebbero sostenere economicamente tutto il resto, e che comprendono anche un 35% di proprietà condivisa, ma nessuna vera abitazione economica. Intanto i costi di East Bank sono saliti da 385 milioni a 628, e la legacy corporation garante del rischio, avendo sottoscritto il contratto di affitto a lungo termine di 200 anni con ciascuno dei futuri occupanti.

Boris Johnson non ha risposto alle richieste di una intervista per questo articolo. Sollecitato a rispondere nel 2015 alle contestazioni sugli sprechi dell’eredità olimpica, Johnson diceva che Olimpicopoli avrebbe significato «Enti e attività di livello mondiale nell’area con oltre tremila posti di lavoro e un vantaggio economico di tre miliardi di sterline». Si teme però che il progetto East Bank possa risolversi in un buco nero finanziario come lo Stadio Olimpico. Costruito per un costo di 486 milioni, è poi stato convertito in un impianto per il calcio spendendone altri 274, totale 760 milioni. E resta un costo per la collettività di 10 milioni di gestione all’anno. Nel caso la pandemia è stata una benedizione visto che chiudendolo si è parecchio risparmiato. Come una relazione fortemente critica del bilancio London Assembly notava l’anno scorso: «È quanto meno singolare che con meno eventi per via del Covid-19 il parco olimpico finisca per provocare meno emorragie di denaro pubblico che in situazioni normali». Nelle ultime tabelle lo stadio è stato valutato zero.

Per chi è fortunato a sufficienza da essere entrato negli alloggi lasciati dall’eredità olimpica, è un sogno che si avvera, almeno all’inizio. Nel 2019, dopo undici anni di attesa negli elenchi degli aventi diritto di Newham, l’insegnante Maryam Osman con la sua famiglia riceve la proposta di un trilocale a Chobham Manor, il primo intervento da realizzare dopo i giochi.

«Bellissimo posto per una famiglia – mi racconta Osman – c’è davvero un senso di comunità, e poi il verde davanti a casa un enorme vantaggio come si è verificato nella pandemia. Si va al parco e si scopre sempre qualcosa di nuovo, piccoli bellissimi dettagli che non si conoscevano. Scatto immagini che mando ai miei amici e nessuno riesce a credere che siamo ancora a Londra».

Ma avere un idillio del genere come zerbino di casa non è gratuito. Gli alloggi partono da 465.000 sterlne per un bilocale e si arriva a circa un milione per i più grandi nelle palazzine, mentre nel caso di Osman l’affitto convenzionato è di 260 sterline la settimana: comunque il doppio di quel che spendeva prima. Insieme ai vicini lamenta l’obbligo a sottoscrivere certi contratti per la fornitura di energia con l’operatore East London Energy, che ha un monopolio per quarant’anni sulla zona olimpica. Bollette raddoppiate e quota fissa da trenta sterline al mese. «Un vero incubo» commenta Cath Arnold, dell’associazione abitanti, convinta comunque che il quartiere Chobham sia ottimo per abitarci. «E non possiamo chiamarci fuori scegliendo un altro operatore» (un portavoce di East London Energy dà la colpa delle bollette stellari ai prezzi di mercato dell’energia, e avvisa di altri aumenti a ottobre, mentre le quote fisse valgono sino ad aprile 2023.)

La qualità edilizia non pare però proprio allineata a quello che dovrebbe essere una specie di progetto vetrina: gli abitanti lamentano parecchi difetti. Uno racconta di una causa all’amministrazione, L&Q, per i due anni di attesa nella sostituzione di una ventola di aerazione che ha formato muffa nel bagno. Un altro ha scoperto condotti del riscaldamento non isolati nel soffitto, che gonfiavano stratosferiche bollette, e frigoriferi senza ventilazione sul retro con rischio di incendio. «L&Q sostiene che loro non c’entrano nulla è colpa dei costruttori, Taylor Wimpey». the Nessuno vuole prendersi la responsabilità e noi utenti veniamo fatti rimbalzare qui e là (Taylor Wimpey e L&Q rispondono invece di aver “riconosciuto il danno e preso iniziative per i problemi segnalati mentre sono in corso verifiche su altri da risolvere il prima possibile»).

A differenza dei vicini allo East Village (di proprietà Qatari Diar Delancey), gli abitanti delle nuove case post-olimpiadi (su terreni di proprietà pubblica) soo costretti a pagare una «quota fissa immobiliare» per la manutenzione del parco olimpico, che arriva oggi a 1.357 l’anno per un trilocale. Pagano anche una quota di servizio di 2.500 sterline a L&Q. «Certe cose le paghiamo il triplo del normale senza aver nulla di particolare in cambio» spiega Arnold. «Il verde comune cresce a caso e in generale tutto il posto si sta un po’ lasciando andare» (L&Q riconosce come ci sia «uno storico problema di qualità della manutenzione degli immobili» ma che oggi si sta «attivamente migliorando il servizio»).

«Quella quota per il verde del parco è micidiale – osserva Osman – non capisco perché la paghiamo visto che ne fruiscono tutti». Secondo la legacy corporation quel contributo sarebbe «giusto e ragionevole». E poi precisa come «Questo tipo di versamenti esistono da tempo e vengono sempre più usati nei grandi piani di rigenerazione come questo». Ricordandoci così che nonostante si nomini la Regina questo non è affatto un Parco Reale ma qualcosa di gestito privatamente. Come quartiere coordinato e amministrato da una singola development corporation con indiscutibili poteri di progetto, ci si potrebbe per lo meno aspettare che tutta l’area dentro e attorno al parco olimpico possieda una certa coerenza spaziale. In nessuna altra zona di Londra si è concentrata tanta professionalità sostenuta da tanto denaro pubblico. Ma nonostante tutto pare davvero che le cose succedano per caso.

