Dalle Stelle (e Strisce)…
Smart Growth. Per dirla col sito dell’American Planners Association: «un modo di dire che sta dappertutto, in bella vista, dentro a conferenze, colonne di giornali, libri, legislazioni statali, piani regolatori e ordinanze di zoning. Evoca forti emozioni, pro e contro, e tutti sembrano avere l’esclusiva riguardo al suo significato, da dove viene, se ne abbiamo bisogno, come bisogna praticarla. Non c’è comunque dubbio che, comunque intesa, significa un cambio di rotta nel modo di pianificare». Prima di entrare in qualunque dettaglio, una precisazione: questo tipo di approccio alla crescita, che ereticamente tradurrei in italiano con fatti furbo (torneremo poi sulla questione) vuole essere l’antitesi della onnivora crescita suburbana a sprawl, che a sua volta un po’ meno ereticamente tradurrei con spaparanzamento metropolitano. L’APA dice che la smart growth cambia il modo di pianificare. E non solo, verrebbe da aggiungere pensando a quanto limitativa sia questa traduzione italiana dello sterminato verbo to plan. Ma andiamo avanti, che si fa tardi.
Riassumendo e banalizzando al massimo, i principi fondativi di questa accattivante moda/parola d’ordine sono un aumento delle opportunità insediative per i residenti, in modo strettamente connesso coi servizi, il commercio, la mobilità, e tutto quello che si trascinano appresso in termini di compatibilità e sostenibilità ambientale. Dato che in un approccio sistemico una ciliegia ne tira sempre molte altre (insieme, spesso e ahimè, a grosse angurie), questi principi fondativi elementari si articolano in parecchi altri. Si potrebbero citare la sostenibilità anche economica dell’insieme di scelte, o la progettazione «integrata» di insediamenti residenziali che valorizzino la mobilità e accessibilità pedonale, lo stop alla iper-specializzazione nell’uso dello spazio, e il corrispondente incentivo a miscelare funzioni e destinazioni, così come a «miscelare» i decisori, favorendo la maggior possibile (ed effettivamente praticabile) partecipazione di tutti gli interessati ai processi insediativi che li riguardano. Regole di buon senso della nonna, verrebbe da pensare, salvo osservare poi come basta guardarsi attorno per essere certi che ci sia stata di recente una strage di nonne, e relativi buoni consigli.
Un capitolo importante dell’approccio smart growth riguarda abbastanza ovviamente la tutela degli spazi aperti, a tutte le scale ma in particolare a quella metropolitana/regionale, dei grandi corridoi agricoli e naturali che la crescita (a modo suo, altrettanto smart, proprio nel senso di furbetta) delle grandi reti infrastrutturali e della città diffusa mette in pericolo. Spazio aperto è infatti un termine che si può declinare in molti modi, tutti però ambientalmente e spesso fisicamente interdipendenti: spazi naturali dentro e attorno gli insediamenti abitati, che offrono un servizio anche quotidiano ai residenti, un habitat per specie vegetali e animali, occasioni per il tempo libero, occasioni importanti di lavoro e sviluppo economico in agricoltura, luoghi di pregio paesistico e zone ad altissimo valore ambientale (come le zone umide). È del tutto evidente – sempre, ovvio, se si ha avuto una nonna di buon senso – come questo rinvii a questioni economico-ecologiche più ampie, ma non per questo astratte o astruse, visto che fanno vivere e respirare il pianeta, e tutti i metri cubi di «sviluppo» che ci stanno appoggiati sopra. Finché dura.
Come accennavo citando in apertura le opinioni dell’APA, nemmeno alla smart growth mancano, puntualmente, nemici e critici feroci. Ne è un esempio l’articolo del guru pro-sprawl a prescindere Wendell Cox, che a partire dalla lettura (assai semplificata) di uno dei concetti base dello anti-sprawl-movement, ovvero l’aumento della densità locale per salvaguardare il territorio vasto, calcola impatti ambientali mediamente superiori a quelli possibili mantenendo l’attuale schema di crescita, e sostanzialmente ininfluenti visto che la soluzione alle questioni ambientali sarebbe soprattutto tecnologico-organizzativa, e non legata alle forme dell’insediamento. Vale però, forse, la pena di citare una delle frasi conclusive di questo articolo, per chiarirne meglio lo spirito: il movimento per la smart growth «non ha identificato nessun vero rischio a sostegno delle sue draconiane proposte. Per dirla con Lone Mountain Compact [un nome che è tutto un programma n.d.T.], bisognerebbe lasciare la gente libera di vivere e lavorare dove e come vuole, se non esiste una tangibile minaccia per altri». Verrebbe da rispondere al signor Cox, che la minaccia viene indicata come piuttosto «tangibile» da milioni di studiosi, indipendentemente dai panorami di Lone Mountain. Ma questo ci porterebbe troppo lontano dal piccolo orticello padano che è il vero oggetto dell’interesse, a cui doverosamente torniamo subito e di colpo.
