Si pensa che commercio digitale e nuove tecnologie in genere possano alleggerire il ruolo spaziale dei conglomerati immobiliari legati alla grande distribuzione: in realtà pare avvenire l’esatto contrario, e si aprono scenari al tempo stesso inquietanti e stimolanti. Fin dai tempi in cui ancora dominava quasi assoluta la fantascienza hard core – alla Isaac Asimov o Arthur C. Clarke – c’era un metodo molto scientifico per verificare la legge del loro collega Theodore Sturgeon, quella secondo cui il 95% della produzione fanta-letteraria fosse fatto di spazzatura: bastava dare un’occhiata rapida alla trama dei romanzi. Era sostanzialmente il tessuto delle storie a far capire, in breve, se si trattava di fuffa western con le astronavi al posto delle vacche, o di romanzetti rosa suburbani turbati da dischi volanti anziché dalle solite formiche a rovinare il picnic. Oppure se, seguendo lo spunto dell’innovazione scientifica, sociale, culturale, la vicenda provava a svilupparsi tirando magari all’estremo certi presupposti. Così per dire: non ci voleva certo un genio della scrittura, a riciclare con qualche marchingegno atomico aggiunto La Macchina del Tempo di H. G. Wells, e spedire una famigliola americana a vedere i giochi del Colosseo invece della partita di baseball. Servivano invece intelligenza e perspicacia, per lavorare in qualche modo attorno ai paradossi storici legati alla modifica del passato, o ai futuri alternativi tipo Sliding Doors. Oggi la legge di Sturgeon si rivela valida anche per l’innovazione di gran moda, e i suoi profeti e futurologi da strapazzo: la smart city e dintorni.
Sono anni, che ogni tanto con clamore degno di miglior causa spunta qualcuno pronto con toni accorati a sostenere sciocchezze di ogni ordine e grado. Esattamente del tipo che connotava la fantascienza fuffa delle origini, ovvero si prende l’innovazione scientifico-tecnologica e i suoi effetti immediati prevedibili (o che convengono a chi la propone sul mercato), e ci si costruisce attorno un ridicolo mondo del futuro, come se a cambiare fosse solo quello che l’autore riesce a controllare col suo cervello da gallina conformista. Sulle telecomunicazioni per esempio ne sono state dette di tutti i colori, nonostante i notevoli sforzi di chi prova a pensare, come fatto negli anni scorsi dalla cultura cosiddetta cyberpunk. Nonostante questo, appunto, altri, tanti altri, continuavano a dipingerci un mondo a compartimenti stagni, dove famigliole anni ’50 invece di scorazzare su una station wagon cilindrata 3.000 si aggiravano per l’etere da goffissime postazioni desktop … per fare ancora all’alba del terzo millennio stupidissime cose in stile anni ’50. In questa scia di pensiero si colloca l’idea balzana della cosiddetta smaterializzazione del commercio: c’è internet, a cosa serviranno mai ancora i negozi e gli scaffali? Così ogni tanto ci spiega l’idiota di passaggio.
Confondendo, evidentemente, l’ottocentesco telefono con l’attuale click sullo schermo (in fondo fanno tutti e due click, no?), e i cataloghi online con quelli classici cartacei postali, che dall’alba della produzione industriale di massa ti portavano qualunque diavoleria, pagamento contrassegno, anche se stavi in prima linea nella Guerra di Secessione. Invece, chi prova a essere davvero un po’ smart, come la city che vorrebbe anticipare e contribuire a migliorare, sa bene che quando si muove una tessera del mosaico anche tutte le altre iniziano vorticosamente a riposizionarsi, in cerca di nuovi ruoli o per rafforzarne dei vecchi. Prendiamo il centro commerciale e la valanga di interessi che gli ruota attorno, colpiti sì dalla cosiddetta rivoluzione digitale, ma anche e forse più inaspettatamente da una crisi economico-immobiliare e da una riconversione energetica e geografica di proporzioni enormi. Detto in estrema sintesi, l’antico modello dello scatolone extraurbano onnicomprensivo per tutta la famiglia, transumante su station wagon del fine settimana, non si trova solo davanti la concorrenza della sua versione virtuale, della passeggiata a colpi di click su un sito web, ma anche della poca voglia di investire tutto quel tempo e soldi per il pellegrinaggio alla mecca della scatoletta, o la ancora meno voglia di sentirsi uno sprecone fantozziano di energia, soldi, risorse ambientali.
È questo intreccio di questioni che a partire dagli anni ’90 circa ha portato alla progressiva crisi dello scatolone «introverso» suburbano classico, e alla migrazione/mimesi urbana degli operatori, o almeno di alcuni operatori. Molto significativo il caso dell’australiana Westfield, che in una delle città centrali e globali per eccellenza, Londra, ha messo a segno due colpi grossi come Sheperd’s Bush e la più famosa «porta olimpica» a Stratford City. Nonostante si tratti di operazioni saldamente ancorate a cose più che tangibili, cemento, vetro, asfalto, insegne al neon che brillano nella notte, hanno tutte moltissimo a che fare con la smaterializzazione e la smart city. Anzi, si può dire che ne fanno parte integrante. Perché basta seguire un pochino i comunicati stampa, per cogliere la complementarità delle due cose, il percorso parallelo ad altri apparentemente lontani come quello della gentrification dei quartieri centrali degradati, dei giovani che non sono più interessati a scorazzare in macchina per svincoli e megaparcheggi, della segmentazione e de-massificazione dei consumi, più personalizzati, o della nuova composizione delle famiglie, della stratificazione culturale nelle aree metropolitane … Basta? Naturalmente non basta, ma dà un’idea.
