Come ben sappiamo tutti, esiste una grossa, enorme differenza tra in più e invece. Ma come in fondo sappiamo altrettanto bene, sulle sfumature di quella differenza ci giocano tutti, almeno tutti quelli che ci promettono mari e monti, salvo poi rifilarci una mediocre patacca. Lo spazio pubblico è uno di questi territori di caccia dei sofisti da quattro soldi, come ben insegna ad esempio la parabola dei centri commerciali. In origine, almeno nelle intenzioni dei progettisti architetti a cavallo fra gli anni ’30 dei primi esordi e il debutto ufficiale nella società suburbana dei ’50, il modello della piazza tradizionale viene semplicemente aggiornato da un punto di vista tecnico e organizzativo, senza nulla perdere del proprio valore sociale, anzi guadagnandoci in efficienza e sostenibilità economica. Esattamente come la piazza che dovrebbe affiancare (un ideologico inoltre, insomma) lo shopping mall consiste di spazio pubblico su cui si allineano attività commerciali private, corretto però con certe innovazioni tecniche, sommariamente la gestione del parcheggio auto e del clima controllato.
Inoltre, invece
Ma c’è un aspetto fondamentale su cui si sorvola, anche per mancanza oggettiva di riferimenti storici a cui guardare: quel luogo non si affianca affatto alla piazza pubblica, non è inoltre, ma è monopolisticamente invece. Lo rivela al senno di poi quasi subito anche la rivista Time, quando in un articolo che dovrebbe parlare secondo il titolo di “Fuga nel suburbio” parla invece quasi solo di quello scatolone, di com’è fatto, di come freudianamente vorrebbe riassumere tutto il senso della vita. Ciò che non coglievano Victor Gruen e i suoi colleghi perfezionatori del modello alla metà del XX secolo, era che le loro valutazioni esclusivamente spaziali ed estetiche coprivano solo in parte la faccenda. Ovvero che una piazza non è solo quella spianata tra una fila di negozi e un’altra, come forse può apparire riassunta negli schizzi sul tavolo del progettista, c’è un inoltre da mettere in conto. E invece la logica suburbana funzionava in altro modo, sostituendo al cittadino il lavoratore consumatore, alla città il mosaico spezzettato dello sprawl, all’identità delle funzioni integrate (un inoltre accanto all’altro) la schizofrenia della segregazione (abitare invece di lavorare invece di consumare invece di ricrearsi). E quanto si esplicitava così chiaramente nello spazio vergine paranoico suburbano, avanzava anche nell’ex casa della società urbana, e nelle sue logiche e percezioni.
La città è dei cittadini, forse
Da un certo punto di vista, tutta l’epica battaglia novecentesca tra i sostenitori della modernizzazione/razionalizzazione urbana, e quelli della tradizione/intreccio/intrico da quartiere storico, ruota proprio attorno a quelle due idee. La famosa macchina per abitare, che quasi naturalmente inizia subito a doversi specializzare su funzioni distinte, che siano la residenza, il commercio, la produzione, la ricreazione, e che lo spazio pubblico inizia a viverlo un po’ troppo nella medesima logica parcellizzata, ovvero a iniziarne a propria insaputa la cancellazione. Basta riflettere un istante sui due modelli urbani conflittuali riassunti dalle idee di Jane Jacobs e Robert Moses, per cogliere il riferimento: da un lato anche il banale marciapiede assume quel ruolo centrale identitario, per la sicurezza, l’economia, la vitalità, l’abitabilità, i famosi occhi sulla strada non certo attenti alle marche dei veicoli in transito; dall’altro la fortissima specializzazione del verde pubblico di varia scala, dei campi gioco scolastici o di quartiere, delle strutture sportive organizzate, delle surreali piazze civiche da contemplazione estetica. La stessa trasformazione della strada urbana in arteria a scorrimento veloce, o la nascita di vere e proprie stravaganze come i sottopassi commerciali, le gallerie chiuse emulanti gli antichi passages, le passerelle pedonali sopraelevate, la dice lunga da questo punto di vista. Tutto frammentato, tutto rigorosamente invece.
Prestazionalità
Lo capisce molto bene un attento osservatore dei comportamenti umani in quegli spazi schizofrenici, William Holly Whythe, quanto attrito esista fra la separazione meccanica e la nostra identità desolatamente organica. I filmati sistematicamente raccolti in The Social Life of Small Urban Spaces (purtroppo circolato molto poco dalle nostre estetizzanti parti) raccontano proprio questo, gente alla ricerca di posti non privati da abitare, e che si scontra via via con varie difficoltà, più o meno creativamente superabili. Oltre all’approccio comportamentale, resta comunque anche quello spaziale-progettuale, sempre che il progettista colga lo spunto, come per esempio la revisione delle norme di zoning basata proprio sulle osservazioni di quel film, e che fa nascere il primi spazi privati a uso pubblico. Si tratta di un piccolissimo passo avanti, ma comunque di un progresso, pur contraddittorio come dimostrerà la nota esperienza di Zuccotti Park: disegnare una superficie e dire è pubblica, rappresenta solo una sillaba del discorso. Occorre tutto il resto, da scoprire, leggere, e soprattutto rilanciare adattandolo al contesto. Cosa funziona e cosa no, a costruire identità e città adeguate ai tempi? Un buon osservatorio per capirlo è una breve rassegna del modo in cui nel mondo è stata letta la strafamosa riqualificazione della High Line di Manhattan.
Una passeggiata in passerella con troppi invece
Che innanzitutto non è un “progetto” ma il tassello di un piano/programma assai più complesso, di valorizzazione immobiliare, ripopolamento, gentrification pilotata di un distretto urbano. E che nonostante l’uso intelligente del termine “parco”, nonché di tecniche molto avanzate e altrettanto intelligenti di arredo a verde, sfruttando piante che avevano già dimostrato di convivere benissimo in quel luogo senza troppo bisogno di manutenzioni irrigazioni eccetera, è solo un ponte ferroviario dismesso, e neppure del tipo a terrapieno tanto frequente nelle nostre cinture urbane. In definitiva, parlare di riferimento urbanistico alla High Line ogni qual volta da qualche parte si profila l’idea di qualcosa lineare e sopraelevato, è poco più di una battuta. Come quando definiamo agricoltura urbana il basilico sul davanzale, insomma. Le questioni, invece (invece) ruotano come sempre attorno al tema dello spazio pubblico: lo è davvero, oppure si cede alla logica della passerella commerciale travestita, oppure addirittura quella striscia sopraelevata diventa una scusa per non realizzare trasformazioni altrove, a livello stradale? O la qualifica di verde, quando si tratterebbe invece di una cosa più simile a un arredo urbano per la pedonalizzazione? Con questi, ed altri aspetti di valore sociale e urbanistico, ci si deve confrontare, per non confondersi e confondere. Ci ha provato, in una prospettiva di confronto internazionale, il canadese Globe and Mail.
Riferimenti:
Dave McGinn, The High Line effect: Why cities around the world (including Toronto) are building parks in the sky, The Globe and Mail, 1 ottobre 2014