… alle Stalle (nel senso buono, anzi ottimo!)
Traducevo ereticamente in apertura la smart growth a stelle e strisce con un vagamente (ma non troppo) sgangherato italico fatti furbo!Questo per due motivi: farla breve, perché di filologia si può anche morire di fame; farla tutta, o meglio per tutti. L’ha già detto l’American Planners Association, che sul termine si può discutere a lungo, figuriamoci poi discutere sulla sua declinazione locale. Ecco: quel «fatti furbo» almeno dice qualcosa che salta subito all’occhio, o al naso, e si ricorda. Per la filologia, si può aggiungere che «crescere» in questo senso è soprattutto «farsi», e che anche la traduzione di smart può essere, appunto «furbo». Basta così, per i sofismi da oratorio di oggi: facciamoci furbi.
Furbi in senso buono, come raccontava magistralmente anni fa Giorgio Bocca, nonnino finto disorientato, una gita «fuori porta» in quella che vorrei iniziare a chiamare la Milandia Orientale, ma dove lui turista per caso distingueva ancora Melzo, Gorgonzola, Truccazzano, ecc. Per poi raccontarci un mondo di piazzole di sosta, centri commerciali e abitanti globalizzati, spazio-tempo confusi, fino all’agognato ritorno alla vetero-città, davanti al vetero-schermo televisivo, mangiando una vetero-scatoletta. Se invece ci facciamo esplicitamente furbi, e chiamiamo la Milandia Orientale col suo nome, ci troveremo molto di tutto e molto di più. A partire dal concetto di «fuori porta», che Bocca segnava simbolicamente a partire dai sottopassi della cintura ferroviaria. Senza citare i riferimenti colti di Boccioni o Sironi, che già agli albori del secolo scorso spostavano le porte della città di qualche chilometro, nei varchi fra le ciminiere e i primi covoni all’orizzonte, basta ricordare lo «Stradon per andare all’Idroscalo», dove il vagabondo di Jannacci trascina le sue Scarp de Tennis, per capire che la nostra Janua Metropolitana dovremo cercarcela parecchio più in là.
Ben oltre la tangenziale, l’aeroporto e i limiti comunali, non c’è bisogno di documenti di pianificazione o tabulati statistici per «vederla», la città, a partire dall’uso corrente degli spazi: aperti, di enclave più o meno elegante o formalizzata, improvvisati come le già citate piazzole ghiaiose da cantiere, sosta per telefonata, pipì improrogabile del pupo, chiosco di patate fritte abusivo e via dicendo. Del resto anche il Parco dell’Idroscalo, parecchio semi-privatizzato da vari assessori provinciali col pallino dei divertimenti organizzati, o la grande ruota panoramica del vecchio Luna Park lì di fronte, sono pienamente ed esplicitamente urbani, nemmeno troppo periferici. Per trovare qualcosa di simile ad una porta, bisogna provare magari con l’architettura di Niemeyer (pure a noi, ci tocca, ma qui non è del tutto male), o meglio ancora più avanti, con il cavalcavia chiuso a panino fra la neo-cittadella in stile berlusconiano (ma almeno questa non è sua) di San Felice, e il sironiano ponte a campate sullo scalo ferroviario Ortica. Qui, dopo l’incrocio a due livelli e lungo una muraglia di precompressi che segna il confine nord, si inizia a respirare piur sulla grande arteria simil autostradale qualche refolo di spazio aperto.
