Tutti ricordiamo la scena preludio di 2001 Odissea nello Spazio, quella dove nel gruppo di scimmioni intenti alla baruffa, uno raccatta da terra quasi per caso un osso, e lo usa per fracassare il cranio all’avversario. Dalla pratica alla teoria, nella finzione cinematografica il passo è fulmineo: l’irsuto antenato di tutti i nerd si guarda per un istante quella scoperta del secolo tra le mani, e poi esultando la lancia a carambolare in aria. Dove la vediamo transustanziare dopo pochi istanti in un satellite che carambola in orbita, saltando anche noi a piè pari qualche milione di anni e di storia di crani fracassati, dai discendenti dell’inventore e del suo geniale attrezzo. Forse è quella linearità, quel mettere da parte il dettaglio dei milioncini di anni di esperienza technology assessment, a falsarci la prospettiva, perché intenti ormai a cercar di scoprire cosa sta dentro quella post-clava orbitante, ci scordiamo di provare a valutare se magari ci fossero alternative, mettendoci nei panni dell’altro tizio (anzi di tutti gli altri tizi pelosi), quello che non avendo fatto la scoperta del secolo se l’è ritrovata tirata sul cranio, con le note conseguenze. La nostra prospettiva falsata, che ci fa dimenticare tutti quei sadici esperimenti tecnologici sulla pelle del prossimo, altro non è che quella puntualmente assunta dai nerd di tutte le epoche, quelli che prima chiusi nel laboratorio in sottoscala, poi in giro a promuovere la loro pensata, sono convinti di cambiare il mondo. E spesso ci riescono pure, ma a che prezzo.
Piedi di piombo? Niente affatto
La spontanea diffidenza di tutte le generazioni di contadini, che chini sul loro sudato solco si vedevano sfrecciare davanti qualche sputacchiante prodotto di Satana (così pensavano loro), altro non è che un technology assessment improvvisato, ovviamente pieno di errori e ingenuità, ma non sbagliato in linea di principio: prima di scatenare certe cose potenzialmente mostruose, l’esperienza insegna da molto, molto tempo, di provare a immaginare quel che succede nel contesto. Il pensoso architetto individualista americano che negli anni ’30 del XX secolo immaginava di dar forma concreta alla «fine della città» sognata qualche lustro prima per puri motivi di business da Henry Ford, chiamava Broadacre quello che pensava essere una sua elegante interpretazione estesa e «libertaria» (in senso americano) della città giardino. E invece contribuiva non poco a scatenare l’inferno autostradale, già in agguato con le mire espansionistiche dei venditori di automobili, dei costruttori di strade, villette, centri commerciali, mega-poli di servizi sparsi sulle ex campagne. E poi giù a cascata, dei venditori di trabiccoli individuali e familiari che sino a quel momento nessuno mai si sarebbe sognato di spendere un centesimo per comprare, ma che nella nuova frontiera della dispersione urbana diventavano del tutto indispensabili, dalla motofalciatrice alla sala musica-video privata e via andare. Il buon architetto individualista Frank Lloyd Wright, attempato nerd suo malgrado, faceva però anche di peggio e di più, nei suoi sognanti schizzi, inopinatamente infilando in quell’elegante paesaggio autostradal-villettaro firmato, delle «utopiche» macchine volanti, giusto per dar l’idea che lo spazio fosse davvero broad e aperto al 100% alla conquista della nuova società. Sciagurato! Perché qualcuno prima o poi avrebbe abboccato all’amo, un nerd da sottoscala nelle forme perverse di moda oggi, ovvero inquinate dal verbo finanziario liberista.
Chi scaglia la prima pietra non la prende sulla testa
Dall’epoca della suburbanizzazione automobilistica di massa montante, ne abbiamo viste davvero di tutti i colori, dentro e fuori città, quanto a «soluzioni tecnologiche dei problemi», ma almeno nel caso di qualcuna ci ha pensato la famosa diffidenza contadina a raffreddare gli animi e salvarci da qualche eccesso di disastro. L’elicottero, per esempio, non è si è mai evoluto in quella sognante diavoleria schizzata sullo sfondo di Broadacre, restando una molto ingombrante, inquinante, relativamente rara macchina da guerra o da emergenza, con un ruolo assai diverso da quello dell’auto di massa e relativo sequestro della nostra vita, ambiente cervello e raziocinio per alcune generazioni. I motivi di questo «mancato successo di mercato», stanno nei limiti dell’evoluzione tecnologica e organizzativa, vuoi dei motori, vuoi dei carburanti, vuoi delle infrastrutture, vuoi infine dei sistemi di pilotaggio, gestione e dulcis in fundo nel portato economico di questa mancata massificazione: costa, costa moltissimo, l’oggetto e la sua gestione, roba per pochi e in pochi casi. Così, quando vediamo passarci sulla testa qualcuno di quei servizi di trasporto rapido per ricconi o potenti sopra il traffico e il trambusto dei comuni mortali nelle città, ci consoliamo perlomeno pensando che mai e poi mai quella grossa ingombrante libellula possa diventare come le automobili. Ma ahimè, c’è sempre il nerd in agguato, da qualche parte, e oggi assume le forme inquietanti (visti i precedenti) post-tecnologiche di UBER, la smaterializzatissima impresa tecnologica famosa soprattutto perché con la scusa di abbassare i costi abbassa anche ogni aspettativa umana, e di fatto campa (alla grande) di frattaglie della modernità. Adesso, nella loro elasticità smaterializzata, cosa si sono messi in testa, a UBER? Di resuscitare, o meglio di far resuscitare ad altri che ci investiranno loro, la macchina volante di massa che non abbiamo mai visto. C’è un problema di inquinamento? Si risolverà, studiando. C’è un problema di organizzazione urbana? Si provvederà organizzando degli eliporti sui tetti, dappertutto, modificando gli edifici. E via di questo passo, potenza dell’immaginazione. E noi? Forse è meglio attivare la nostra atavica diffidenza da contadini, e avvisare anche i nostri politici, che gira certa roba, certe idee esplosive, da maneggiare con molta, molta cura, e soprattutto da conoscere, da non ignorare.
Riferimenti:
UBER, Fast-Forwarding to a Future of On-Demand Urban Air Transportation, rapporto 27 ottobre 2016