L’equilibrio necessario tra momenti individuali, familiari, collettivi, pubblici, e i relativi spazi e manifestazioni sociali ed economiche, appare questione cruciale esattamente nel momento in cui essa subisce quei violenti scossoni logici determinati dall’ospedalizzazione dell’esistenza in epoca di emergenza Covid-19. Forse ben oltre gli aspetti produttivo-finanziari o di efficacia delle misure restrittive, basta pensare agli ettolitri di inchiostro liquido o elettronico versato da poche settimane a questa parte a proposito della domesticità e della governabilità delle interazione interne ed esterne a quell’ambito. Quanto effettivamente sicuro e tollerabile diventava per individui e nuclei familiari compositi, restare rinchiusi dentro l’ambito privato dell’alloggio? E non esisteva il rischio che l’appiattimento piuttosto burocratico delle militaresche ordinanze di sicurezza sanitaria finisse per penalizzare inutilmente troppo un certo modello abitativo rispetto a un altro? Problema che per una volta non mette tanto in alternativa l’urbano e il suburbano, ma una serie molto graduata di soluzioni, le cui variabili non stanno solo nelle dimensioni fisiche dell’alloggio, pur importanti. Cambia, da una soluzione all’altra, anche quanto e come l’alloggio privato si rapporta con quegli spazi non più strettamente individuali-familiari che scivolano verso l’ambito pubblico-collettivo di prossimità.
Unité d’Habitation e villetta suburbana pari sono
A ben vedere il grande complesso coordinato che attraverso gli strumenti della progettazione architettonica avoca a sé e porta all’interno una serie di funzioni di quartiere, e la classica villetta unifamiliare dove ogni aspetto dell’esistenza viene ridotto alla fruizione individuale e privata, hanno in comune un aspetto fondamentale: l’assenza di qualunque gradualità nel passaggio di scala e ambito. Oltre, che naturalmente e come sta emergendo oggi, l’inadeguatezza a rispondere a banalissime esigenze di interazione sociale minima urbana, a cui invece suppliscono molto meglio quegli ambienti non segregati che, invece di separare bruscamente l’individuale dal collettivo, li mescolano con poche soluzioni di continuità, dai balconi o verande ai ballatoi agli androni al verde familiare che trascolora in quello condominiale, fino a cortili o setback organizzati come tali, che con l’interruzione minima di sicurezza del confine del lotto (più o meno fisicamente marcato) cedono spazio alla strada, o al parcheggio, allo slargo, al giardino di quartiere. Dove si è operata in origine una forte scelta di separazione e segregazione (di solito là dove ce n’è una analoga funzionale e sociale) viene comunque avvertito di più il limite delle restrizioni indotte dall’emergenza sanitaria della pandemia, solo parzialmente attenuato dall’eventuale opulenza degli ambienti individuali-familiari. In altri casi ha invece prevalso in maggiore o minore misura la logica che oggi potremmo definire del «cohousing allargato», che è poi la stessa del quartiere coordinato o neighborhood unit al netto della specializzazione residenziale.
Emergenza burocratica o pausa di riflessione?
Con tutte queste premesse, colpisce in questi giorni la scelta dell’amministrazione di New York City (non dimentichiamo: nata dal primissimo ‘800 proprio come paradigma dell’equilibrio moderno pubblico/privato transustanziato nella scansione strade-isolati) di fermare qualunque attività di riflessione teorica o pratica sullo spazio pubblico urbano. Come recita efficacemente la lettera di protesta degli architetti associati al sindaco Bill de Blasio, oltre la pura rivendicazione economica e professionale: «chiediamo alla città di ripensare la propria scelta di bloccare la progettazione pubblica, essenziale per la realizzazione di trasformazioni urbane. E che a differenza dei cantieri di costruzione si può sviluppare in completa sicurezza sanitaria in telelavoro da casa o da studio professionale». E anche dagli esiti di questo apparentemente marginale e burocratico conflitto tra AIA locale e Department of Design and Construction delegato per questi aspetti, forse si capirà meglio il motivo del blocco. Puro eccesso di potere sanitario-militare per cui si considerano «necessità essenziali» solo quelle classificate come tali dai medici ospedalieri e dalla loro visione strabica e autoritaria della società, oppure pausa di riflessione pubblica sul proprio ruolo? Magari anche non del tutto consapevolmente, si sta capendo quanto la progettazione della città pubblica in tutti i suoi aspetti (dagli edifici di proprietà pubblica agli spazi pubblici veri e propri) possa essere cruciale per la qualità dell’abitare e delle relazioni sociali, cogliendo l’inattesa occasione dell’emergenza per un virtuoso stop-and-go. Chissà
Riferimenti:
James S. Russel, New York City Halts Public Design Work, Architectural Record, 6 aprile 2020