Niente a che vedere con la campagna vera e propria, beninteso: siamo solo sulla soglia, e tutto è poco più che simbolico. Come le episodiche zaffate di letame che in qualche stagione dell’anno si mescolano agli scarichi del traffico e ai fumi industriali, o alle spettacolari prospettive di verde della tenuta di Trenzanesio, che la statale attraversa per un lungo tratto, e che è significativamente di proprietà della famiglia Invernizzi. I proventi della campagna investiti in città, e solo concentrato simbolico di pianure ricche di vacche, stalle, e relative creme e cremone. Simbolo e basta, perché superato questo tratto l’orizzonte continua a chiudersi a intermittenza, secondo le scelte comunali e locali in termini di sviluppo «a nastro», ovvero con gli insediamenti produttivi e commerciali a vanificare tutti gli investimenti in strade (a spese del contribuente), per usarle come pista di accelerazione-decelerazione per i fatti propri. Come ben sanno pendolari e week-enders da spese del sabato pomeriggio. Bisogna superare la linea della nuova tangenziale esterna, per iniziare davvero a respirare un po’, a vedere i corsi d’acqua che tagliano perpendicolarmente la statale, fino a una cascina abbastanza verosimile, ma che per il viandante motorizzato si esibisce in un cubitale CASCINA ROSINA FORMAGGI, partecipando a suo modo al ribbon development. Poi, mentre il solito viandante si sta chiedendo se davvero siamo finalmente arrivati «fuori porta», appaiono di colpo l’Adda, che qui segna il confine fra le province di Milano e Cremona, e un cartello che indica la nostra prima tappa volante: il Parco della Preistoria.
Variazioni: uno
Perché, vista l’impossibilità (e direi forse incapacità) di declinare davvero anche solo uno dei temi possibili declinati dalla smart growth, voglio limitarmi qui ad osservare in modo ribaltato un simbolo della città diffusa: il parco tematico. Ne abbiamo già parlato nella versione più nota, di grande astronave eterodiretta, che atterra schiacciando qualunque cosa sotto pupazzoni giganteschi, o soffocandola nelle sue spire di zucchero filato. Ora, appena fuori porta e dove dovrebbe iniziare la campagna (?), questo parco a tema rappresenta un contraltare in qualche modo positivo a tutto quanto della città diffusa visto sinora, cascine rosine incluse. Si può tranquillamente citare, dal sito web: «Il Parco della Preistoria è un’area naturale costituita da un bosco secolare, resto dell’antica foresta planiziale padana, di oltre cento ettari sulla sponda sinistra del fiume Adda, a soli 25 chilometri da Milano».
Li abbiamo appena attraversati, quei soli venticinque chilometri, ma questo posto sembra un po’ meglio. Innanzitutto quello stare nel «resto dell’antica foresta planiziale», e non sopra il resto di foresta, o invece del resto di foresta, è vero. Niente baracconi multipiano che sporgono da pochi ciuffi di alberi, ma una striscia di verde lungo il corso del fiume, che a modo suo (impermeabilizzazione parziale dell’accesso al fiume a parte) aiuta a conservare questo inizio del tratto pianeggiante dell’Adda, e prima parte del settore meridionale del parco fluviale. Non ci interessa tanto, qui, discutere sul senso profondo di collocare dinosauri di plastica a grandezza naturale sulle rive dell’Adda, ma verificare se e quanto l’insieme fa a pugni col sito e il resto dell’insediamento.
Non pare un disastro, se si esclude in parte la scelta dell’amministrazione comunale (forse obbligata) di collocare immediatamente a valle la nuova zona industriale: si salva così forse l’integrità del bel centro storico, un po’ discosto dal fiume, ma si isola eccessivamente il corso d’acqua per un lunghissimo tratto. Per il resto, siamo a mille miglia dalla solita logica dello scatolone postmoderno sul ciglio della statale, anzi il percorso d’accesso mima forse involontariamente certi santuari della pianura, col viale dei tigli fotocopia di quello del cimitero, che la domenica si intasa di auto, moto, biciclette e bambini a caccia di dinosauri di plastica. Unico vero neo, che accomuna il Parco della Preistoria alla logica antidiluviana dello sviluppo «a nastro» (anche se è piuttosto distante dalla statale), l’accesso totalmente deregolato, tramite una stradina che sembra un ingresso poderale o poco più, immediatamente dopo il ponte sul fiume.
