Gran cosa l’istinto, tutta da capire, e appunto roba che con la comprensione e la riflessione ha poco in comune: entrambi gli aspetti devono entrare in gioco in modo adeguato ed equilibrato, altrimenti non va, proprio non va. Quei filmati buonisti da social network che ci mostrano la mamma in allattamento che accoglie senza pensarci un istante il neonato di un’altra specie, di solito trascurano il resto del copione, ovvero che seguendo coerente il medesimo istinto, quella mamma finirà per combinare cose assai meno edificanti, almeno nella logica da cartone animato scelta per il post. Ovvero allontanare in qualche modo l’intruso per il bene della cucciolata. Fin qui l’istinto, che non bada tanto consapevolmente alla complessità (l’esistenza di altri cuccioli e in genere del mondo esterno), ma nel caso nostro di scimmie nude vagamente pensanti sarebbe utile andare un pochino oltre, perché la nostra vita e il nostro benessere dipendono notoriamente proprio da una equilibrata convivenza di infinite cucce e cucciolate, le quali spesso e volentieri si cimentano in varie declinazioni di questo swinging scambista. Nel campo dei trasporti si chiama almeno in due modi a seconda della prospettiva: intermodalità, oppure spazio condiviso.
Un topo in mezzo ai gatti saluta il cane
Pare forzato o addirittura errore imperdonabile, accostare intermodalità e spazio condiviso, ma noi non vogliamo certo fare gli ingegneri segmentando il mondo a uso progettuale o gestionale, e proviamo a tenere anche quelle cose dentro la stessa cucciolata per un attimo (anche se un certo istinto ci imporrebbe di separarle). Le varie modalità di trasporto, urbano soprattutto, convivono così nello spazio-tempo: solo nel tempo se per intermodalità intendiamo un utente che entra ed esce da vasi comunicanti ma autonomi, a velocità variabili; solo nello spazio se affianchiamo senza barriere importanti le varie modalità ed esse convivono parallele; sia nello spazio che nel tempo quando gli utenti transitano dall’una all’altra modalità con un flusso molto elastico e continuo. Succede molto molto di rado, questo, perché di solito prevale l’istinto a ritrarsi, a evitare gli attriti, ad essere conservatori, finché almeno qualcosa non ci spinge (ci obbliga) a non esserlo più, e ci fa scoprire orizzonti diversi. La gestione del traffico automobilistico da sempre assume i caratteri del puro istinto, sia considerata da dietro il volante, sia osservata a riguardosa distanza dal marciapiede: chi guida vuole, pretende, di arrivare ovunque nel più rapido tempo possibile, chi cammina vuole mantenere la più rigida barriera fra sé e quei pazzi scatenati. Scordandosi di far parte della tribù, di solito, appena anche lui sale sul veicolo. Così si creano strane e curiose e perverse alleanze, tali da far scordare intermodalità e spazi condivisi, anche se di fatto ci abitiamo in un modo o nell’altro tutti dentro.
Un bel cartello e passa tutto, anche il buon senso
Le auto vanno troppo forte, sono pericolose? Confiniamole in un loro condotto specializzato, detto galleria, autostrada, multicorsia veloce. I pedoni e i ciclisti (lo è anche chi scende da un mezzo pubblico, pedone, almeno per un po’) rischiano? Mettiamoli su una bella passerella, sottopasso, canalina laterale protetta. Ma i vasi sono comunicanti, il sistema è unico, la cosa è sicura è solo questione di tempo: più prima che poi l’interfaccia arriva, e sono dolori se lo si è negato sino a quel momento. Negare il contesto per esempio vuol dire lavorare soltanto sul nostro cervello, scordandosi che lui funziona proprio istintivamente guidato dal contesto, non da valori universali, che appartengono alla riflessione. Quando compare davanti al mio cruscotto da automobilista un cartello con un limite di velocità, l’istinto mi dice che rottura di scatole, e solo dopo ricordo l’esistenza del mio alter ego pedone da rispettare in quanto parte di me. Il medesimo meccanismo vale per chi cammina con semafori, strisce, insomma tutto ciò che lascia lo spazio com’era salvo tuonare dal cielo: pentiti, peccatore! A cosa serve, quindi, continuare per quella strada, minacciare sanzioni mostruose, l’ergastolo, l’esclusione sociale, il marchio di Caino, invece di riconoscere che esistono una cosa come intermodalità e spazio condiviso, e che vanno gestite in quanto contesto? Tutto qui: simpatica la gattina che accoglie il cucciolo di cane, ma il resto del film, quello che ci viene pietosamente nascosto, è da circa un secolo che lo viviamo sulla nostra pelle.
Riferimenti:
Hayley Birch, Do 20mph speed limits actually work? The Guardian, 29 maggio 2015