Sono almeno un paio di secoli che lo spopolamento rurale è vario oggetto di discussione. Per dirla in altri termini, da quel dì si è enormemente accelerato il processo di urbanizzazione dell’umanità, da piccoli nuclei civici di privilegiati che campavano di virtuosa interazione con la sterminata campagna circostante (ce lo ricordava già Adam Smith nel suo Wealth of Nations), a forma prevalente di insediamento umano. Spopolamento rurale significa tante cose: crollo dell’occupazione contadina, mancata manutenzione del territorio e sua trasformazione anche radicale, in senso suburbano, o di industria diffusa complementare, a volte vero e proprio degrado da abbandono. Nulla di nuovo, se si pensa al dissesto idrogeologico indotto in molte aree dai processi di successiva deforestazione a usi urbano-industriali, messa a coltura delle zone disboscate, e successivo abbandono. Poi ci sono gli insediamenti urbani minori, e qui casca l’asino perché tutto il mondo è paese.
Cioè, come accade col suburbio (che del centro minore è la versione postmoderna e mercatista) si produce una forma di identità distorta e nostalgica, a mescolare cose che non si mescolano affatto, almeno così come se le immaginano i rimescolatori da cartolina. Succede sin dai tempi delle prime discussioni novecentesche sulla tutela del paesaggio: l’inscindibile unità di natura e artificio, elementi geografici e trasformazioni antropiche, che ovviamente sono avvenute spesso e volentieri su un arco di tempo piuttosto lungo. Quali fanno parte del paesaggio legittimamente e quali no? Quali sono innegabilmente dannose, meglio levarle di torno, e quali no? Impossibile dire, perché si ricasca nella questione iniziale, dello spopolamento: quando l’evoluzione urbana “propria”, ovvero la grande concentrazione diciamo metropolitana, produce aspettative a cui il contesto insediativo diffuso non può rispondere, ricomincia il ciclo.