Per il resto, sembra non ci sia niente che una buona riprogettazione leggera non possa correggere: ci sono rapporti col fiume, il centro storico, il sito in genere e l’ambiente circostante. E non c’è bisogno di un ciclo di convegni internazionali per spiegarlo al popolo. Quello che poi il popolo va a fare lì dentro, sia orda di bambini o pullmanata di curiosi in gita fuoriporta per i 100 ettari di bosco e mostri di plastica, sono fatti suoi. O no? I fatti nostri invece si inoltrano più profondi nella Milandia Orientale, che qui a Rivolta d’Adda, forse per via del cambio di provincia sembra aver superato una seconda «soglia», dall’anticamera della campagna alla campagna vera, per quanto di campagna megalopolitana si tratti. Le cascine sembrano un po’ meno rosine, e i cartelli che indicano i vari tagli nella linea continua del prato sul ciglio non sono più una caricatura delle insegne di supermercato, ma veri cartelli di quelli che piacerebbero all’Aldo Busi ex rappresentante di commercio, tipo vendita galline chilometri cinque. Per proseguire verso oriente e il punto più rarefatto tra le due aree metropolitane, milanese e bresciana, da Rivolta si possono scegliere due alternative di massima: quella ovvia e facile, o quella un po’ meno ovvia e facile.
Variazioni: due
Visto che non stiamo percorrendo la tundra, ma una pianura irrigua, asfaltata e illuminata bene, le alternative si possono percorrere tutte e due. Una per volta, naturalmente. La prima più facile è quella che prosegue sulla stessa statale, oltre la rotatoria di ingresso al centro storico di Rivolta, dritta come una freccia su un percorso circa parallelo alla linea delle Prealpi, ora ben visibili verso nord. Se qualcuno aveva pensato che la «soglia» oltre il ponte dell’Adda fosse qualcosa di serio, ora dovrebbe rapidamente cambiare idea: si replica quanto già visto, più o meno, nei «soli 25 chilometri da Milano» della pubblicità del Parco. Ovvero precompressi multicolori, multidestinazione, multiparassiti dell’asta stradale a spese del contribuente, e nei varchi prospettive aperte di campagna vera, soprattutto verso sud e la provincia di Cremona (qui stiamo invece viaggiando ai limiti meridionali di quella di Bergamo). Qualche chilometro più in là, il grande santuario di Caravaggio sembra sorgere solitario e maestoso dalla pianura, ma avvicinandosi si nota che l’effetto baraccone ha colpito anche qui, in questa sorta di parco a tema ante litteram, dove l’attrazione principale è la santificazione della geografia: il confine fra alta pianura asciutta e piana irrigua, segnato dalla sorgente sacra. Il resto, mi consentano credenti e storici dell’arte, non si discosta molto, a ben vedere, dalla passeggiata nel giurassico plastificato che ci siamo lasciati alle spalle.
Ma la religione, si sa, è luogo privilegiato del miracoloso, e qui nonostante i secoli di utenza affezionata (o forse grazie ai secoli eccetera) il parco a tema ha un buon rapporto col sito, o meglio costituisce un sito da solo, che si può ammirare soprattutto da qui, ovvero dal retro, anziché arrivarci dal viale prospettico alberato che scende dalla Padana Superiore. Già, Padana Superiore, qui più o meno al chilometro 170 qualcosa, dalle scaturigini in Borgo Dora, a Torino. Il fatto è che la ex statale Rivoltana, uscita da Milano tre caselli di tangenziale più a sud della Padana (da Gobba-Palmanova a Forlanini), risale poi impercettibilmente, fino ad incrociarla di nuovo subito a est di Caravaggio: ed è un’altro, ennesimo «fuori porta». Una porta che ci conferma, se non l’avevamo ancora capito, di stare immersi fino al collo nella città diffusa, o dispersa che dir si voglia, con la finta campagna che inizia e poi finisce, tale e quale a un parco urbano, e i capannoni e le rotatorie, e magari la bellissima architettura di un antico casale o una cappella da ciglio strada a dare l’impressione di un ingresso in qualcosa di nuovo … macché, ricomincia tutto daccapo. Un tutto che prosegue fino all’incrocio fra la Padana e la Soncinese, che sale dalle pianure cremonesi attraverso la piana asciutta di Romano, al pedemonte bergamasco.
