Scagli la prima pietra (o mattone forato, se risulta più comodo) chiunque non abbia subìto prima o poi il fascino perverso della fama di un quartiere, accorgendosi solo con un bel po’ di ritardo della distanza tra quella vagheggiata atmosfera e la realtà tangibile, nel bene e nel male. Ci sono posti che godono di qualcosa di più di una solida reputazione, perché proiettano non tanto la propria immagine, quanto la propria storia, si tratta di quelli più noti, o comunque non particolarmente bisognosi di notorietà oltre quella spontanea. Ce ne sono altri che invece un po’ se la cercano, ad esempio per motivi classicamente turistici, oppure (ed è il caso più recente e subdolo) perché oggetto di campagna mirata a scopi facilmente riassumibili nella speculazione immobiliare. Succede cioè che, in modo uguale ma contrario a quanto accadeva prima dei classici sventramenti otto-novecenteschi, attorno a uno spazio urbano venga costruita un’aura mitica, con o senza qualche riscontro reale.
Sinergie gentrificanti
Sembrerebbero sostanzialmente due le tecniche di intervento per trasformare un quartiere: la prima consiste nella sostituzione di parti sostanziose con edilizia nuova, o rinnovata, vuoi conservando alcuni caratteri generali spaziali, vuoi modificandoli; la seconda è la classica sostituzione sociale, con infinitesime o nessuna trasformazione (magari ci penseranno più tardi i nuovi abitanti, a quelle). Poi la trasformazione edilizio-urbanistica e la sostituzione sociale si possono affiancare, sovrapporre, intrecciare variamente nel tempo e nello spazio, anche se di solito tutto avviene con una relativa rapidità e radicalità. Va osservato che già in entrambe le due forme di trasformazione urbana esiste, in tono certo minore, un certo ruolo della comunicazione pubblicitaria, della classica promozione immobiliare attraverso i media. Però, nello stesso modo in cui certe tecnologie innovative trovano applicazione pratica lontanissimo dagli ambiti per cui erano state originariamente pensate, anche questa forma minore di pubblicità, relegata a volantini di carta da due soldi o cartelli scoloriti inchiodati a un muro d’angolo, nell’era dell’immateriale sembra aver fatto un balzo gigantesco, a volte addirittura sostituendosi o quasi alle due forme brick & mortar o sociale classiche di valorizzazione-speculazione-trasformazione urbana.
Il suo nome è il suo programma
Perché un immobile a Montecarlo vale infinitamente di più del suo equivalente a Imperia? Certo chiunque potrebbe sciorinare motivi cosiddetti di mercato a profusione, ma altrettanto sicuramente nessuno potrebbe negare che una parte del leone la fa proprio quel marchio, il brand Montecarlo, del tutto indipendente sia dai valori d’uso che da altri fattori, e che anzi li condiziona. Esisteranno spazi di gran pregio, comodissimi, investimenti sicuri eccetera nel capoluogo ligure, che però non possono assolutamente competere con orridi tuguri congestionati e senza alcuna visuale, che però esibiscono il marchio Montecarlo, oh chérie ritorna eccetera eccetera. L’hanno capita ahimè tanti operatori questa regoletta, e con il progressivo smaterializzarsi di tutto quanto ha così finito per smaterializzarsi parecchio anche il peggio del peggio della speculazione: invece di trasformare tessuti, di infiltrare redditi alti là dove ce ne sono prevalentemente di bassi, adesso senza neppure sfiorare un quartiere gli si appioppa un bel nome, strappandogli l’anima. Meglio ovviamente se è un nome nuovo diverso da quello che aveva prima: regola ovvia nella moda o in qualsiasi altro campo commerciale, un po’ meno sinora nelle trasformazioni urbane. Nascono così, in fondo sulla scia delle vecchie lottizzazioni salici piangenti (che prima strappavano quei salici per costruirci sopra, e poi li riproducevano nel nome e magari sui cartelli) tutti i cloni del mondo. Di solito paludando un district da qualche parte, che non fa mai male, ma sempre provando ad aggirare l’attenzione di chi dovrebbe invece vigilare: amministrazioni, cittadini, cultura urbanistica progressista. Meditate sull’articolo che segue, pieno di sigle manco fossimo a un convegno di stilisti: servono solo per cacciarci fuori da casa, con la scusa che non le apparteniamo più.
Riferimenti:
Arwa Mahdawi, Neighbourhood rebranding: wanna meet in LoHo, CanDo or GoCaGa? The Guardian Cities, 15 gennaio 2015