L’idea che se si vuole stare all’avanguardia nello spostare soldi dal nostro portafoglio alle casse dei signori Westfield, ai signori Westfield stessi conviene tallonare da vicino i nostri gusti: il cliente ha sempre ragione, no? Suona quindi del tutto consequenziale l’annuncio del varo di un grande laboratorio di ricerca urbano per studiare le potenzialità di convergenza fra gli aspetti digitali del commercio e il suo contesto fisico tradizionale: a San Francisco i Westfield Labs, diretti dal super-geek Kevin McKenzie. Lasciando agli appassionati del settore il compito di approfondire la figura di questo manager, credo valga la pena di sottolineare un paio di aspetti: la localizzazione di questi laboratori, e cosa esattamente dovrebbero studiare e sperimentare. Stanno a San Francisco, ovvero al centro di una densissima area metropolitana, e non segregati in un office park fantascientifico della vicina Silicon Valley. Invece di atterrare nei prati come la ridicola astronave escogitata un paio d’anni fa dalla coppia Steve Jobs-Norman Foster, i laboratori Westfield replicano parecchie migliaia di chilometri più a ovest mega-operazioni di riqualificazione urbana assai simili a quelle di Sheperd’s Bush e Stratford. E si vanno a collocare nel bel mezzo del processo di ri-urbanizzazione socioeconomica che interessa alcune aree metropolitane chiave degli Usa, particolare versione locale della più nota urbanizzazione globale.
Cosa ci fa un laboratorio metropolitano di interazione e convergenza tra mondo fisico e digitale del commercio, nel bel mezzo di una città in trasformazione? Fa proprio il lavoro del bravo scrittore di fantascienza, anche se su commissione: verifica i possibili impatti delle tecnologie sui comportamenti individuali e collettivi. Che rapporto può avere il portatore sano di smartphone coi consumi, i prodotti, gli spazi in cui si contestualizzano beni e servizi che comprerà? La sua tavoletta intelligente può guidarlo mescolando il catalogo virtuale e il listino dei prezzi e delle offerte, a una mappa interattiva dei posti dove può toccare con mano, assaggiare, sperimentare. Il suo telefonino può essere anche ambasciatore e archivio interattivo dei suoi bisogni, orientamenti, preferenze per tutto quanto riguarda consumi e contesti spaziali in cui avvengono. Infine, lo smartphone è così smart che diventa lui stesso negozio, almeno dal punto di vista della vetrina e della cassa, ribaltando l’idea del rapporto interno-esterno, delle barriere, degli accostamenti fisici tematici, delle concentrazioni e prossimità. Tutto questo annulla i luoghi, come pensavano quei futurologi di mezza tacca? Figuriamoci se Westfield rinuncia alla sua potenza immobiliare che tanto incide sul fatturato! Città per soggetti del genere vuol dire metro cubo, valore aggiunto, investimenti, rendita, altro che.
Eccolo qui, forse, uno degli aspetti inquietanti della cosiddetta convergenza fra gli aspetti digitali del commercio e il suo contesto fisico tradizionale. Si è discusso negli anni recenti di come la tendenza ad allargare i contenitori commerciali, a decontestualizzarli rispetto alla città tradizionale, cancellasse e banalizzasse l’idea di spazio pubblico. La digitalizzazione apparentemente potrebbe fare molto per contribuire a superare l’idea del grande negozio pervasivo e ipnotizzante, del consumo indotto dall’immersione totale in un ambiente creato ad hoc (è questa l’idea di partenza del mall «introverso» di Victor Gruen in tutte le versioni antiche e moderne). Ma non va dimenticato cosa sia successo negli anni recenti con il ritorno della grande distribuzione verso la città e il suo tessuto complesso: quartieri apparentemente restaurati o ricostruiti secondo criteri urbanistici del tutto normali, ma che in un modo o nell’altro si rivelano poi gated retail communities per scelte architettoniche, concessioni sulla sicurezza da parte delle città, sottili accorgimenti organizzativi. Con gli strumenti digitali questa tendenza può amplificarsi all’infinito, includendo ed escludendo dallo spazio reale e virtuale a seconda di criteri a dir poco antidemocratici, o subliminali.
In pratica, la trasformazione dello spazio fisico urbano, mentre noi stavamo come allocchi a contemplare lo schermo col listino prezzi e il modello tridimensionale per raggiungere il ristorante etnico, potrebbe far diventare intere sezioni della metropoli una specie di fortezza a ingresso (e uscita) controllato con criteri militari. Potrebbe anche tradursi in questo, la convergenza dei due aspetti, almeno se si lascia solo al mercato l’iniziativa di riflettere sul tema. Esiste qualche idea, o ideale, di spazio pubblico digitale convergente con lo spazio fisico della via, della piazza, del luogo di relazione? Una città social-network dove al click «Mi Piace » possa corrispondere o aggiungersi anche una pacca sulla spalla? E chi può e deve garantire questo contrappeso al monopolio possibile degli operatori provati e dei loro interessi? Questioni aperte, ovviamente, ma che meritano un pochino di attenzione in più di quanta non glie ne venga dedicata ora. Non facciamo come gli scrittori di fantascienza di serie C! Quantomeno proviamoci, a dedurre e ipotizzare scenari che tengano conto della complessità: certo secondo la legge di Sturgeon poi escogiteremo un 90% e oltre di sciocchezze, ma provarci, quando riguarda la qualità della nostra esistenza, vale sempre la pena.