Ovvero sbuca dal «percorso alternativo meno facile» che avevamo lasciato in sospeso. Se invece di proseguire da Rivolta verso est, si circumnaviga il perimetro esterno del Parco della Preistoria e della contigua zona industriale, si sbuca a sud del centro storico, sull’ennesimo viale di tigli che dopo un po’ si trasforma in una strada di campagna intercomunale, dal percorso più o meno parallelo all’Adda. Questa strada finisce nel centro storico di Spino, dove si incrocia la nostra «alternativa», ovvero la direttrice Pandino-Soncino, a mezza strada fra il percorso di alta pianura della Padana e quello medio della 235 Orzinuovi-Pavia. È qui, nella piana del Serio e degli altri infiniti corsi d’acqua piccoli e medi, che si nota di più la trasformazione strisciante nell’uso dello spazio ex rurale: lo spaparanzamento territoriale, perché sprawl a noi italici evoca altre cose, che si notano soprattutto lungo la Padana, mica qui. Almeno non ancora, ma alcune tracce pare proprio di vederle già.
Una decina di ettari, forse meno, di spazi alberati sul ciglio della statale (ma con i primi edifici bassi e molto arretrati), praticamente invisibile se non si guardano i cartelloni pubblicitari. Cito dalle pagine web: «Center Park offre diverse opportunità di divertimento e relax, con piscine, scivoli, giochi d’acqua, ma propone anche interessanti attrazioni, dalle più classiche come il minigolf, i video games, il parco giochi bambini, alle più emozionanti con la pista delle minimoto in un vero e proprio circuito omologato per gara. I servizi all’interno del parco sono garantiti da bar, paninoteche ed un grandissimo ristorante. Sdraio, ombrelloni e parcheggio sono gratuiti fino ad esaurimento. Il ristorante del parco, è particolarmente adatto per accogliere tutto l’anno, (su prenotazione), feste e banchetti, (fino a 500 coperti)». Non è chiaro cosa significhi essere particolarmente adatto per accogliere tutto l’anno, ma il resto rassicura e conforta: un vero e proprio servizio territoriale, da rendere obbligatorio per tutti i comuni con popolazione superiore a due abitanti. E anche qui, basta guardarsi attorno, senza bisogno di chiamare esperti, salvo per esempio quando i “video games” lasceranno il posto a diavolerie virtuali sofisticatissime. Che però in quanto virtuali non hanno bisogno di scatoloni aggettanti, e vertiginose curtain walls a specchio, a luccicare di metri cubi sulla padania. Certo, come tra i dinosauri dell’Adda si può far di meglio, ma per adesso teniamocelo stretto, il parco a tema acquatico di questo crocicchio della Milandia Orientale!
Tornando a casa
Dato che la gita fuori porta sembra essere andata meglio, sinora, di quella del finto nonnino Giorgio Bocca, è anche possibile sulla via del ritorno verificare se le impressioni dell’andata sono poi così generalizzabili, e la risposta è sì, senz’altro. Se si risale la Soncinese in direzione dell’aeroporto di Bergamo, il percorso con le ovvie varianti storico-geografiche replica le medesime immagini di nastri insediativi precompresso-illuminati (si fa sera), sempre più fitti man mano ci si avvicina al pedemonte e all’anello delle tangenziali orobiche. Anche l’asse della statale «Francesca», che dal ponte sull’Oglio di Palazzolo scorre verso ovest fino a quello di Canonica-Vaprio sull’Adda, ripete nel paesaggio dell’alta pianura la stessa infilata di vivaisti, mobilieri e ammennicoli vari, che dai centri storici discosti dal tracciato si avvicina sempre più decisa e ingombrante, spesso a nascondere la vicinissima linea delle montagne.
E dopo l’area industriale Zingonia-Dalmine, siamo di nuovo nell’ambiente metropolitano, senza dubbio e senza fallo. Poco più a nord, il parco tematico Minitalia di Capriate non fa danni a nessuno, salvo stare fra il turista medio e il villaggio operaio ottocentesco Crespi d’Adda, che gli sta proprio dietro e che come si dice «il mondo ci invidia». Chissà che un giorno o l’altro, ne facciano un parco a tema, dove i bambini possano sperimentare per finta il brivido del lavoro minorile sottopagato. Sperando naturalmente che i loro coetanei pachistani o mongoli possano venire a giocare con loro. Ma questa è un’altra storia.
(questo articolo era stato scritto per il sito Eddyburg nel 2003, e da allora il paesaggio descritto è cambiato, sia direttamente per le opere stradali legate a Expo che per gli effetti allargati della Bre.Be.Mi. mai lontanissima dalla traiettoria del percorso; salvo qualche piccolo aggiustamento si è comunque lasciato integralmente il testo originale)