A sud, lungo l’arteria principale di Stratford, una variegata schiera di torri residenziali si staglia sull’orizzonte simile a una tabella di valori immobiliari inflazionati. La maggior parte è stata autorizzata la vigilia delle Olimpiadi, quando i costruttori calavano freneticamente sulla zona ciascuno proclamando di voler realizzare la «porta olimpica». Questa parata di abbastanza banali pannelli prefabbricati fa da adeguato preludio alla cacofonia di Stratford City, con altre torri di alloggi di lusso e uffici a formare una barriera glaciale sul lato est del parco.

In contrasto con questo genere di immagine, i quartieri più recenti del post olimpiadi hanno optato per una discreta veduta di mattoni stile New London Vernacular. In alcuni isolati dell’ultimo intervento di East Wick anche vaghe allusioni industriali, elementi portanti giganteschi d’acciaio in vista sulle facciate, rottami da un immaginario passato produttivo. Forse una allusione alle ex fuligginose zone di Hackney Wick e Fish Island oltre il fiume, anche quelle in corso di rifacimento radicale con appartamenti in stile falso-industriale, e piani terreni quasi sempre vuoti. Mancano solo due anni alla scadenza della delega di poteri speciali urbanistico-edilizi al privato, col rientro a regime della pubblica amministrazione locale, e la London Legacy Development Corporation continua ad approvare progetti a tutta velocità. A qualcuno paiono delle convulsioni in punto di morte: «Tutto questo dispiego di energie per approvare la maggior quantità di progetti possibile prima che subentri l’ente locale – dice un componente della commissione urbanistica – un po’ mi puzza».

A simboleggiare l’inaffidabilità dell’ente, e questa frenesia degli ultimi giorni, non c’è miglior esempio della Sfera Madison Square Garden. Quando vennero pubblicate le vedute di questo colossale complesso per l’intrattenimento vicino alla stazione di Stratford, concepito come una enorme lucente palla alta come il Big Ben, che brillava visibile da qualunque finestra, pareva uno scherzo. Suscitò l’opposizione di tutti i consiglieri eletti ma venne invece approvata dalla maggioranza di quelli nominati non eletti. «Democraticamente inaccettabile» ricorda Nick Sharman, che la descrive come una «delle più disgraziate approvazioni di progetto a cui ho partecipato». Per usare le parole della parlamentare eletta nella circoscrizione, Lyn Brown: «Questa mostruosa palla fosforescente si prende gioco di tutta l’eredità olimpica dell’est londinese» (un portavoce della legacy corporation ci spiega invece come il progetto della sfera fosse stato «ampiamente modificato» dalla commissione).

Poco dopo l’elezione a sindaco di Sadiq Khan nel 2016, vennero aumentate le quote di case economiche in tutta la capitale, al 35%, che diventata il 50% su aree di proprietà pubblica. Con effetti già sul ultimi quartieri del post-Olimpiadi, Pudding Mill e Rick Roberts Way a sud, concepiti più densi e con alloggi rivolti alle famiglie. Ma con i nuovi obiettivi percentuali si sono manifestate anche conseguenze inattese: la legacy corporation che per inseguire gli obiettivi di case economiche ha acquisito a prezzo di libero mercato alloggi a Chobham Manor da Taylor Wimpey.

Piers Gough, membro della commissione urbanistica dal 2013, avverte di sicuro la contraddizione. «Gran parte delle case sono realizzate benissimo, ma ciò che destava perplessità in noi era soprattutto per chi fossero realizzate. Temo che si stia creando una grande enclave di giovani agiati (mentre la legacy corporation ribadisce che il 64% delle case è rivolto a «famiglie» comprendendo nella definizione anche i bilocali).

«Certo non si può sostenere che alla fine le Olimpiadi non abbiano portato vantaggi economici all’est londinese» giudica Paul Regan, attivo sul tema sin dal 2004 della candidatura come presidente di London Citizens. «Ma il grosso problema è che abbiamo ancora le peggiori condizioni abitative della città». Il progetto olimpico per cui tanto si erano impegnati Regan, Amuzie e tanti altri pensava all’inserimento di un community land trust su una parte consistente del sito, coi prezzi delle case costantemente ancorati al reddito medio locale e quindi permanentemente economiche. L’esperimento del community land trust di St Clement, è un progetto completato nel 2017, ma secondo Regan è l’idea ad essere stata abbandonata dall’ente post olimpico. «Sembravano spingersi sempre più in là nella direzione opposta come sperando che nessuno se ne accorgesse». Se gli si poneva la questione delle case economiche la legacy corporation replicava come le quantità venissero «influenzate» dalle previsioni urbanistiche precedenti. Si dice do aver individuato spazi di proprietà pubblica per altre case, e di un prossimo bando, ma non si sa di quanti alloggi si tratti.

Dopo dieci anni, l’eredità olimpica ha prodotto un bel parco con sparse strutture sportive e case di lusso, e attrazioni culturali. Ma i cittadini più poveri e vulnerabili di quelli che erano e restano i quartieri più problematici di Londra sono restati fuori. Se lo guardiamo dal punto di vista dell’ingegneria sociale, giudica uno studioso si tratta di un esperimento perfettamente riuscito: una città adorabile per chi può permettersela e che espelle i poveri».

da: The Guardian, 30 giugno 2022; Titolo originale: ‘A massive betrayal’: how London’s Olympic legacy was sold out – Traduzione di Fabrizio Bottini

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