«Oh to live on Sugar Mountain, with the barkers and the colored balloons, Though you’re thinking that you’re leaving there too soon», così Neil Young interpretava tanti anni fa il classico rito di passaggio dall’infanzia a un’età più adulta, nella scia di altri spunti letterari contemporanei, almeno dal Giovane Holden in poi. L’interesse particolare della prospettiva scelta dal cantautore canadese, però, qui sta nell’ambientazione dentro un luna park o spazio tematico, o se vogliamo generalizzare un centro commerciale e per i divertimenti, del tipo che oggi gli specialisti contabili chiamano retailtainment. Quello delle giostre è sempre considerato un territorio crepuscolare, non solo perché pensato espressamente per quello specifico passaggio e ritorno nostalgico, ma perché è stato da sempre interpretato in un alogica da enclave, diciamo così a-spaziale. Pensiamo alla genesi della sua versione globalmente più nota, Disneyland, immaginata dal fondatore proprio mentre in tutto il mondo industrializzato si affermava la «fuga dalla città», la suburbanizzazione fisica e mentale della società. Disney sfrutta commercialmente, in modo del tutto analogo a come stanno facendo per il formato del negozio l’architetto Victor Gruen e tanti suoi colleghi, la sottrazione sistematica di funzioni urbane nei nuovi quartieri. La villettopoli costruita nella seconda metà del ‘900 sul modello antiurbano dell’originaria Broadacre di F.L. Wright, manca del tutto degli spazi identitari e fantastici che avevano caratterizzato, nel bene e nel male, la città tradizionale. Così come lo shopping mall «introverso» rivolta come un calzino la via di negozi, restituendocela a pagamento dentro uno scatolone ad aria condizionata, Disneyland concentra infiniti angoli e misteri urbani, aggiungendocene di nuovi inventati di sana pianta, dentro la sua struttura di percorsi, passaggi, attrazioni. Entrambi i modelli, naturalmente, vivono in uno spazio fisico proprio, raggiungibile soltanto con lungo pellegrinaggio penitenziale. Due iniziazioni analoghe e complementari, a qualcosa che prima era del tutto normale e quotidiano.
Muscoli atrofizzati da recuperare
Oggi che – appare piuttosto chiaro a tutti salvo naturalmente alla destra più conservatrice – il modello della dispersione suburbana mostra la corda, lo stesso avviene per quei due suoi capisaldi, e gli operatori privati in parte si stanno già attrezzando, a modo loro. Attrezzarsi a modo proprio, per i commercianti e i divertimentifici tematici, di solito significa cercare quel percorso detto minimo sforzo massimo rendimento: nel suburbio giro un po’ a vuoto, mi sposto verso il centro. Ma questo può avvenire secondo un paio di modelli diametralmente opposti: la seconda Invasione degli Ultracorpi, oppure qualcosa di meno implicitamente ostile alla specie umana, se ci entrano come dovrebbero le nostre istituzioni elette. Se no, che ci stanno a fare? L’invasione degli ultracorpi avviene quando l’organismo cresciuto e perfezionato nello spazio esterno dello sprawl, magari al centro del meta-non-luogo di uno svincolo autostradale, pretende di catapultarsi dentro un ambiente urbano senza troppe modifiche. È successo di recente coi marchi di big-box in alcune città degli Usa, che complici regole urbanistiche e convenzioni non troppo lungimiranti, in pratica si sono limitati a qualche aggiustamento minore (meno superficie di vendita, parcheggi in silo, offerta commerciale tarata su clientela diversa). Col risultato, abbastanza surreale, di scoprire con sorpresa – loro – che la città non è un suburbio denso, ma qualcos’altro. Poi c’è un percorso più virtuoso, come quello dell’integrazione e riqualificazione, ovvero l’ultracorpo quando decide di non essere più tale, di trovarsi bene sulla terra e volersi sposare la ragazza della porta accanto. C’è l’esempio delle giostre extraurbane per eccellenza da guardare: Coney Island, la Sugar Mountain paradigmatica da un secolo e mezzo a questa parte.
La metabolizzazione delle montagne russe
Il caso di Coney Island, anomalo ma che al tempo stesso indica un percorso di grande interesse e si vorrebbe più generalizzato, intreccia parecchi fili di differenti matasse: un Luna Park al tempo stesso suburbano ma di collocazione periferico-metropolitana, già con caratteri parzialmente urbani come i quartieri popolari adiacenti; il degrado commerciale di alcune strutture e attrazioni, che però al tempo stesso costituiscono di per sé una specie di bene culturale o monumentale, funzionanti o no secondo le idee originarie dei promotori; la potenziale integrazione con la zona circostante, in presenza di infrastrutture di trasporto, spazi da riqualificare, molti soggetti piccoli e grandi disponibili a investire. Mancava l’intervento pubblico, non un intervento solo burocratico che dice guarda il piano urbanistico e poi fai quel che vuoi dentro le sue regole, ed è arrivato in forma di «Documento strategico per la riqualificazione dell’area», preliminare a varianti specificamente urbanistiche, e ad altri interventi di carattere fiscale o ambientale. Obiettivo? Trasformare il Luna Park in un quartiere a funzioni miste, senza fargli perdere la qualità delle attrazioni, ovvero un posto che si distingue certamente dagli altri quartieri della città, ma perde quella natura di enclave a-spaziale, sinora caratteristica degli Ultracorpi Suburbani dove si va a sognare a pagamento. E pare che con le varie iniziative nelle varie città del mondo per i divertimenti stagionali, in strutture temporanee o fisse, la tendenza si stia affermando: speriamo bene, ad esempio per il futuro della nostra Expo o ambienti analoghi, che non diventino «cittadelle» già in crisi funzionale o di integrazione prima ancora di nascere.
Riferimenti:
Natalie Glanvill, UK’s biggest urban beach arrives at Olympic Park, Guardian Series, 10 luglio 2015
City of New York, Piano per la riqualificazione dell’area di Coney Island, 2007 (traduzione di Fabrizio Bottini)