Molti sostengono che con la cultura non si mangia. A suo modo una battuta azzeccata, perché dice qualcosa di vero, pur nella sua odiosa prospettiva, ovvero che stanti certi attuali orientamenti contabili non è certo col sostegno al teatro off e al restauro di un bastione, che sarà possibile far profitti. La cosa suscita tutta l’ovvia indignazione possibile, ma è innegabilmente vera, nel suo angusto e contestuale enunciato. Così come è innegabilmente vero, che le riflessioni sugli eventi di violenza urbana (o di paure urbane varie) tendono a involarsi quasi subito verso massimi sistemi: ragionamenti degnissimi, a volte, ma che dal punto di vista della conoscenza specifica ci lasciano al punto di prima.
In certi casi in disagio urbano si esprime in razzismo popolare, variamente mescolato a sottoculture familiste, sessiste, alle altre questioni delle periferie abbandonate, ai tagli al welfare, e in effetti paiono anche giustificate certe domande ed esortazioni a «chiedersi se i venti anni di liberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica anche da governi progressisti nazionali e locali, non abbiano minato alla radice la città pubblica, il bene comune per eccellenza» (Paolo Berdini). Altrove scende in campo la pianificata strumentale violenza dell’estrema destra terzo millennio, il che certo evoca sia lo smarrimento per l’inconoscibile della mente umana alla radice di tutte le violenze assurde del genere, sia le mancate risposte generali all’illegalità oggettiva di certi gruppi, qualche volta tollerati a scopo elettorale. L’uno e l’altro ottimi principi, quelli delle reazioni e spiegazioni citate, con cui però ahimè si continua a «non mangiare», ovvero a non entrare nel merito delle questioni.
A non battere chiodo nel caso, eventuale, in cui si volesse davvero risolvere qualche problema anziché invocare paradigmi generali di ordine sociale, politico, di convivenza ecc. E evitare per esempio, che altri portatori di paradigmi alternativi finiscano per imporli, magari in ottima fede. Allora riavvolgiamo il nastro. Ci sarebbero le possibilità di rivolte frutto di scelte urbanistiche sbagliate e per nulla progressiste, oppure al contrario da queste in realtà contenute negli effetti più devastanti. Oppure disagio e rivolte da disinvestimento nei servizi sociali e di sostegno alle famiglie, oppure al contrario lassismo dei medesimi servizi, una scuola che non sa più insegnare disciplina e cittadinanza, la televisione che impone modelli scemi e consumisti. Ce ne sarebbe per tutti i gusti: perché ogni specialismo o punto di vista trae spunto e porta un po’ d’acqua al proprio mulino. Ma qualcuno forse è un po’ più sistematico di altri, come l’indagine sociologica lanciata immediatamente dopo le rivolte estive londinesi dalla in collaborazione (l’indagine, non le rivolte) tra la London School of Economics e il quotidiano progressista Guardian.
Ricerca mirata a capire in che contesto sociale, motivazionale, ambientale urbano, familiare, di gruppi e bande, da quali ragioni individuali e collettive si possano innescare le riots. Il metodo parte dalle interviste dirette a chi è stato protagonista degli eventi, ed è ispirato a quello utilizzato già a Detroit a metà ‘900 con la collaborazione fra università e giornali locali. Altre interviste riguardano l’altro versante della barricata, ovvero forze dell’ordine e magistratura, ma l’aspetto più interessante ricerche così si possano oggi leggere in diretta, in progress, e affiancare ad altre elaborazioni dati, osservazioni specialistiche, cronaca, commenti, approfondimenti.
Così le reazioni si possono tranquillamente e pure legittimamente etichettare: se l’orientamento è conservatore si legge tutto come problema di mancata responsabilizzazione degli individui, se si è progressisti la tendenza sarà di trovare magari l’anello debole nella crisi del welfare nelle sue varie manifestazioni. Di sicuro così, però, anche i più impavidi decolli verso l’iper-uranio di grandi principi e nuovi paradigmi avverranno sempre con l’ancoraggio di controllo del dato empirico in forma accessibile. In altre parole: se esiste un riferimento di conoscenze certo e aperto, dotato di una propria struttura, legittimazione, elasticità, l’eventuale malafede o pura ingenuità del nostro cosiddetto «benaltrismo». Mica poco.
Riferimenti:
The Guardian (pagina tematica), Reading the Riots, 2012